La Fuci e le riforme - di Giorgio Armillei
Abbiamo deciso di pubblicare nel Landino una scelta di testi sulle riforme delle istituzioni politiche che sono stati prodotti da alcuni di noi, e da alcuni compagni di strada, all’epoca del nostro passaggio in Fuci alla fine degli anni Ottanta. La FUCI e le riforme di Giorgio Armillei Non torniamo su questi testi con intento nostalgico, né per consentirci un “noi lo si era detto”. Ci siamo voluti tornare per corroborare una convinzione che accomuna la maggior parte di noi fucini di diverse generazioni in questi mesi di dibattito sulla riforma costituzionale, anche se in questo dibattito oggi assume amo posizioni e sfumature diverse. La convinzione per la quale non improvvisiamo oggi una visione della riforma costituzionale per interessi legati al momento politico, per qualcosa che riguarda il posizionamento di questo o quell’altro leader, per scambiare un vantaggio di breve periodo con brani dell’eredità di una nobile tradizione costituzionale o per compiacere una EU tanto reale quanto immaginaria dentro una crisi finanziaria che non finisce. ... Rivedere le regole, riformare le routine, revisionare le norme delle istituzioni politiche del paese, cioè cambiare queste istituzioni, sono terreni di elaborazione intellettuale e politica che ci accompagnano da almeno 35 anni, sono pilastri di un lavoro culturale che ha sempre tenuto insieme, come nella tradizione fucina, impegno ecclesiale ed analisi politica. E ciò forti della convinzione che nella storia italiana le due cose si sono sempre intrecciate fino a rendere spesso il nesso di causalità oggetto di inaspettate e controintuitive inversioni: è stata spesso la politica a innescare, se non a imporre, processi che hanno poi innervato il rinnovamento ecclesiale. Ma questo sarebbe altro e forse maggiore tema storico. Suquesti terreni di elaborazione non è difficile individuare le tracce di una semina intellettuale che viene da lontano e che - ancora fucinamente- si alimenta di apporti diversi, setacciati in un clima di grande libertà intellettu ale e di onesto discernimento, anche ecclesiale, senza idoli ma anzi con il gusto della ricerca, così come aveva insegnato papa Montini in un libretto Coscienza universitaria ripubblicato proprio in quegli anni (1982) con la cura di Giorgio Tonini. Mi avventuro in un catalogo di quella semina, sperando –come si dice in questi casi –di non dimenticare nessuno. C’era la costellazione di intellettuali della Lega democratica, e soprattutto la rilettura liberatoria (si potrebbe dire revisionista se il termine non fosse stato poi inquinato da un dibattito tutto ideologico) che Pietro Scoppola faceva di De Gasperi nel suo libro della fine degli anni settanta. C’era Paola Gaiotti che aveva alimentato l’iniziativa ed anche la giusta irriverenza intellettuale di coloro tra noi che avevano la responsabilità di guidare la Fuci di quegli anni. C’era la sapienza storico istituzionale di Roberto Ruffilli. C’era la riflessione realistica e post ideologica di Gian Enrico Rusconi sulla razionalità dell’agire politico. C’erano i modelli che la scienza politica insegnata da Gianfranco Pasquino faceva irrompere in una tradizione intellettuale, quella dell’Azione cattolica e della Fuci, ancora fortemente impregnata di altri saperi più speculativi e più storicistici. Non mancavano i segni dello sdoganamento intellettuale del presidenzialismo, in tutte le sue configurazioni, di cui aveva cominciato a scrivere Giuliano Amato. Uno sdoganamento che politicamente parlando comportò poi anche un inevitabile critico confronto con la cultura politica del migliore craxismo, quella che ci fece fare meglio i conti con la debolezza decisionale del sistema politico italiano. C’era lo stimolo teologico filosofico della nostra scuola torinese che con Giovanni Ferretti, rincontrato con grande interesse e passione quest’anno a Camaldoli, e Ugo Perone irrobustiva un quadro teorico che combatteva la chiusure anti moderne di molto pensiero cattolico assai influente. C’era l’ecclesiologia di rinnovamento di Severino Dianich. C’era la ricchezza della storia