La fine del bicameralismo?

Prosegue il lavoro della commissione per le riforme istituzionali. Lunedì scorso prima vera seduta tematica. Si affrontano i nodi del bicameralismo. Perché il nostro sistema, unico nelle democrazie avanzate, ha due camere che fanno le stesse cose? E in più sono elette con un sistema elettorale diverso e da una base elettorale diversa? E impiegano complessivamente un numero di parlamentari molto alto? Con la conseguenza che, due su tre, presentano una composizione politica diversa e quindi difficilmente governabile, se non mediante ricorsi a governi del presidente, più o meno di larghe intese. Sembra che tra i saggi ci sia accordo quasi unanime. Il sistema riformato sarà ancora bicamerale ma le due camere avranno compiti differenziati e saranno composte da un numero ridotto di parlamentari. Fin qui tutto bene. Ma come saranno differenziati questi compiti? Una camera disporrà del potere fiduciario verso il governo e della competenza legislativa generale. L’altra dovrà essere in qualche modo espressione delle autonomie territoriali, non disporrà della fiducia, avrà competenze legislative piene e condivise con l’altra camera ma limitate al sistema dei rapporti tra centro e periferia, oltre che il potere di richiedere all’altra camera di tornare a votare sui progetti di legge già approvati. Non si sa tuttavia di quali autonomie: solo quelle regionali? E soprattutto con quale sistema di composizione: elezione diretta, indiretta o nomina da parte dei governi territoriali? La questione era stata affrontata anche dai saggi di Napolitano che si erano spinti a fare una proposta abbastanza precise. Camera dei deputati sola titolare del rapporto fiduciario con il governo e semimonopolista della legislazione. Senato delle Regioni composto dai Presidenti dei Regione, da rappresentanti eletti dai Consigli regionali e da qualche Sindaco. Competenze condivise  Camera e Senato sulle modifiche della costituzione, sulle regole procedurali, sull’organizzazione dei poteri territoriali e sull’ordinamento della finanza regionale e locale. Su tutto il resto il Senato può solo chiedere ai deputati di ripensarci: la decisione finale spetta però alla Camera. Una proposta non del tutto lineare. Mentre è sicuro che i Presidenti delle Regioni e i Sindaco farebbero gli “interessi” dei loro governi è assai probabile che i rappresentanti dei Consigli regionali finirebbero con l’allinearsi alle logiche di partito, impedendo quindi il fisiologico confronto tra i diversi livelli di governo (statale, regionale, locale) e sostituendolo con quello tra maggioranza e opposizione “nazionali”. Il nostro problema non è infatti quello di “nazionalizzare” la partecipazione delle regioni e degli enti locali al processo legislativo quanto quello di “regionalizzare” questo processo a tutela e garanzia dei poteri regionali e locali. In altri termini non sembra ci sia bisogno di un doppio legislatore, o almeno soltanto di quello, quanto e soprattutto di un presidio costituzionale degli interessi dei livelli di governo regionale e locale previsti dall'attuale art.114 della costituzione. E tuttavia una proposta utile come base di partenza per un ulteriore raffinamento. Una soluzione molto vicina all’opzione 2 del libro di Ceccanti e Vassallo, Come chiudere la transizione, una specie di libretto rosso dei riformisti. Lunedì la commissione, da quello che si legge sui giornali, sembra sia restata a metà del guado. Non c’è unanimità né larga maggioranza. Verrà fuori un menù con due piatti. Solo rappresentanti dei poteri regionali e locali, con il rischio che gli attuali senatori esclusi dalla partita futura decidano di bloccare tutto. O solo elezioni dirette anche per il futuro Senato delle Regioni, magari contestuali all’elezione dei Consigli regionali e dei Presidenti delle Regioni, con il rischio che l’elezione diretta generi un allineamento partitico maggioranza / opposizione fotocopia di quello della Camera, o peggio, di segno opposto rispetto a quello della Camera. La questione è tuttavia politica prima ancora che tecnica. Provo a riassumerla così. Più la Commissione al suo interno riesce a convergere, più il Governo è in grado di presentarsi al Parlamento in una posizione di forza, più il Parlamento sarà messo nella condizione di dover dire si o no ad un ragionevole punto di equilibrio, già raggiunto ma ben chiaro e compatto, più ampie saranno le possibilità di successo dell’operazione riforme. Ammesso che Napolitano mantenga e rafforzi la sua presa “riformistica” sul governo e la sua maggioranza. Non si tratta di espropriare il Parlamento, al contrario. Si tratta di espropriare i titolari dei poteri di veto, quelli che pur di non vedere modificati gli equilibri attualmente a loro favorevoli sono disposti a sabotare qualsiasi riforma. A danno della razionalizzazione e del rafforzamento degli stessi poteri parlamentari. Ruolo pivot del governo e, mediante il governo, del Presidente della Repubblica, rigida definizione dei tempi, relativa discrezione nel lavoro della commissione dei saggi sono precondizioni per evitare che la riforma finisca per impantanarsi per l’ennesima volta (sarebbe la quarta). Non la democrazia parlamentare né la sovranità popolare ma micro lobby e micro poteri di veto porterebbero a casa l’ennesima vittoria.

Condividi Post

Commenti (0)