La Chiesa che resta, di Teresa Bartolomei
A una prima considerazione
superficiale, i due contributi sembrano essere in contraddizione, a cominciare
dal titolo. La riflessione camaldolese del 2007 si presentava infatti come un
“Minority Report” (designazione presa direttamente dal grande Philip Dick), come
un invito ad accettare, con lucida coscienza della nostra impotenza ma anche
con orgogliosa rivendicazione della bontà delle nostre ragioni, la nostra
condizione di minoranza dentro la Chiesa (eravamo allo zenit del papato
ratzingeriano, senza poter immaginare che esso sarebbe stato così breve, non
anagraficamente ma cronologicamente).
La riflessione di oggi, cui ho
dato il titolo paolino-agambeniano “La Chiesa che resta”, si concentra invece sulla
tesi che i cristiani (intesi come membri della comunità ecclesiale istituita
dalla sua comunione sacramentale come corpo di Cristo: per intendersi, i credenti che ‘vanno in Chiesa’, si
alimentano dell’Eucarestia, perché si sentono Chiesa, e non quelli che si considerano
genericamente appartenenti a una tradizione religiosa di matrice cristiana, cui
si raccordano culturalmente ed emozionalmente ma non comunionalmente, nella
condivisione comunitaria del Corpo e della Parola) sono ormai,
sociologicamente, una presenza residuale nella società,[1] ma si
ingannano profondamente, vengono meno a sé stessi, se si considerano e si
comportano come minoranza.
Per essere autenticamente Chiesa, i cristiani devono ‘decoincidere’ (prendo in
prestito il termine da François Jullien, filosofo francese che recentemente ha
detto un paio di cose molto utili sulla non identità cristiana; cfr. Jullien
2016/2017, 2017 e 2018) da quello che sono fenomenologicamente, restando fedeli
alla propria ‘cattolicità’, all’universalità della propria chiamata (L.G.,
13), comprendendosi perciò come un essere di tutti e per tutti che è non semplicemente
disatteso, ma radicalmente tradito dall’idea di minoranza.
La
Chiesa che resta[2]
non è la minoranza sociologica descritta dalle scienze sociali e corteggiata
dai politici nelle tornate elettorali, ma l’autocomprendersi di questa minoranza
sociale come soggetto di comunione universale, chiamato nella storia a farsi
strumento di salvezza di tutti e per tutti.
Essere
cristiani è essere un resto perché il cristiano non coincide mai con
quello che fa e quello che è. È, al tempo stesso, molto di più e molto di meno,
ed è precisamente in questo duplice scarto (altro termine utilizzato da
Jullien) rispetto a quello che è, in termini, diciamo, terreni (fenomenologicamente
oggettivabili da una qualche razionalità: dal punto di vista fisico,
sociologico, giuridico, economico, ecc.) che consiste il suo esser cristiano.
Lo so che il mio sembra un gioco di parole, ma spero che alla fine della nostra
riflessione questa strana affermazione risulterà più chiara.
I
cristiani nella storia: né maggioranza né minoranza
Nel
2007, quando parlavo di minoranza, mi riferivo alla condizione di quelli che,
come noi, si ispirano a un’idea
pienamente di conciliare di
Chiesa, nell’alveo di papa Giovanni e Paolo VI, e si trovavano emarginati nella
Chiesa wojtyliano-ratzingeriana, incompatibili con l’analisi e il progetto
storico-culturale di rilancio di un’identità cristiana, responsabile della
trasmissione alla società occidentale di un patrimonio antropologico, culturale
e valoriale non negoziabile, da adottare
come piattaforma fondativa dell’identità occidentale da promuovere a sua volta
su scala mondiale come modello eticamente vincolante di civiltà.
Questo ruolo proattivamente socioconflittuale
(nel caso di Papa Wojtyla) o più mediatamente culturale (nel caso di Papa
Ratzinger) di costruzione di un’egemonia culturale e spirituale da gestire come
fonte di legittimità giuridica e vettore di decisione politica (indimenticabile
è in questo senso il grottesco spin off italiano di questa strategia, con l’imbarazzante
corte degli atei devoti e l’invincibile armata dei teodem. È significativo che non
siano durati oltre la stagione della visibilità mediatica e delle opportunità
di elezione parlamentare garantite loro dal placet papale) non era quello
disegnato per i cristiani dalla nostra Chiesa conciliare. E, a quasi tre lustri
di distanza, possiamo dire che la storia ci ha dato ragione. Il modello
identitario del cristianesimo cultural-assiologico (delle radici, dei simboli e
dei valori), politicamente influente, invocato da Wojtyla e Ratzinger, si è
convertito (in una mutazione virale che cambia la sequenza genetica ma non il
ceppo del virus) nel cristianesimo etnico dei sovranisti islamo- e migrazionfobici,
nazionalisti e antiglobalisti, gestito da una leadership secolare. La funzione eminentemente politica e culturale
di questo cristianesimo lo rende infatti essenzialmente post-ecclesiale:
i Pastori risultano automaticamente espropriati della sua rappresentanza, marginalizzati
a un ruolo cerimoniale sostanzialmente irrilevante, ascoltati solo quando
confermano il mantra identitario, e sistematicamente messi a tacere e
contestati se si azzardano a contraddirlo.
Dislocato
dalla comunità ecclesiale a quelle politiche, come patrimonio cultural-assiologico
autonomo dalla fede nel Cristo Signore crocifisso e Risorto che lo fonda, svincolato
da believing e belonging, il cristianesimo, diviene selftagging:
marcatore identitario che aiuta comunità esposte al duplice logoramento causato
da pluralizzazione e frammentazione interna e dall’assimilazione transnazionale
e sistemica esterna a definire linee di autoriconoscimento e autopreservazione
identitaria rispetto ad alterità sincroniche e alterazioni diacroniche che ne
minacciano la sussistenza. Dirsi cristiano è coordinata di classificazione posizionale e
delimitativa di natura ‘esterna’ ed esclusiva rispetto ad alterità geoetniche,
sessuali, simboliche e sociali, adottata come riferimento sociale ma non
comunitario, individuale ma non personale (perché spogliato di obbligatorietà
etica e dottrinale), ideologico ma non culturale (perché risulta interamente
disattivata la sua pertinenza cognitiva, nella manutenzione della pura
pertinenza retorica e antagonistica).
Certificato dagli autoproclamati
custodi mediatici dell’ortodossia identitaria, ‘rivendicata’ come asse
simbolico di riconoscimento popolare collettivo, questo cristianesimo hashtag,
detrascendentalizzato, deculturalizzato, deeticizzato, deecclesializzato, si
converte rapidamente in strategia politica di massa, che intercetta lo stress
socialmente e culturalmente disgregatore e uniformatore indotto dal combinato disposto di globalizzazione e
modernizzazione tecnologica.