del movimento cattolico che da Alberto Monticone a Francesco Traniello ci era criticamente riproposta come patrimonio attuale per le nuove sfide. Infine, a guida e orientamento, la scelta religiosa dell’Azione cattolica di Vittorio Bachelet, tutt’altro che ripiegamento intimistico ma sforzo per fare ermeneutica della storia in un orizzonte di fede. Una scelta di cui negli anni si è andata sempre più apprezzando la natura di più importante, autonoma e sistematica interpretazione laicale del Concilio. Come è facile capire i seminatori e le seminatrici non solo venivano da villaggi diversi, a volte anche lontani, ma hanno poi raggiunto città diverse, per strade diverse. Qualche volta li si incontrava solo nei libri, con molti di loro il dibattito e il dialogo era costante e diretto. E da quella semina nacque una piantagione di idee e di iniziative, di spunti e di proposte che hanno costruito una buona parte del futuro dibattito politico. Poi fu l’intelligenza e il rigore dei fucini delle generazioni successive, quelli dei congressi della seconda metà degli anni ottanta, a raccogliere con mano sapiente i frutti di quel lavoro e trasformarli in una sfida per il paese. La sfida del come chiudere la transizione, una sfida che attraversa 25 anni di storia, mai vinta ma neppure mai persa in via definitiva. Una sfida che viene dunque da lontano, che nasce ben prima delle convulsioni del PD, nonostante una certa idea di Partito Democratico possiamo dire sia anch’essa in qualche modo parte della stessa famiglia. Basta scorrere i nomi dei protagonisti del convegno di Orvieto del 2006 nel quale questa certa idea di PD ebbe articolazione e consacrazione nazionale: un nuovo partito, un partito nuovo. Quella semina, quelle coltivazioni, quei frutti, quei prodotti sono oggi indiscutibilmente innestati nel dibattito sulla riforma costituzionale e quindi nel referendum del 4 dicembre. Da quella specie di supermercato delle idee si scelgono oggi quelle che più di altre incontrano le discussioni di questo periodo, ma non dobbiamo dimenticare che tutto ilsupermercato ha lavorato e lavora come un insieme, non perché organicamente e deduttivamente pensato ma perché costantemente rifornito, costantemente ripulito dei prodotti scaduti, con gli scaffali che si rinnovano sempre nel tentativo di tenere vivo il marchio di fabbrica, reagendo e anticipando le attese e i bisogni della storia italiana, e anche europea. Un marchio fatto di convinzioni, rielaborate, messe alla prova del discernimento ecclesiale e della lettura dei segni dei tempi, abbandonate, rigenerate. Non sono in realtà poi molte, in termini di visione generale delle cose. Ne ripercorriamo alcune a mo’ di chiusa. La riforma delle istituzioni politiche – legge elettorale, forma di governo, forma di stato, dunque un po' di più di una semplice manutenzione e certamente meno di un cambiamo la costituzione- è una politica cruciale per migliorare la situazione del paese. Le istituzioni politiche fanno la differenza, contro ogni riduzionismo sociologico, economico, culturalista. La democrazia è essenzialmente un meccanismo competitivo che serve a selezionare chi governa e chi decide, e a consentire agli elettori di cambiare governo quando chi decide non ottiene risultati convincenti –oltre a essere, in condominio con la più vasta tradizione liberale e con le sue radici giudaico cristiane – il miglior meccanismo finora noto per tutelare le minoranze e le libertà. L’economia di mercato - la globalizzazione - e le sue potenzialità di sviluppo e beneficio di tutti richiedono una politica più forte e meno invasiva. I partiti come organizzazioni cambiano ma la funzione dei partiti nella democrazia resta. Il tempo non è più, neanche per la politica e l’amministrazione, una risorsa a costo zero. Ivalori politici sono fondamentali, ma l’appello ad essi rischia l’inanità se perseguiti tramite una macchina inefficace e inefficiente. L’olimpicità dei valori va attuta nella concretezza storica: l’Italia di oggi ricordi ciò che spesso quella di ieri ha finto di non sapere.
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