La relazione Lanchester al convegno Bachelet

ANTICIPAZIONI A NOMOS 1/2015 VITTORIO BACHELET. A TRENTACINQUE ANNI DAL SUO SACRIFICIO (1980-2015) Il 12 febbraio 2015, il Dipartimento di Scienze politiche ed il Master in Istituzioni parlamentari “Mario Galizia” per consulenti d'Assemblea commemorano il 35° anniversario del sacrificio di Vittorio Bachelet. Sapienza Università di Roma, Sala delle Lauree (ex-Facoltà di Scienze politiche) - Piazzale Aldo Moro 5, ore 15:00 Fulco Lanchester, Bachelet e la Facoltà romana di Scienze politiche BACHELET E LA FACOLTà ROMANA DI SCIENZE POLITICHE* di Fulco Lanchester** SOMMARIO: 1 - Premessa. 2 - Bachelet e la Facoltà romana di Scienze politiche. 3 – L’omicidio Bachelet. 4 - I tre omicidi: l’impatto comparato su una comunità . 5 - Conclusioni. 1 – Premessa. S ignor Presidente della Repubblica, Rettore Magnifico, Signora Miesi Bachelet, on. Legnini, caro Giuliano (perché Tu sei nostro emerito e, quindi, sei di casa), cari Colleghi, Signore e Signori! A nome del Dipartimento di Scienze politiche e del Master in Istituzioni parlamentari “Mario Galizia” debbo ringraziare, e non formalmente, il Capo dello Stato per la Sua significativa presenza al Convegno organizzato per il 35° anniversario del sacrificio di Vittorio Bachelet. Il Signor Presidente, subito dopo la Sua elezione alla suprema magistratura della Repubblica, ha voluto rendere omaggio alle Fosse Ardeatine come simbolico luogo, in cui sono allocati i valori fondanti della nostra Comunità nazionale, rinata sui valori della Resistenza al nazifascismo e retta dalla Costituzione repubblicana. La Sua partecipazione a questo Convegno rappresenta, invece, per noi tutti un significativo omaggio alle vittime delle stragi e degli omicidi che terrorismo e mafia hanno perpetrato nel tempo, in un luogo legato alla memoria di Vittorio Bachelet, di Aldo Moro e di Massimo D’Antona. Sono passati 35 anni dalla morte di Vittorio Bachelet e molte doverose commemorazioni sono state fatte in questi luoghi. Ricordo solo le prime due. La prima in assoluto si tenne il 13 marzo 1980 proprio in questa stessa Aula con il ricordo di Flaminio Franchini, ordinario della prima cattedra di Diritto amministrativo della Facoltà, poi pubblicato nell’annuario accademico 1979/80. La seconda si verificò quando venne scoperta la lapide marmorea (che ora è provvisoriamente ricoverata in un ufficio del secondo piano di quest’edificio, in attesa del completamento della “sopraelevazione infinita” iniziata nel 1992) nel punto in cui Bachelet fu ucciso. In quell’occasione erano presenti i familiari (l’ “Avvenire” dell’8 giugno ricorda il fratello Padre Adolfo, il cognato Giuseppe Trunfio, il rettore Antonio Ruberti, il presidente dell’Azione Cattolica Mario Agnes). Poi nel corso degli anni si sono inanellate tante altre occasioni di riflessione e di ricordo. Dieci anni fa, sempre in quest’aula oramai dedicata a Bachelet, si tenne un convegno organizzato dall’Associazione Vittorio Bachelet (presieduta da Giovanni Conso), in occasione del quale Giovanni Bachelet affermò che era oramai passata una generazione dalla morte del Padre Vittorio e che temeva che il ricordo si sarebbe inevitabilmente scolorito. Questo incontro vuole ribadire con forza la permanenza della memoria sul doppio profilo personale e di gruppo. In questo intervento mi occuperò non soltanto della presenza di Bachelet in Facoltà, ma del gruppo di giuristi della stessa e delle trasformazioni de la Sapienza nell’ambito della transizione del settore dall’Università di élite a quella di massa. Si tratta in sostanza del periodo