Il
sofisticato apparato storiografico e concettuale ratzingeriano (secondo il
quale il cristianesimo è spina dorsale dell’Occidente nella sua indissolubile integrazione di razionalità
filosofico-scientifica greca e razionalità giuridica romana) e la sua estrapolazione politica wojtyliana
(solo una democrazia ispirata al pacchetto di valori cristianamente
riconosciuti come non negoziabili perché universalmente umani è autenticamente
commisurata alla difesa e promozione della dignità umana e perciò legittima)
sono così divenuti, in una dolorosa eterogenesi dei fini, il viatico ideologico del populismo (non per niente Salvini
rivendica Papa Benedetto come il ‘suo’ Papa): il destino della Chiesa degradata
da corpo sacramentale a corpus di valori
(De Certeau 1987) è il suo svuotamento
etico e la sua manipolazione politica. I valori, infatti, sono a disposizione
di chiunque li scelga, selettivamente e arbitrariamente: è possibile lasciar
cadere, come obsoleti, valori incompatibili con la difesa della purezza
tribale, a cominciare dalla solidarietà extra-comunitaria: non è un caso che
questo termine sia divenuto designazione politico-giuridica discriminante, che
per molti diviene automaticamente discriminatoria. Non deve perciò scandalizzarsi
il cristiano pio che vede il sovranista dare lezioni di cristianesimo ai
Pastori; quando si salta dal kérigma alla precettistica, passando per la legge
naturale, la doxa prende possesso del campo di gioco, e tutti giocano alla
pari: vinca chi parla più forte!
In
questa mutazione dal santo al sacro, dal sacramentale al simbolico-culturale,
dalla fede all’identità, il cristianesimo ha l’opportunità storica, agli
occhi di alcuni agenti politici e clericali, di tornare ad essere
maggioranza come cristianità: fattore identitario che riunisce e
ristabilisce i criteri selettivi di riconoscimento del nucleo ‘sano’ del
popolo, contro minoranze colonizzatrici che subentrano dall’esterno (musulmani,
ebrei, immigrati), o emergono dall’interno (nella iscrizione sociale delle
differenze razziali e di genere come linee di frattura), disgregando la
coesione sociale della nazione (per una panoramica di questa evoluzione, cfr.
Roy 2019; Raison du Cleuziou 2020)
La
“cristianità perduta” torna insomma come vettore maggioritario che soffoca
l’autentico cristianesimo evangelico ed ecclesiale, riducendolo ad ancella
ritualistica della liturgia nazionale. La religione civile non convive mai bene
con le Chiese, che si subordina inevitabilmente come fonti di senso e di
coesione sociale da sfruttare, non qualificate ad una propria autonomia nella res
publica. Salvini e Trump che brandiscono il Rosario e la Bibbia come
un’arma di offensiva di massa, pervertendone radicalmente il senso, sfruttano il
via libera concesso dal Magistero quando ha accreditato la legittimità e opportunità
della conversione del cristianesimo a repertorio culturale e valoriale
identificativo di una civiltà, cui i titolari della suddetta possono attingere
a discrezione.
Contro
questa deriva, il Papa attuale ha operato una correzione di rotta radicale (cfr.
Rusconi 2017), che liquida le ambizioni identitarie a progetto teologicamente
problematico e storicamente perdente,
perché ancorato a una visione pre-globalizzazione che magari può anche vincere
battaglie di breve termine, sollevato sulla cresta dell’onda dai colpi di coda
del passato, ma che non può vincere la
guerra della sopravvivenza dell’umanità, direttamente dipendente da logiche di
tipo globale su questioni cruciali come la crisi ecologica (che non conosce
frontiere nazionali e può
essere affrontata solo con un impegno mondiale); l’innovazione tecnologica (la
cui dinamica è a macchia di leopardo, non lineare, ed essenzialmente mondiale); l'evoluzione demografica (con
l’invecchiamento dei Paesi sviluppati e la massa di giovani che premono per
entrarvi, provenienti dai continenti africano e asiatico); l’infrastruttura
finanziaria dell’economia (che il mercato monetario sia per sua natura internazionale
non è una scoperta novecentesca: i fiorentini l’hanno insegnato al mondo sin dal
Medioevo); la mediatizzazione della comunicazione e della cultura (ormai irreversibilmente ancorate alla
trasmissione digitale e alla sua dinamica intrinsecamente globale: come è stato
giustamente osservato, la sua conversione radicale dagli spazi ai flussi non fa
che portare a pieno compimento
una condizione immateriale propria della cultura verbale e iconica); e,
l’abbiamo scoperto a nostre spese con la pandemia, la sicurezza sanitaria.
Il
discorso di papa Francesco fa insomma seriamente i conti con la
globalizzazione, postulando che il pluralismo sociale e il meticciato
culturale, la convivenza multietnica e interreligiosa, l’interdipendenza e
perciò la collaborazione e solidarietà internazionali, sono il paradigma del
futuro, al quale si può resistere ritardandolo, ma al quale sarà inevitabile
approdare se si vuole restare fedeli agli standard giuridici e politici della
democrazia liberale e dello Stato di diritto.
Chiudere
le porte agli immigrati extracomunitari e tenerle aperte ai capitali
finanziari, alle merci e alla tecnologia, è un incubo tecnocratico gestibile
solo con l’autoritarismo politico. Il libero mercato porta con sé la libera
circolazione degli uomini e non solo delle merci, delle idee, delle religioni, delle
culture e dei valori, non solo dei soldi, promuovendo una integrazione umana e
culturale oltre che economica, che può essere fermata solo seguendo la via
cinese, il modello tecno-autocratico del capitalismo asiatico: modernizzazione
economica e tecnologica coniugata alla compressione delle libertà politiche,
personali e religiose. Crescete, ma non moltiplicatevi. Arricchitevi, ma non
pregate e non pensate come vi pare. Divertitevi, ma evitate ogni forma di
opinione e azione pubblica.
Se
questo modello non ci sta bene e non vogliamo che tutto il mondo diventi una
grande Hong Kong, un satellite sotto controllo cinese in cui le libertà
individuali e collettive, private e politiche vengono progressivamente erose
nell’assimilazione al ‘sistema’ imposto dal Partito unico, che tollera solo la
libertà dei capitali finanziari (all’insegna del principio sinistro: piazze
chiuse e Borse aperte), bisogna
scegliere e pagare il prezzo della libertà, a cominciare da quello della
rinuncia a identità collettive monadiche: fisse, impermeabili e compatte.
La
cosa interessante, dice il papa, è che questa prospettiva evolutiva, in
contraddizione evidente con il paradigma della nuova cristianità, in realtà è
pienamente in armonia con il paradigma del cristianesimo ecclesiale evangelico,
con l’essere Chiesa. Essere Chiesa non è essere una entità storica e sociale,
non è avere un’identità culturale determinata, ma è stare dentro la storia come
fermento che la trasforma, la critica e la fa crescere. Non per niente, non si
stanca di ripetere il papa, il tempo è superiore allo spazio, i processi sono
più importanti dei territori.
La
crisi attuale dell’occidentalismo egemone, monolitico e trionfalmente
colonizzatore, aiuta i cristiani a fare chiarezza su sé stessi, insegnando a
non inseguire modelli
maggioritari perduti che appartengono
al passato, ma a cercare di recuperare l’attualità profonda, inesauribile,
dell’annuncio evangelico, parzialmente bloccata quando non distorta, da forme
di società in cui il cristianesimo si è fatto sovrastruttura di cultura e
civiltà, nella subordinazione della sua sostanza più pura di evento di fede.
Il problema di questa posizione,
è che è molto esigente e tutta da costruire. Mentre il modello identitario è retrospettivo
e talmente consolidato nella sua prefabbricata arcaicità che è facile da
capire, adottare, maneggiare (si lascia pescare nel repertorio museale della
memoria storica e brandire come una cava), il modello genuinamente ecclesiale della ‘non identità
cristiana’ è complesso e prospettivo, da reinventare incessantemente nella sua inesauribile
ricontestualizzazione storica.