in cui la stessa venne abbandonata dal potere politico e dalla classe dirigente e considerata non più governabile, in un preciso ambito temporale scandito ? da un lato- dai provvedimenti urgenti del 1973, che pensarono in sostanza al personale e ? dall’altro- dal DPR 382 del 1980, che confermò alcuni indirizzi precedenti, intervenendo parzialmente sulle strutture, ma soprattutto certificò, in ambito romano, la rottura del delicato equilibrio esistente tra accademia e politica nel periodo precedente. In un simile quadro cercherò di evidenziare come ciascuno di noi abbia reagito e sia stato colpito dall’evento dell’assassinio di Bachelet e come lo stesso abbia pesato e influisca ancora oggi in questo spazio, in cui d’altro canto aleggia il Suo esempio. 2 – Bachelet e la Facoltà romana di Scienze politiche. Partiamo da Vittorio Bachelet ed ai suoi rapporti con la Facoltà di Scienze politiche e con l’Istituto di Studi giuridici della stessa (ma prima la denominazione era Istituto di Diritto pubblico e dottrina dello Stato). è un avvicinamento progressivo che si connette al gruppo di giuristi della Facoltà di cui parlerò in seconda istanza, perché Bachelet nasce nella Facoltà romana di Giurisprudenza dove si laureò nel novembre 1947 con una tesi in diritto del lavoro (relatore Lionello R. Levi) sui “Rapporti tra lo Stato e le organizzazioni sindacali”. A differenza dell’amico Leopoldo Elia, che, laureatosi negli stessi giorni e nella stessa Facoltà, era divenuto assistente di Istituzioni di diritto pubblico con Vincenzo Gueli a Scienze politiche e poi di Carlo Esposito e di Costantino Mortati, Bachelet fu nominato nei primi mesi del 1948 assistente volontario di diritto amministrativo da Guido Zanobini, che fino agli anni Quaranta aveva insegnato la materia anche per la Facoltà di Scienze politiche. Durante il decennio 1947-56, Bachelet esplicò un’intensa attività nelle organizzazioni universitarie cattoliche: tra il 1948 e il 1950 fu segretario del consiglio superiore della FUCI e condirettore del periodico Ricerca con Alfredo C. Moro, collaborando altresì alla rivista dossettiana Cronache sociali. Tra il 1950 e il 1959 fu redattore capo e poi vicedirettore della rivista Civitas diretta da Paolo Emilio Taviani. Nel 1958 Bachelet ottenne la libera docenza in Istituzioni di diritto pubblico e, poi, l’anno successivo in Diritto amministrativo, mentre sempre nel 1958 ottenne l'incarico per questa materia nella Facoltà di Giurisprudenza dell’università di Pavia, dove tra i giuspubblicisti operavano ? oltre all’ormai anziano amministrativista Arnaldo De Valles- il costituzionalista Paolo Biscaretti di Ruffia e l’internazionalista Rodolfo De Nova. Nominato vicepresidente dell’Azione cattolica nel 1959, ne divenne ? com’è noto- presidente tra il 1964 e il 1973. Ternato nel concorso a cattedra bandito dall’Università di Ferrara nel 1962 (la terna era composta da Alberto Romano, Vittorio Bachelet e Giulio Falzone, mentre la commissione era composta da Roberto Lucifredi, Massimo Severo Giannini, Pietro Virga, Feliciano Benvenuti, Elio Casetta), venne chiamato dalla Facoltà di Giurisprudenza dell’università di Trieste per il Diritto amministrativo (nella Facoltà agivano tra gli altri: il giuslavorista Renato Balzarini, preside; l’internazionalista Manlio Udina; il filosofo del diritto Sergio Cotta; e il penalista Cesare Pedrazzi). Durante il periodo triestino Bachelet venne confermato in ruolo da una commissione composta da Giovanni Miele (Firenze), Renato Alessi (Bologna) e Vittorio Ottaviano (Catania). Nell’ottobre 1968 venne chiamato a Roma ad