Se
accettiamo l’idea che la comunità ecclesiale non coincide con i valori
cristiani che traducono l’autocomprensione dei credenti in un dato momento
storico, né con una determinata tradizione culturale di stampo occidentale,
abbracciando piuttosto il paradigma dell’inculturazione (non per niente, la Chiesa Cattolica è una multinazionale che abbraccia tutti i
continenti, e il papa ha esplicitamente raccomandato, nell’Esortazione
apostolica post sinodale “Querida Amazonia”,
di abbandonare il modello colonialista della trasmissione dell’annuncio
cristiano come esportazione di dispositivi culturali occidentali), che cosa
siamo?
Che
tipo di comunità siamo,
se non vogliamo correre il rischio di dissolverci nel misticismo estatico di
comunioni spirituali prive di consistenza storica e significanza pubblica? Se
rifiutiamo di essere retrospettiva maggioranza identitaria, spina
dorsale etnografica di un mondo in decomposizione, della vecchia cristianità
perduta, non dovremo allora essere la minoranza profetica, come dicono
in molti, che dentro la società attesta
opposizionalmente la propria diversità etica e spirituale, in controtendenza
attiva rispetto al relativismo, individualismo, edonismo e consumismo dominanti
nelle società tardocapitalistiche di questo torbido inizio di millennio?
La verità è che, al di là
dell’apparente rovesciamento di prospettiva, l’opzione minoritaria (come già
rilevato) condivide sostanzialmente con la rivendicazione maggioritaria l’identificazione
del cristianesimo con un pacchetto di valori su cui costruire la propria
identità sociale e culturale, e difatti si tratta di una posizione ripetutamente
evocata da Benedetto XVI,[3]
per controbilanciare, con il suo pensoso
pessimismo di intellettuale, l’ottimismo demiurgico di Papa Wojtyla. Il best
seller di Rod Dreher, The Benedict Option (in cui Benedetto non è papa
Ratzinger, ma il santo medievale fondatore del monachesimo europeo), divulga a
formula di grande impatto mediatico la convinzione che fare i conti con
l’irreversibilità della secolarizzazione come ‘scristianizzazione’ della
società implichi la rinuncia all’egemonia proattiva della scena pubblica e la
ritirata in enclavi armoniose di coerenza di vita cristiana, capaci di
innescare, nella loro potenza di testimonianza e fecondità pastorale, processi
esemplari di ricristianizzazione culturale e normativa della compagine stremata
di democrazie liberali eticamente
asfittiche. La minoranza profetica
diviene in questa visione un’élite illuminata capace di fornire idee e
soluzioni innovative a un mondo svuotato dal relativismo e dall’erosione
economica del tessuto antropologico di istituzioni e identità personali.
Non è difficile riconoscere che
questa autocomprensione come minoranza che si differenzia da un corpo sociale
eticamente disfunzionale, istituendo perimetri salutari di purezza spirituale,
è alla base della ricca messe di comunità carismatiche, tradismatiche,
tradizionaliste e progressiste, che ha prosperato nella Chiesa degli ultimi
cinquant’anni, benedetta e incoraggiata dai pontefici, che in essa ravvisavano
un’opportunità di rilancio demografico e qualitativo della vita ecclesiale,
minimizzando l’effetto di drenaggio essiccativo prodotto da queste monadi a sé
stanti nel corpo parrocchiale della Chiesa cattolica, progressivamente anchilosato
a contenitore territoriale di
significato amministrativo, nella crescente diluizione della
percezione della sua ragione
sacramentale.
L’effetto, tuttavia, mezzo secolo
dopo, è sotto gli occhi di tutti. Le comunità prosperano quantitativamente, come
aiuole più o meno rigogliose (per altro crescentemente squassate da scandali e
faide interne), in un giardino che deperisce: il declino quantitativo e
simbolico (per influenza sociale e culturale) della Chiesa nel mondo
occidentale non si ferma. La domanda, dunque, è come uscire da questa
alternativa mortale. Se non ci riconosciamo nella prospettiva di rilancio
maggioritario di un cristianesimo destituito a religione senza fede, a
cristianità senza Vangelo, ravvisando in questa formula la minaccia incombente
di una sua perversione neopagana, idolatrica, ma d’altro lato non accettiamo
neppure di tradurre in autorappresentazione ecclesiale la condizione di
minoranza sociologica oggettivamente rivestita dalla comunità ecclesiale, che
cosa ci resta?
Se scartiamo la duplice
condizione di maggioranza che non siamo più e che non vogliamo tornare ad
essere, se il suo prezzo è quello di una empia abdicazione dal Vangelo, e di minoranza
che siamo storicamente, ma che sentiamo incompatibile con la nostra
cattolicità, che cosa siamo?
Il resto d’Israele
La via d’uscita da questa aporia
viene, come sempre, dalla Parola di Dio. È andando a riscoprire una categoria
centrale nella tradizione biblica, riattivata nel Nuovo Testamento, in
particolare da Paolo, che possiamo venir fuori dal vicolo cieco di questa
doppia, apparentemente insolubile, esclusione.
Leggendo la Bibbia, ci rendiamo
effettivamente conto che nella storia dell’autocomprensione di Israele come il
popolo eletto si è fatta strada progressivamente, divenendo centrale nel
discorso profetico (Dreyfus 1955), l’idea di resto d’Israele.
La catastrofe dell’esilio
introduce una rottura nella narrativa lineare dell’elezione, imponendo una sua
revisione radicale: Israele non ha più il diritto di identificarsi come il popolo
eletto, perché la sua infedeltà all’Alleanza lo ha escluso dalla grazia
dell’elezione, ripetono insistentemente Isaia, Geremia, Ezechiele, Amos,
Michea, Sofonia, Zaccaria. Solo una sua piccola porzione, oscura e nascosta, tiene
viva la fedeltà necessaria alla continuità del patto. Solo questa porzione, quantitativamente
ridotta e vulnerabile, può perciò essere conosciuta come titolare dell’elezione
associata alla discendenza di Abramo.
La figura del resto viene perciò a
germinare dentro quella dell’elezione, dislocando il suo titolare fuori di sé
stesso, sdoppiandolo in una duplicità ingovernabile dal soggetto stesso, che
sfugge al suo controllo, sottraendogli ogni possibilità di autoidentificazione
essenzialistica con la propria entità storica. A partire da questo passaggio,
introdotto nella Bibbia dall’annuncio profetico, il popolo eletto non coincide
più con la propria elezione, da cui può restare esclusa una sua parte
preponderante. Il popolo eletto è ora al tempo stesso dentro e fuori sé stesso:
la frontiera della elezione non coincide più con il perimetro della sua
sostanza etnica e storica, come postulato nella fase mosaica, in cui
l’eventuale esclusione dall’alleanza può
essere individuale o collettiva, ma non trasversale: l’infedeltà di alcuni si
risolve perciò nel loro sterminio (perché
la santità del popolo non ammette la presenza di corpi estranei, impuri, dentro
di sé), così come l’infedeltà ricorrente di tutto il popolo porta Dio a
manifestare l’intenzione di ritirare in blocco la propria benedizione,
trasferendola sul solo Mosè.
Quello che va sottolineato,
tuttavia, è che questa non coincidenza non dissolve l’esistenza del popolo
eletto, né recide l’appartenenza ad esso, ma nel momento stesso in cui
l’annulla come meccanismo identitario, come vettore di riconoscimento
sostanzialista, istituisce la sua dipendenza dall’articolazione stessa della
sua negazione. È perché esiste un resto fedele che Israele si mantiene il
popolo eletto anche se maggioritariamente non corrisponde a tale vocazione. La
porzione più piccola diviene il tutto dell’insieme, nell’assunzione delle
condizioni di compimento della santità della Legge: nella denuncia
dell’infedeltà del popolo, il profeta assume su di sé il carico della fedeltà,
cui è affidato il futuro dell’Alleanza, la continuità dell’elezione:
“In quel giorno avverrà / che il
resto d'Israele e i superstiti della casa di Giacobbe / non si appoggeranno più
su chi li ha percossi, / ma si appoggeranno con lealtà / sul Signore, sul Santo
d'Israele. / Tornerà il resto, / il resto di Giacobbe, al Dio forte. / Poiché anche se il tuo popolo, o Israele, /
fosse come la sabbia del mare, / solo un suo resto ritornerà.” (Is 10, 20-22)
Il resto, in altre parole, fa
parte di Israele, ma non è una sua minoranza, perché nella sua fedeltà all’Alleanza
è depositario e rappresentante del tutto che identifica il popolo (l’elezione)
e cui il popolo è venuto meno. L’Israele etnico e storico, come insieme, non
coincide con il tutto (l’elezione) di cui il resto dà testimonianza, per cui il
resto è porzione di un tutto che non c’è più, evidenziando questa mancanza
nell’insieme cui appartiene, attestando che esso continua ad essere quello che
non è più come maggioranza, unicamente grazie a questa fedeltà di una sua
parte. L’unità di Israele è così tenuta in piedi non dalla maggioranza ma dal
resto, dalla parte che nell’insieme si definisce non rispetto all’insieme per
quello che è nella sua espressione maggioritaria, ma rispetto all’elezione che
lo ha istituito come insieme.
È evidente, allora, la differenza
radicale tra resto e minoranza.
La minoranza si definisce
rispetto alla maggioranza della comunità cui appartiene, sulla base della
differenza identitaria (razziale, religiosa, etnica, politica, linguistica,
culturale, di genere, di opinione…) che la distingue da tale maggioranza (la
comunità è così descrivibile come la somma di maggioranza e minoranza/e).
Il resto si definisce invece rispetto
all’insieme, di cui fa parte con la maggioranza, evidenziando in che misura
questa non è più, o non è ancora (in questa sua proiezione escatologica si
istituisce il ponte tra il concetto di resto della Bibbia ebraica e di quella
cristiana) ciò che continua a istituirla e a rivelarla come parte dell’insieme,
come comunità, che non è pensabile come somma di maggioranza e minoranza, ma
come insieme in cui la maggioranza è venuta meno a (o non ha ancora compiuto)
ciò che la rende parte dell’insieme. La maggioranza è sottrazione, rispetto
all’insieme, non può essere sommata alla minoranza da cui si distingue, ma non
cessa per questo di esser parte dell’insieme, di costituirlo (non è
un’estraneità da essere espulsa).
La funzione del resto, perciò, è
di tenere aperta la visibilità di questa mancanza e di compensarla: rimediarvi,
garantendo la continuità
dell’insieme in tutte le sue parti, anche quella che ne mette a rischio la
preservazione. Il resto non si separa dalla maggioranza come una minoranza,
evidenziando la divisione dell’uno, ma tiene insieme l’uno (la comunità),
attestando l’assenza di ciò che è venuto meno, o che ancora manca, alla
maggioranza, ma che definisce come uno l’insieme di cui essa è parte. Il resto porta alla luce quello che l’insieme
ha in comune (precisamente nella sua negazione da parte di un suo segmento)
e perciò fa unità. Il resto è fonte di comunione di salvezza. Non si separa, ma
unisce.
Il resto non è minoranza e si
tradisce se si autocomprende come tale, perché il resto non è parte separata nella
società, ma sta per tutti ed è di tutti. La Chiesa che si riconosce come resto
non è l’insieme della società, non può e non vuole più essere cristianità
totalizzante, ma non ne è neppure un pezzetto, perché il resto sta dentro la società
a favore di tutti, per tutti, al servizio di tutti, in quanto attesta la
pienezza che è venuta meno o non è ancora data in tutti, ma che è di tutti e
per tutti in quanto principio fondativo dell’insieme. Per questa ragione, il carisma
del resto non è quello di essere diverso dagli altri (come per la minoranza),
ma è esattamente l’opposto: di essere condizione di messa in comune, di unificazione
dei divisi.
Anche una minoranza, si potrebbe
replicare, può concepirsi come portatrice di un’istanza transparticolarista, universalizzatrice,
di messa in comune, riconoscendo nei valori cui aderisce una normatività etica
e giuridica che è obbligatoria anche per la maggioranza che non vi aderisce, dal
momento che fonda la legittimità della comunità politica di appartenenza. È
questo il caso delle minoranze democratiche in condizioni politiche di
autoritarismo plebiscitario, il caso degli obiettori di coscienza, che si
riconoscono latori di intuizioni morali superiori all’assetto legale della società
in cui vivono. Una minoranza, tuttavia, si vede per principio come separata
dalla maggioranza, in una relazione che può essere di indifferentismo neutrale
o politicamente divisiva, se non radicalmente oppositiva, nella necessità di affermare
e tutelare la propria differenza (eventualmente minacciata dall’assimilazione
maggioritaria), o di mettere fine alla differenza nell’assimilazione della
maggioranza al proprio punto di vista.
La minoranza etnica, razziale, di
genere, tenderà a proteggere la propria particolarità, usando la lotta politica
per strappare il massimo possibile di garanzie a questo riguardo. La minoranza etica
e politica, invece, tenderà a usare la lotta politica per allargare il proprio bacino
di consenso, guadagnando fette di popolazione alla propria causa. La minoranza religiosa
può oscillare tra l’atteggiamento proattivamente protettivo, il proselitismo
non politico ma confessionale, e l’indifferentismo neutrale: si colloca allora
in una condizione di parallelismo particolarista rispetto alla maggioranza,
chiedendo solo di essere lasciata in pace. In tutti questi casi la differenza è
linea di demarcazione che separa, quando non divide, o peggio oppone.
Il resto, che definisce sé stesso
non in relazione alla maggioranza, ma a ciò che fonda l’insieme, l’intero che è
venuto a mancare o che è a venire, che cioè definisce sé stessa rispetto a
un’assenza, di cui la maggioranza è evidenza, responsabile e vittima al tempo
stesso, non si pone in una condizione divisiva rispetto ad essa: non ci si può
infatti separare da una mancanza, non ci si oppone a un termine negativo.
Il resto è latore, nell’insieme
della comunità, della pienezza che manca, del tutto che definisce l’insieme
come tale e che è stato disattivato o non è ancora attivato dalla parte maggioritaria,
che perciò rivendica illegittimamente di essere ciò a cui non corrisponde o
semplicemente ignora questo a venire che le dà compimento. La tensione,
inevitabile, che sussiste tra maggioranza e resto non si configura in chiave di
rivendicazione conflittuale della superiorità della propria interpretazione
(come nel caso delle minoranze politiche), ma di testimonianza comunionalmente
feconda della propria fedeltà all’istanza che fonda l’insieme della comunità,
maggioranza compresa, assicurandone la manutenzione e perciò il bene di tutti.[4]
Quello che è in gioco, per il resto, è la coerenza con ciò che fonda la
comunità come un insieme, con ciò che definisce il comune ma che non si ha
più in comune, non la vittoria, politica, religiosa o culturale che sia.