insegnare Scienza dell’amministrazione nella Facoltà di Scienze politiche della Libera università di Scienze sociali Pro Deo, in cui dalla fondazione nel 1966 da parte del dominicano padre Felix A. Morlion agivano parecchi docenti della Facoltà di Scienze politiche della statale. In particolare tra questi spiccavano due giuspubblicisti con esperienza politica come Egidio Tosato e Roberto Lucifredi. Fu quindi naturale che nel 1974, sulla base dei citati provvedimenti urgenti e in occasione dell’arrivo di ben 14 cattedre per la Facoltà romana di Scienze politiche, Bachelet fosse chiamato per il Diritto pubblico dell’economia, sulla base della relazione di Roberto Lucifredi e degli interventi favorevoli di Carlo Lavagna, Manlio Mazziotti di Celso, Flaminio Franchini, Antonino La Pergola e Antonio Marzano. Proprio nel 1974 la Facoltà romana di Scienze politiche aveva provveduto a bandire due cattedre per il Diritto costituzionale italiano e comparato (materia ricoperta in successione cronologica, dopo Mortati, come titolari da Egidio Tosato 1902-1984, Carlo Lavagna, Vincenzo Zangara e Serio Galeotti). Nel marzo di quell’anno venne chiamato Antonino La Pergola, che transitò nel settembre nella Facoltà di Giurisprudenza; nel luglio Mario Galizia, che subito scivolò alla I cattedra, ricoprendo il posto di Costantino Mortati, di cui aveva provveduto a raccogliere in quattro volumi alcuni dei principali scritti agli inizi del decennio (Milano, Giuffrè, 1972). Tra i giuristi allora presenti in Facoltà c’erano appunto Egidio Tosato, Carlo Lavagna, Vincenzo Zangara, Roberto Lucifredi, Aldo Moro, Riccardo Monaco, Giuseppe Sperduti. Si stava prefigurando, in ogni caso, l’inizio di un ricambio generazionale molto intenso che vide nel periodo, oltre all’arrivo di Vittorio Bachelet, nel 1976 quello di Giuliano Amato alla II Cattedra di Diritto costituzionale italiano e comparato; di Emilio Romagnoli a Diritto agrario italiano e comparato; di Francesco D’Onofrio a Diritto regionale, e – poi- di Alessandro Pace, Franco Modugno, Sabino Cassese, Federico Sorrentino, Angelo Antonio Cervati. Entrato in servizio in Facoltà il 1° novembre di quell’anno, Bachelet divenne immediatamente direttore dell’Istituto di studi giuridici, carica che mantenne fino al 1977, quando ? passato alla II cattedra di Diritto amministrativo- fu sostituito per un anno dal lavorista Giorgio Branca e poi nell’aprile del 1978 da Giuliano Amato. Membro del Consiglio dei laici, del Comitato per la famiglia e vicepresidente della Commissione italiana Giustizia e pace, divenne consigliere comunale a Roma nelle liste democristiane nel 1976 e poi sempre nello stesso anno vicepresidente del CSM. Questo è il percorso del Bachelet nella Facoltà di Scienze politiche, che ? fino al 12 febbraio 1980- continuò il proprio compito di docente e che nella sua produzione, accanto al profilo strettamente giuridico, manifestò l’apertura alla tematica sociale e politica tipica dei giuristi che insegnano nella nostra Facoltà. 3 – L’omicidio Bachelet. Passo al profilo del ricordo personale. Il 12 febbraio 1980 per la Facoltà e per ciascuno di quelli che lo vissero non rappresenta un fatto storico, ovvero un avvenimento oramai lontano e senza conseguenze, ma appunto un evento che ancora oggi ci appartiene e ci coinvolge. L’assassinio di Vittorio Bachelet costituisce, infatti, un fatto presente e pieno di significati ancora oggi. Me lo ricordo bene quel martedì 12 febbraio, quando Anna Laura Braghetti e Bruno Seghetti spararono contro Bachelet nell’atrio della Facoltà, e l’ho ripetuto anche troppe volte. Quel