La minoranza si autodefinisce in
base a criteri propri, specifici, che la distinguono dalla maggioranza. Il
resto, invece, si riconosce in un criterio comune alla maggioranza e che definisce
l’insieme, condiviso in forma positiva dal resto, in forma negativa dalla
maggioranza. Proprio per questa condivisione fondamentale di ciò che discrimina
ciò che è comune (anche se non lo si ha più in comune), il resto non può pensarsi
separatamente dalla maggioranza e resta ad essa intrinsecamente associato, mai indifferente,
mai divisivo e oppositivo, pur nel contrasto della differenza che distingue, ma
non separa e non oppone.
Questa comunità di condizione tra
resto e insieme (Israele, nome portato da entrambe le parti in cui esso si
sdoppia come soggetto, identificato da un nome ricevuto e perciò non a
disposizione) è nucleo essenziale dell’annuncio profetico, anche quando esso si
esprime nella condanna più dura dell’infedeltà dei molti, e a partire da Isaia
prende il contorno nitido di una responsabilità dei pochi rimasti fedeli, un
impegno al servizio dei molti che si sono persi.
Anche quando annuncia la sventura,
come Ezechiele, come Geremia, quando prevede la punizione del peccato del
popolo, il profeta che rivendica la propria fedeltà, che si presenta come
resto (latore dell’elezione), lo fa non per promuovere il castigo, come agente
di questa sventura, ma per contribuire alla salvezza del popolo, per scongiurarne
la rovina, e Dio si incarica di correggere esplicitamente e duramente il
profeta che non coglie questo nucleo fondamentale della sua volontà, che stravolge
il paragone tra resto fedele e popolo traviato, funzionale al richiamo alla conversione, in
giudizio di condanna emesso dall’alto della propria pretesa esclusivista di giustizia
(basti pensare al dialogo con Elia nel
monte Horeb e la lezione data a Giona, che reclama la punizione di Ninive).
Il giusto, il resto d’Israele, il
profeta, è infatti scelto da Dio per salvare il popolo, non solo riportandolo
alla fedeltà, all’abiura dell’idolatria, ma ancora più radicalmente,
risparmiandolo dalla distruzione. È cosa ben chiara ad Abramo, quando chiede a Jahvè
di recedere dall’annientamento di Sodoma e Gomorra (Gn 18, 20-32) È cosa ben
chiara a Mosè, quando offre sé stesso purché Dio non punisca il popolo di dura
cervice che si è abbandonato all’abominio: l’adorazione del vitello d’oro (Es
32, 9-14)
Prima ancora che per la conversione
del popolo, il giusto opera per la salvezza del popolo, per risparmiargli le
conseguenze dell’infedeltà: tutelare la continuità dell’Alleanza significa
mantenere Israele, l’insieme storico, in vita come destinatario dell’elezione.
Il destino del resto è intrinsecamente associato, redentivamente, a quello
della maggioranza.
Questa dimensione di responsabilità comunionale del
resto in relazione all’insieme del popolo di cui fa parte trova un compimento
escatologico nel Nuovo Testamento (Meyer 1965; Watts 1988), in particolare
nella definizione data da Paolo
della Chiesa come resto d’Israele che deve portare a pienezza la
promessa fatta ad Abramo a favore di tutta l’umanità, e perciò deve “potare”
via da sé (Rm 11, 19-20) una parte dell’Israele storico, precisamente per potere
realizzare quella universalità dell’alleanza (verità originaria della promessa)
che include anche Israele (Rm 11, 25-26), ad onta del suo non riconoscimento di
questa verità di cui Dio l’ha reso depositario:
“Non sapete ciò che dice la
Scrittura, nel passo in cui Elia ricorre a Dio contro Israele? Signore, hanno
ucciso i tuoi profeti, hanno rovesciato i tuoi altari, sono rimasto solo e ora
vogliono la mia vita. Che cosa gli risponde però la voce divina? Mi sono
riservato settemila uomini, che non hanno piegato il ginocchio davanti a Baal.
Così anche nel tempo presente vi è un resto, secondo una scelta fatta per
grazia.” (Rm 11, 2-5)
Non
può essere sottovalutata la rilevanza di questo testo paolino, che fonda sulla
figura del resto una interpretazione generale della storia della salvezza,
della storia della rivelazione, leggendo in chiave di resto il passaggio
cruciale tra alleanza ebraica e alleanza cristiana, tra Legge e croce di
Cristo, tra lettera e Spirito, ribadendo fino allo sfinimento (e restando tuttavia
troppo spesso incompreso ed equivocato) che non di sostituzione si tratta ma di
rigenerazione (Rom 11, 16-24). La teologia della storia della salvezza paolina
identifica la Chiesa nella figura del resto di Israele, ma paradossalmente,
questa chiave di lettura è rimasta parzialmente oscurata nella recezione
teologica, recedendo davanti a formule oppositive molto più popolari. Per
secoli, il modello di presenza nella storia cui i cristiani sono stati educati
è stato quello delle due città agostiniane, estranee e antagoniste, in una
bipolarità oscillante tra euforia e disforia, riconciliazione e conflitto. Oggi,
però, in contesti di cristianità perduta e di razionalità postmetafisica, la
riappropriazione della figura biblica di resto appare più che mai pertinente,
forse necessaria.
Vedersi come sacramento di
comunione invece che come minoranza.
Santificare la storia
La domanda, allora, è: che cosa
significa concretamente pensare,
con Paolo, che la Chiesa di Cristo è resto d’Israele? Quale forma di
abitare la storia scaturisce da questa figura? Che implicazioni oggettive ha la
distinzione tra resto e minoranza? Si tratta appena di un astratto gioco
teo-filosofico, esegetico-filologico, o è operazionalizzabile dal punto di
vista storico? Che cosa significa vedersi
come resto – un essere pochi e poco che è strumento
di comunione e di salvezza per tutti nel rappresentare il tutto che manca -,
invece che come la “minoranza creativa, latrice propulsiva di un modello di
vita alternativo a quello della società? In fondo, anche in questa visione la
vocazione della comunità ecclesiale è di servizio alla società: cristiani sono coloro
che suppliscono alle carenze altrui nella propria superiore capacità di produrre
risposte, soluzioni, motivazioni etiche e formule culturali che la maggioranza,
eticamente estenuata dall’abbinamento devastante di relativismo e utilitarismo,
non è più in grado di fornirsi.
Il fatto è che è precisamente
nell’idea di quale servizio rendere alla società che le strade della minoranza
e del resto si divaricano. L’idea che i cristiani siano migliori degli altri - più
morali, più intelligenti, più preparati, ‘speciali’ - accomuna le comunità
settarie, tradizionaliste come progressiste, nell’illusione di un
eccezionalismo antropologico che, in fin dei conti, è radicalmente antievangelico
(perché mai Gesù avrà avuto questo debole per pubblicani e prostitute? Duemila
anni dopo, in tanti questa cosa non riescono ancora a mandarla giù). La purezza
è l’idolo religioso infranto dal Nazareno: condividere il desco con il
peccatore significa non potere dividere il pane della storia in interno ed
esterno, mio e tuo, sporco e pulito. La storia si mangia tutta intera, per
santificarla: è questo il senso della presenza sacramentale del cristiano nella
sporcizia del mondo. Perché la pietra scartata dai costruttori si faccia pietra
d’angolo nel mistero della Grazia, è necessario non chiudersi nell’hortus
conclusus della propria sapienza superiore ma fermarsi a frugare nelle
scarpate opache dello scarto, di ciò che avanza perché appare incomprensibile,
estraneo, inutilizzabile, impuro, e comunicarsene.
La comunità raccolta da Gesù non
ha nulla da spartire con l’iniziatico elitismo degli esseni o degli gnostici. I
cristiani non ne sanno più degli altri, i loro ranghi sono turgidi di peccatori
che semplicemente sanno e confessano di esserlo nell’invocazione incessante del
perdono di Dio, e accolgono la santificazione donata loro dall’appartenenza
sacramentale al corpo di Cristo nella consapevolezza che questa santificazione
è per tutti e deve essere trasmessa a tutti attraverso l’unione comunionale con
l’umanità.
Il
resto, in altre parole, non è minoranza perché non è entità (oggettivabile
come parte della società), ma una condizione di comunione, un legame a un
tutto non più dato-non ancora dato, che si produce come forma peculiare di stare dentro alle multiple
comunità terrene di cui coloro che si riconoscono come resto (come condizione
sacramentale di comunione) sono membri (perché ogni cristiano appartiene a una famiglia, a una
cittadinanza, a una comunità epistemica, linguistica, di genere, ecc.), immettendo
dentro di esse (innestandosi dentro di esse in) modalità di appartenenza che ne
purificano l’umanità e ne promuovono la santità, che mettono in moto processi di
santificazione della storia, dell’esperienza, dell’esistente.
Se il carisma del sacerdozio
ordinato è triplice: governare, insegnare e santificare, è nel terzo, quello di
santificare, che si condensa l’essenza ultima della missione della Chiesa, nel
sacerdozio universale dei battezzati. Insegnare e governare sono compiti
propedeutici alla santificazione, che in essa vengono a frutto, ed è un brutto
segno quando i cristiani si fermano alle premesse, rinunciando alla sostanza.
Il mondo, però, è pieno di cristiani (laici e Pastori) ansiosi di insegnare e
governare, poco popolato, invece, da cristiani capaci di santificare la propria
vita, la società, nella trasmissione sacramentale di sé come corpo di Cristo, della
grazia che scaturisce da questa condivisione comunionale e che salva la storia,
l’umanità tutta.
È necessario superare l’idea
ristretta e arcaica di santificazione come dimensione devozionalista interna
alla Chiesa visibile, ristretta al culto e ai sette sacramenti, munus del
sacerdozio ordinato e non di tutto il sacerdozio battesimale (riduttivismo in
qualche misura presente ancora in L.G., 26). In questa visione tradizionalista e sacralista
della sacramentalità ecclesiale, la santificazione è prerogativa del club degli
eletti, pacchetto di servizi riservato a chi ha superato la selezione di
ammissione e paga le quote (rispettando i precetti). La storia è santificata da
quello che avviene dentro le pareti di pietra delle chiese, nel circolo chiuso
disegnato dal profumo dell’incenso, di coloro che rivestono un ruolo ‘vicario’
per l’umanità perduta dei peccatori. Non è questo il senso evangelico della
santificazione. I discepoli si sono trincerati tra quattro mura quando hanno pensato
di avere ‘perduto’ Gesù nella crocifissione. Non appena Gesù si è manifestato
accanto a loro come il Risorto, sono tornati in strada, seguendo il suo
esempio, in mezzo a quella folla che aveva sentenziato la morte del Maestro.
Invece di separarsene, per chiudersi nella cerchia del proprio luttuoso culto
per un morto, invece di girare le spalle agli ‘assassini’ di Gesù, i discepoli
sono andati a cercarli, per testimoniare loro che Egli è vivo e dà la salvezza.
La santificazione della storia
non avviene perché qualcuno continua a pregare e a comunicarsi, giusto
solitario in un mondo di peccatori, ma perché qualcuno, giustificato dalla
grazia dello Spirito nella comunione ecclesiale, abita la storia come sua condizione
di comunione sacramentale, trasmessa a tutto ciò e a tutti coloro egli
raggiunge, annunciando e trasmettendo la salvezza donata da Cristo Gesù.
Santificare è comunicare alla storia la santità di Dio, nella comunione dello
Spirito, contribuendo a far maturare i frutti di pace, giustizia, carità che da
essa sono generati. Santificare la storia è eliminarne la violenza, la
divisione, l’oppressione, l’ingiustizia, la sofferenza, il peccato; è aprirla
alla Parola di Dio e alla grazia dello Spirito nella potenza della carità, che
è “paziente e benigna, non invidiosa”, che “non si vanta, non si gonfia, non
manca di rispetto, non cerca il suo interesse, non si adira, non tiene conto
del male ricevuto, non gode dell'ingiustizia, ma si compiace della verità.
Tutto copre, tutto crede, tutto spera, tutto sopporta” (1Cor 13, 4-7).
Ben lungi dallo stare in mezzo
agli altri come un gruppo minoritario, privilegiato o discriminato, propulsivo
o vulnerabile, i cristiani stanno allora tra gli altri come sacramento di
comunione per tutti, come sale e lievito
che si sciolgono nell’amalgamarsi con la farina della società, come pane
eucaristico da spezzare tra tutti. La loro differenza di resto non è quella di
un piccolo gruppo, di una setta, ma della messa in atto di una condizione concreta
di santificazione della storia: di comunione con quel Gesù che annunciano
nell’esserne corpo sacramentale.
Dall’identità
alla comunione
Belle parole, penseranno alcuni
di voi. Ma, in concreto, che cosa vuol dire se vogliamo passare dalle parole ai
fatti, dalle altezze della riflessione teologica alle bassezze dell’azione
terrena?
Confesso di non avere una
risposta soddisfacente, minimamente conclusiva, a questa domanda. Proverò appena, perciò, a condividere
con voi un primo breve elenco, provvisorio, incompleto, embrionale, di caratteristiche
di quest’appartenenza non minoritariamente identitaria ma storicamente ed
escatologicamente comunionale alla comunità ecclesiale, che costituiscono
modalità esigenti e discriminanti di stare dentro le comunità sociali (famiglia,
cittadinanza, ‘minoranze’ o ‘maggioranze’ culturali, etniche, di genere, ecc.)
santificandole, portandole cioè in comunione con la pienezza umana e divina di
Cristo Gesù.
Il primo aspetto, come già
evidenziato, di quest’appartenenza che deriva dall’identificazione della
comunità ecclesiale come resto d’Israele, è quello della non coincidenza
tra entità sociologica (organizzazione, tradizione, bacino di appartenenza) e
corpo di Cristo. Questa evidenza teologica, sempre ribadita dalla Chiesa nella
distinzione cruciale tra Chiesa visibile e invisibile, va assunta in tutte le
sue conseguenze storiche concrete, anche quelle dolorose, scandalose e
disorientanti. Se la Chiesa è resto, essa non coincide con la pienezza che la
definisce (essere Israele), e il criterio di riconoscimento la disloca invece
di situarla: la manifesta come eccentrica a sé stessa e perciò in incessante
tensione di ricentramento, “pellegrina” e non stanziale rispetto a sé stessa.
Il resto si definisce in relazione alla dimensione negativa di un venir meno,
di una mancanza, e alla dimensione positiva di una speranza messianica di
instaurazione di una nuova pienezza (per i cristiani la Parusia).