giorno ero qui al secondo piano. Erano le 11,45 circa, mentre a Giurisprudenza (v. “l’Unità” del 13 febbraio 1980, articolo di Marco Ferrari) Stefano Rodotà e Luciano Violante parlavano agli iscritti alla FGCI, rammento Mario Galizia che esce dalla stanza 8 (in cui erano ammassati i costituzional-comparatisti) per andare a fare lezione (incontrava Bachelet per una simbolica staffetta didattica sulle scale). Ricordo il grido: l’hanno ucciso!; il precipitarsi al piano terra; l’abbraccio con Mario Galizia attonito. Ricordo l’ora circa passata sulle scale senza che nessuno intervenisse ufficialmente; la discussione sul sudario con cui ricoprire il corpo; il mazzo di fiori deposto vicino alla salma; la discussione con le forze dell’ordine. Ricordo le telefonate in stanza 14 (l’allora Presidenza) con cui Rosy Bindi ed io avvertivamo (Lei la famiglia, io l’albergo) che eravamo bloccati in Università per ordine del magistrato; lo sfollamento dalle porte laterali a metà pomeriggio con il permesso del Rettore, e le indicazioni sul ritiro dei documenti sequestrati il giorno prima [(per i carabinieri a S. Lorenzo in Lucina; per la polizia al Commissariato S. Lorenzo; per una cronaca v. Giampaolo Pansa, Sette proiettili per il professore, in “la Repubblica”, 13 febbraio, 1980).] Ricordo la veglia funebre alla sera al CSM. Ricordo anche il giorno dopo. Il vuoto in Facoltà, se si eccettuano le presenze di Giuliano Amato (che dichiarò a Francesco Santini su “La Stampa” del 14 come il nostro corridoio al piano terra fosse da molti anni in sostanza ridotto ad una casbah) e di Federico Mancini, allora ordinario di Diritto del lavoro. Rammento l’imponente manifestazione sindacale con i discorsi di Ruberti, Carniti, Ramat e Petroselli (ed il messaggio di Salvatore Valitutti, Ministro della Pubblica Istruzione), alla presenza di Lama e di Craxi. Rammento i funerali a S. Bellarmino officiati dal Cardinal Poletti e dai fratelli di Bachelet, Adolfo e Paolo, con le esemplari ed allora non completamente comprese parole di perdono dei familiari. Rammento anche i commenti di Pietro Scoppola su “La Stampa” e di Carlo Cardia su “l’Unità”, che evidenziavano come ancora una volta fosse stato colpito un cattolico democratico. Ricordo anche il primo consiglio di Istituto presieduto da Amato dopo l’assassinio e, nel silenzio sbigottito, le brevi e decise parole di esecrazione e di condanna dell’internazionalista Giuseppe Sperduti per il delitto perpetrato da chi aveva colpito un uomo “buono”. Dilagava in tutto l’Ateneo, ma soprattutto in Facoltà, quel sentimento della “quotidianità passiva” messa in risalto da Adolfo Madeo sul “Corriere della sera” (20 febbraio 1980), sintomo di un’angoscia simulata che è stato ricordato da Guido Crainz in un suo recente volume (Il paese reale. Dall’assassinio di Moro all’Italia di oggi, Roma, Donzelli, 2012, pp. 57 ss.). Ricordo, infine, anche la lapide, che testimonia la memoria di quell’evento ed anche oggi rinnovo lo sconcerto semantico per la singolare formulazione della stessa, dove non si parla di dovere “tout court”, ma di adempimento del “suo dovere”. Un simile testo l’ho considerato allora, ed ancor oggi sono di questa opinione, come tipico, anche se inconsapevole, sintomo di un timore sostanziale e della tendenza ad un distacco da coloro che sono caduti. 4 – I tre omicidi: l’impatto comparato su una comunità. Per quanto riguarda ? invece- la prospettiva di gruppo, bisogna riconoscere che i giuspubblicisti della vecchia Facoltà di Scienze politiche non solo avevano una tradizione risalente, che abbiamo esaminato proprio nel recente Convegno in onore di Leopoldo Elia, ma soprattutto che gli stessi hanno pagato il periodo ventennale del terrorismo con il tributo più sanguinoso di tutta l’Università italiana (Moro, Bachelet e D’Antona). Un simile primato, di cui ? e mi ripeto rispetto al 1999, quando intervenni in Aula Magna (24 maggio) in occasione dell’omicidio di Massimo D’Antona- avremmo tutti fatto volentieri a meno, evidenzia tuttavia la necessità di distinguere all’interno di quei tragici avvenimenti. Continuo a ritenere, infatti, che vi sia una differenza tra i tre casi. 2.1- Aldo Moro venne rapito dopo la strage di via Fani e il suo caso ha costituito un evento internazionale che ha spostato gli stessi equilibri politici italiani. La nostra Facoltà lo visse in modo riflesso (passivo ed imbarazzato) e poi, soprattutto, nel ricordo degli allievi (penso a Franco Tritto, ma anche a Nicola Rana e Francesco S. Fortuna), al di là dell’intitolazione dell’Aula XI (oggi significativamente divisa) e dello stesso piazzale delle Scienze, che ne rievoca la memoria in maniera indelebile. L’unica traccia di quanto successe allora nella nostra comunità si trova nei verbali del CdF dove, assenti giustificati Moro e Bachelet, il Preside Riccardo Monaco fornisce una dichiarazione virgolettata di cordoglio per i poliziotti uccisi e l’auspicio per il ritorno del collega. 2.2- D’Antona venne, invece, ucciso in via Salaria, vicino alla propria abitazione e alla Facoltà di Sociologia (allora non c’era ancora quella di Comunicazione) e l’episodio fu considerato come un marginale e misterioso ritorno di fiamma del terrorismo del passato. 2.3- Il caso Bachelet fu, invece, differente. Egli (docente della Facoltà e Vicepresidente del CSM) venne ucciso proprio sulle scale di questo edificio, mentre stava uscendo dalla lezione, accompagnato dalla Sua assistente Rosy Bindi. Si trattò di un episodio che si è trasformato in evento (e utilizzo l’espressione nel senso specifico con cui la usava Pietro Scoppola) non solo per il Paese, con l’assassinio del vicepresidente del CSM, ma soprattutto per l’Università di Roma, per la Facoltà di Scienze politiche e per gli eredi dell’Istituto di studi giuridici, poi trasformatosi in Dipartimento di Teoria dello Stato ed adesso dopo le unificazioni confluito nel Dipartimento di Scienze politiche. Oggi io debbo testimoniare l’impatto devastante dell’assassinio di Bachelet per una piccola comunità universitaria, rappresentativa della più grande università italiana ed in particolare per i giuristi della Facoltà. Ma debbo anche evidenziare che con lo stesso si sia ribadita la perdita di controllo del principale Ateneo romano ed italiano, iniziata nel 1966 con la morte di Paolo Rossi, proseguita nel 1968 con i disordini di Valle Giulia, ribadita con l’espulsione di Luciano Lama da “La Sapienza” nel 1977 (su cui ha scritto pagine interessanti Lucia Annunziata in 1977. L’ultima foto di famiglia, Torino, Einuadi, 2007), proseguita con il rapimento di Aldo Moro (1978), l’omicidio di Vittorio Bachelet (1980) e l’assassinio di Ezio Tarantelli nel parcheggio della Facoltà di Economia nel 1985. 