Non potendo rivendicare altra
identità storica che l’essere legame con quello che manca, la Chiesa-resto d’Israele
può presentarsi come “popolo eletto, nazione santa”,[5]
non nel senso di un statuto di separazione ed esclusione, di discrimine tra chi
è fuori e chi dentro, ma in quello di un
vettore di inclusione, che promuove il divenire popolo del non-popolo, nell’accesso
alla misericordia di Dio: “voi, che un tempo eravate non-popolo, ora invece
siete il popolo di Dio; voi, un tempo esclusi dalla misericordia, ora invece
avete ottenuto misericordia” (1Pt 2, 10). Non si è Israele (la nazione santa)
se non come coloro che provengono (incessantemente) da un non essere popolo, dal
non essere comunione di misericordia, e che entrano in questa comunione nello
stringersi alla pietra viva, Gesù Cristo (1Pt 2, 4), che era stata scartata
(era resto rifiutato), ma è divenuta pietra d’angolo dell’azione di Dio. In
questo divenire incessante, in questo uscire dalla mancanza, da una condizione
di non popolo (dalla divisione inerente alla condizione umana), per entrare,
insieme, nella misericordia di Dio, i cristiani attraversano la storia come
“stranieri e pellegrini” (1Pt 2, 11), non avendo cittadinanza in nessuna
comunità terrena (neppure nella configurazione storica puntuale in cui la
comunità ecclesiale si rende portatrice
della figura del resto senza potersi identificare con essa, senza potervisi
totalizzare) e rapportandosi al mondo attraverso una “buona condotta” che non è
ricerca della propria salvezza ma azione inclusiva di santificazione: affinché
gli uomini “al vedere le vostre buone opere giungano a glorificare Dio nel
giorno del giudizio” (1Pt 2, 12). Fare pratica di vita di quella misericordia
cui si è avuto accesso nella comunione con la pietra scartata, prima che un
comandamento etico è concorso escatologico alla comunione universale in cui si
ricapitola la storia nel disegno di salvezza di Dio: nel giorno del giudizio
tutti gli uomini potranno dare gloria a Dio se il corpo ecclesiale li avrà
santificati nella storia nella frazione eucaristica del proprio corpo
sacramentale. Se avranno semplicemente ‘visto’ la misericordia di Dio nel corpo
della Chiesa, nel suo uscire dalla condizione di “non popolo” per farsi popolo di misericordia,
gli uomini (“i pagani”) saranno salvi: il resto è strumento escatologico di
salvezza per la maggioranza, nell’includerla nella propria comunione
sacramentale con Cristo, pietra viva.
Questa dimensione inclusiva, e
non esclusiva, del resto, questo suo essere portatore non di identità ma di
comunione santificatrice, è il secondo aspetto che caratterizza l’appartenenza
ecclesiale come paradigma incompatibile con quello di minoranza (che può solo
autocomprendersi nella separazione della propria specifica diversità) e che
illumina direttamente il terzo elemento
da sottolineare: a differenza che per le comunità terrene, minoranza o
maggioranza che siano, la funzione della comunità ecclesiale non è di dare
protezione ai propri membri, di assicurare loro un bacino sicuro di
esistenza, fondato su solidarietà e collaborazione. Appartenere alla comunità
ecclesiale non ha nulla a che fare con il riconoscimento di mutua dipendenza e
comune interesse che fonda le comunità sociali, al contrario significa
riconoscere che il servizio al prossimo, con tutti i rischi e i disagi che
comporta, è la vocazione storica propria di questo popolo che ha ottenuto la
misericordia di Dio e la porta all’umanità. Essere cristiani è pericoloso, scomodo,
faticoso. È “non cercare il proprio interesse”, come dice Paolo, ma mettersi al
servizio del bene comune. Se lo scopo primario del gruppo (minoritario o
maggioritario che sia) è la tutela materiale e simbolica dei suoi membri, nella
chiara delimitazione di interno e esterno, il resto è trasversale a questa
demarcazione, di fatto disattivandola, trovandosi nella condizione di pericolo e
indigenza propria del “pellegrino e dello straniero”, di colui che non dispone
di un territorio proprio da considerare come casa, che gli dà sicurezza e
familiarità, stabilità di possesso.
Decentrato rispetto alla propria
appartenenza comunitaria nella non coincidenza del resto con il tutto che lo
definisce e nella relazione problematica e pericolosa con un insieme che non
corrisponde a quello è, il cristiano vive dislocato anche storicamente,
abitando la storia non come una casa ma come una “parrocchia” (dal greco paroikia: comunità di persone che sta ‘accanto’ alla
casa, non è della casa, 1Pt 1,1; 2,11), come un vivere a lato, fuori della
cinta di mura e della sicurezza che essa
assicura; la comunità ecclesiale, in quanto resto d’Israele, è anche ‘sfasata’ temporalmente,
decentrata rispetto al proprio presente,
nella tensione retrospettiva e prospettiva istituita dalla mancanza che
la definisce. Memoria di una pienezza possibile e promessa, attestazione della
non totalizzabilità identitaria dell’attuale, il resto è presenza profetica
nella storia (è questo un quarto aspetto che lo caratterizza), perché annuncio
(fermento critico e comunionalmente santificatore) del più che dal futuro è in
cammino verso il presente. La mancanza inerente all’immanenza del dato è
rigenerata dalla trascendenza della promessa. Il resto è profetico non in
quanto dotato di poteri particolari di previsione (non è un veggente) ma in
quanto vettore di manifestazione di quello che manca (l’unità comunionale di
tutta l’umanità come Israele, popolo di Dio, ammesso alla sua misericordia) e
della sua restaurazione in corso nel processo comunionale di santificazione che
reintegra il non-più-popolo, il non-ancora-popolo, a popolo di Dio.
Accanto
a evangelizzazione e perdono dei peccati, due azioni il cui obiettivo
principale è la conversione del non credente e del peccatore, la santificazione
della storia è carisma e missione profetica della Chiesa, nella sua inerenza alla
storia della salvezza come mistero escatologico (di cui ogni comunità
ecclesiale particolare è ‘resto’, incarnazione
inadeguata e feconda): in carico della Chiesa è la salvezza degli
uomini, prima ancora della loro conversione (la differenza tra le due essendo
rimessa al non ancora della Parusia: affinché gli uomini “giungano a
glorificare Dio nel giorno del giudizio”). Rimuovere la violenza, la divisione,
l’ingiustizia, tessere comunionalmente l’unità del genere umano, sono perciò
non azioni collaterali di promozione umana e testimonianza missionaria, ma pratiche
di vita direttamente rispondenti a questa condizione escatologicamente
anticipatrice del resto rispetto all’insieme (l’umanità tutta riunita davanti
all’Altissimo come “nuovo Israele”), come forme di anticipazione della pienezza
raggiunta dalla condizione umana alla fine dei tempi nella piena comunione con
la santità divina (Is 35).[6]
La
non equivalenza tra conversione e salvezza dell’uomo, così come tra missione
ecclesiale di evangelizzazione (e giudizio dei peccati) e missione di santificazione
comunionale, sono evidenze dottrinali tradizionali che guadagnano così una
nuova forza, nuovi accenti e nuove enfasi rispettive, nel quadro di un
ripensamento teologico della storia della salvezza alla luce della figura della
Chiesa come resto d’Israele, piuttosto che come civitas celeste (societas
perfecta) parallela a quella terrena, nella liquidazione definitiva di un
dualismo metafisico incompatibile con la sostanza più autentica della teologia
dell’incarnazione e del corpo di Cristo.