5 – Conclusioni. Il clima del periodo dei cosiddetti anni di piombo ha inciso pesantemente sull’Ateneo e sulla Facoltà di Scienze politiche in particolare. La contestazione, che dal 1968 investì le Università italiane in via di completa massificazione, fece de «La Sapienza» il luogo dove il potere politico-sindacale veniva attaccato assieme al cosiddetto «potere baronale». Il ra¬pimento e l’uccisione di Moro e poi l’assassinio Bachelet costituirono un elemento quasi esemplare dell’attacco al potere del partito-Stato, mentre l’espulsione di Lama non significò solo la rottura all’interno della sinistra, ma anche un segnale sull’impossibilità di proseguire una collaborazione tra i partiti verso l’integrazione completa del maggior partito d’opposizione. Nei confronti del più grande Ateneo italiano, su cui molto aveva investito la classe dirigente liberale e poi anche quella fascista, nell’ambito di un progetto di costruzione dell’Università della terza Italia, si evidenziò sia la certificazione della perdita di controllo dello stesso, sia l’esigenza di alternative organizzative e culturali all’interno del sistema universitario romano. La differente reazione francese dopo il 1968 con la frantumazione degli Atenei parigini appare significativa, se la si confronta con il comportamento italiano per quanto riguarda la situazione della Capitale. In questo senso l’acquisto della ex-Pro Deo da parte della Confindustria di Giovanni Agnelli e Guido Carli nel 1974 e l’inizio della sua attività a regime nel 1978 si sono accompagnate allo sviluppo in ambito non statale della Libera università Maria Santissima Assunta (la LUMSA) e di altre università private, e – poi- alla gemmazione della Università di Tor Vergata nel 1982 e dell’Università di Roma Tre nel 1992. La ricordata incompatibilità tra mandato parlamentare e insegnamento ha, inoltre, rotto quel delicato e complesso equilibrio tra accademia e politica che aveva caratterizzato i decenni precedenti. La fine degli “anni di piombo” non ha certificato il concludersi dell’emergenza per “La Sapienza”, richiamando la necessità di una doverosa riflessione sulle ragioni della stessa, che non posso affrontare in questa sede. Si può, però, dire che, dalla seconda metà degli anni Novanta, vi sia stata una profonda trasformazione del nostro Ateneo nell’ambito di un sistema di istruzione superiore oramai pluralistico sia a livello urbano che regionale. Pur mantenendo le proprie caratteristiche di maggiore Università italiana e più popolata Università europea, “La Sapienza” deve oramai conquistare l’eccellenza giorno per giorno con risorse e strutture molto spesso inadeguate. Le intense e spesso non coordinate trasformazioni dell’ultimo ventennio non possono, infatti, essere affrontate solo con l’eredità del passato, che si sta facendo sempre più esigua. è necessario il nostro impegno, ma bisogna anche avere la capacità di rispondere in modo adeguato a domande sempre più sofisticate e diversificate rafforzando il nesso ricerca insegnamento. Concludo. Simili considerazioni sul nostro passato e sul presente non devono essere considerate pessimistiche, sibbene realistiche ed aperte all’impegno fattivo. Oggi, proprio ricordando il sacrificio di Vittorio Bachelet possiamo, infatti, procedere avanti con un bagaglio più leggero, ma sicuri di poter continuare a fare riferimento ad un insegnamento che non è esclusivo, ma tuttavia profondamente radicato. Il Suo sacrificio inerme e coraggioso assurge non soltanto, lo ripeto ancora una volta, alla esemplarità del testimone di fede, ma sintetizza anche nella sua azione, in modo alto ed incontroverso, l’esempio di un umanesimo integrale, fondato sui valori della dignità umana, della solidarietà e della responsabilità. Si tratta di un indispensabile legato, lasciatoci dalla generazione di Vittorio Bachelet, testimone della nascita della Carta costituzionale, di cui tutti siamo portatori e responsabili: quello dell’impegno e del servizio nelle aule, nella ricerca e nella società.

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