La
differenza fondamentale tra veggente e profeta, è che il primo è (o si ritiene)
dotato di superpoteri, mentre il secondo è essenzialmente qualcuno che espone “l’insufficienza”
del presente, di uno stato di
cose, rispetto a una pienezza sperata e annunciata come possibile, e che perciò
esplora le condizioni per mettersi in cammino verso di essa. Il profeta è
qualcuno che rende visibile una povertà intrinseca del proprio tempo ignorata
dai contemporanei, è qualcuno che si riconosce come spogliato di qualcosa di
fondamentale, al punto di essere privato persino di parola propria: il profeta parla
per conto di un altro. Nel suo essere profetico, perciò, il resto è povertà (è
questo un quinto aspetto che mi sembra rilevante): non potenza ma debolezza,
non ricchezza (di risorse, di sapere, di competenze, di certezze etiche,
storiche e culturali) ma indigenza. Il resto, che non coincide con nessuna
delle proprie configurazioni storiche particolari, sa di doversi spogliare
incessantemente di ogni bagaglio, di ogni provvista, di ogni infrastruttura
ereditata, che rallenta il viaggio piuttosto che accelerarlo,[7]
che avvelena piuttosto che alimentare.[8]
Identificandosi dentro la mancanza del tutto, dentro l’assenza, l’impossibilità di totalizzazione, come attestazione di questa incompletezza, il resto non fa il lutto del passato (al contrario denuncia molto di quello che è stato come allontanamento dalla pienezza, come dissociazione dell’insieme da ciò che lo fonda: infedeltà) ma, nell’esercizio comunionale della misericordia come azione di santificazione, è attesa vigilante e operosa (Is 21, 8; 11-12) di quello che ha da venire per tutti, come integrazione di tutta l’umanità come popolo di Dio (Is 49)[9] e istituzione di Dio come “tutto in tutti” (1 Cor 15, 28)
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[1] In “Le
religieux après la religion”, Gauchet 1985 (393-407) parla di “resto” in
relazione al cristianesimo, riferendosi al nucleo residuale dell’esperienza
religiosa individuale (il religioso) che sopravvive all’estinzione della
religione: la ricerca del senso tocca questioni insolubili razionalmente, che non
vengono soppresse dalla loro disarticolazione dal trascendente. La prospettiva
di questa riflessione è diversa, pensando come resto la religione cristiana, come
dimensione ecclesialmente comunitaria.
[2] Questa categoria di
autocomprensione della Chiesa nel quadro della contemporaneità secolarizzata è
introdotta in Mendonça, Teixeira, Palma (eds.) 2015, una raccolta di saggi
determinante per la costruzione di questa riflessione, che fa riferimento in
particolare a Mendonça 2015, Borges de Pinho 2015, Terra 2015. La nozione di resto, nella sua essenziale
innervatura teologica paolina e nella sua rilevanza per l’idea di comunità, è
ampiamente elaborata da Agamben 2000 e 2001, con risultati qui direttamente
recepiti.
[3]In un testo programmatico di questa strategia culturale, l’ancora cardinal Ratzinger formula nitidamente questa autocomprensione minoritaria: “In questo bisogna dare ragione a Toynbee, che il destino di una società dipende sempre da minoranze creative. I cristiani credenti dovrebbero concepire se stessi come una tale minoranza creativa e contribuire a che l'Europa riacquisti nuovamente il meglio della sua eredità e sia così a servizio dell'intera umanità.” (“Europa, i suoi fondamenti spirituali ieri oggi e domani”, in Pera, Ratzinger 2005).
[4] Quanto questo
aspetto comunionalmente, universalmente redentivo sia profondamente radicato
nell’idea biblica di resto, è esposto da Franz Rosenzweig, nel suo La stella
della redenzione: “L’uomo giudaico adempie le infinite usanze e
prescrizioni per «l’unificazione del Dio santo e della sua Shekhinah».
Con questa formula egli «in timore ed amore» prepara il suo cuore, lui, il
singolo, il resto, «in nome dell’intero Israele» [al quale fu data la legge e
che fu costituito mediante la legge], per adempiere il comandamento che in quel
momento egli si trova davanti. La gloria di Dio, dispersa in innumerevoli
scintille in tutto il mondo, egli la raccoglierà dalla dispersione in cui si
trova e la riporterà un giorno nuovamente a colui che è spoglio della sua
gloria.
Ciascuno dei suoi atti, ciascun adempimento di una legge, porta a compimento un tratto di questa unificazione” (Rosenzweig 1921, 421-422). L’unificazione avviene, in questa prospettiva, nei confronti di Dio stesso, scissosi internamente nella sua donazione all’uomo come Shekhinah, ma la sua dimensione redentiva gli associa una pertinenza universale, che abbraccia tutta la storia: “la Shekhinah, il discendere di Dio tra gli uomini e il suo abitare tra loro, viene rappresentato come una scissione che avviene in Dio stesso. Dio stesso si separa da sé, si dona al suo popolo, soffre con lui il suo dolore., si trasferisce con lui nella miseria della terra straniera, lo accompagna // nelle sue peregrinazioni. […] Le sofferenze di questo resto, il continuo separarsi e il doversi - necessariamente – suddividere, diventano una sofferenza per la causa di Dio stesso ed il ‘resto’ `portatore di questa sofferenza […].”Attraverso l’idea di resto, l’ebreo raggiunge una “comprensione profonda” del “dono di sé fatto da Dio ad Israele”, in essa egli “ha sentore di una sofferenza di Dio (che, a rigore, non potrebbe darsi) e nella scissione interna di Israele in un resto ha il sentore di farsi-abitazione per il Dio in esilio.” (Ib., 421) Si radica in questa dimensione universalmente redentiva la dottrina talmudica dei “trentasei giusti” sconosciuti agli altri e a sé stessi che non possono mancare ad ogni generazione e salvano il mondo (Sahnedrin 97b; Soukka 45b).
[5] “Ma voi siete la stirpe eletta, il sacerdozio regale, la nazione santa, il popolo che Dio si è acquistato perché proclami le opere meravigliose di lui che vi ha chiamato dalle tenebre alla sua ammirabile luce” (1 Pt 2,9).
[6] “Amore e verità s'incontreranno,
/ giustizia e pace si baceranno. / Verità germoglierà dalla terra / e giustizia
si affaccerà dal cielo. / Certo, il Signore donerà il suo bene / e la nostra
terra darà il suo frutto” (Sal 85, 11-13).
[7] “E li mandò ad annunciare il
regno di Dio e a guarire gli infermi. Disse loro: «Non prendete nulla per il
viaggio, né bastone, né sacca, né pane, né denaro, e non portatevi due
tuniche»” (Lc 9, 2-3).
[8]
Mosè disse loro: «Nessuno ne faccia avanzare fino al mattino». Essi non obbedirono a Mosè e alcuni ne
conservarono fino al mattino; ma vi si generarono vermi e imputridì” (Es 16,
19-20).
[9] Il Signore “ha
detto: «È troppo poco che tu sia mio servo/per restaurare le tribù di Giacobbe
/e ricondurre i superstiti d'Israele. / Io ti renderò luce delle nazioni, /
perché porti la mia salvezza / fino all'estremità della terra»” (Is 49,6).
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