Il populismo nazionale non è di marca cattolico democratica, di Giorgio Armillei*
Le
formule giornalistiche fanno storcere il naso agli intellettuali ma spesso
colgono nel segno. Fanno in altri termini il loro mestiere, suscitano una
salutare discussione, anche quando mettono in luce non tratti pertinenti della
realtà ma esattamente il loro opposto, o meglio fanno centro ma colpendo il
bersaglio sbagliato. È il caso del pezzo assai interessante di Francesco
Cundari su Linkiesta del 13 aprile. In molti si sono esercitati nella ricerca
delle radici del populismo politico nazionale. Qualcuno è andato indietro non
fino allo scontato “Uomo qualunque” ma al meno lontano ma certamente più
influente referendum pannelliano del 1978 sul finanziamento pubblico dei
partiti, segnale d’allarme non ascoltato in tempi di ancora apparente egemonia
dei partiti di massa. Cundari spiazza tutti con una tesi sorprendente: il
populismo nazionale ha avuto un padre nobile nella fascinazione della sinistra
cattolico democratica per il sistema elettorale maggioritario. Si comincia con
il brillante “anonima partiti” di Andreatta (padre) ripreso da Andreatta
(figlio) ora nel cerchio magico di Letta (linea di successione Andreatta,
Ulivo, PD, Renzi) e si finisce con l’assai meno brillante “uno vale uno” dell’altrettanto
“anonima” Rousseau. Interessante ma non convincente, per una serie di ragioni
che provo a sintetizzare.
Cominciamo
da lontano. Le debolezze del compromesso costituzionale italiano sono note. Gli
stessi costituenti ne erano del tutto consapevoli, come testimoniato dal celebre
ordine del giorno Perassi con il quale ci si impegnava a introdurre correttivi
che impedissero il deragliamento della nostra forma di governo, pericolosamente
agganciata al sistema elettorale proporzionale. Sappiamo anche che ben consistenti
erano le ragioni di quel compromesso costituzionale realizzato dentro uno
spazio di manovra assai ristretto, in ragione per un verso del complesso del
tiranno e per l’altro dalla mancata legittimazione democratica della sinistra
comunista. Ne venne fuori un assetto costituzionale funzionale alla transizione
democratica ma che richiedeva man mano che se ne avveravano le previsioni (definitiva
reciproca legittimazione) continue manutenzioni condite da sostanziali
cambiamenti. In altri termini tanto più la democrazia consociativa faceva (bene)
il suo mestiere tanto più la democrazia competitiva andava fatta entrare in
campo. Questo vedevano con lungimiranza i costituenti. Per inciso, difficile pensare
anche loro come ispiratori del populismo nazionale.
Ma
la democrazia competitiva non è mai compiutamente entrata in campo. La
transizione democratica si è completata, per fattori interni ed esterni, ma
quella istituzionale è rimasta impigliata nella rete dei veti e degli errori. E
il quadro della transizione verso la democrazia competitiva non è fatto soltanto
di regole e di assetti istituzionali ma anche di partiti e del sistema di partito,
non solo di party in the governement ma anche di party organization.
Dal che i partiti burocratici di massa che avevano gestito e completato la
transizione democratica erano diventati inservibili per la transizione
istituzionale: il loro sgretolarsi andava fronteggiato aggiornando gli argini
costituzionali. Ci siamo così ritrovati con partiti privi di ancoraggio
sociale, perché la società italiana non aveva più bisogno della pedagogia del
partito di massa, e con assetti istituzionali privi del loro ancoraggio nel
sistema di partito che dei primi costituiva la spina dorsale. Così come ci
siamo parallelamente ritrovati con una presenza intrusiva e ostruttiva della
politica nell’economia che di quel compromesso costituzionale rappresentava per
diverse ragioni un corollario. Progressivamente cultura, economia, religione,
scienza hanno dichiarato esaurita la funzione integrativa di quel compromesso.
Forma di governo e partiti non hanno però preso atto di quella dichiarazione.
Difficile pensare a una condizione migliore per alimentare scorciatoie
populiste.
Questo
è l’affresco entro il quale lavorano negli anni ottanta e all’inizio degli anni
novanta il movimento referendario e i suoi referenti politici. Andreatta,
Segni, la FUCI, le Acli, Ruffilli, Barbera, Pasquino, Scoppola, prima ancora
Amato – anche se poi il mondo socialista finì invece per fare da stampella al
moribondo pluralismo polarizzato – Calderisi e il mondo radicale. Ciascuno a
suo modo pensa a come costruire un nuovo allineamento tra società e sistema
politico, prendendo atto del successo della transizione democratica e cercando
di confezionare, con gli strumenti politicamente disponibili e attivabili, un
assetto capace di chiudere in modo equilibrato e funzionante la transizione
istituzionale. E lo fanno pescando un po' ovunque, non che infatti mancasse una
tradizione da rivalutare e sviluppare: Einaudi, Sturzo, Duverger, Mortati,
Sartori e tanti altri. Fino ad arrivare al convegno di Orvieto del 2006 nel quale
si mise a punto una possibile risposta alla sfida della “democrazia del
pubblico” all’organizzazione dei partiti politici: un nuovo partito e non un
partito nuovo. In forme assai più sofisticate e contendibili di quanto non
avesse già tentato Forza Italia 10 anni prima. Sfida che esigeva un parallelo
completamento costituzionale, in qualche modo ricercato con diversi e non
equivalenti equilibri sia dalla riforma Berlusconi del 2006 che dalla riforma
Boschi Renzi del 2016.
Se
tutto questo percorso non ha prodotto i risultati attesi non si può non provare
a setacciare errori, insufficienze, ingenuità delle diverse coalizioni politiche
e culturali che lo hanno sostenuto. Quello che non si può fare tuttavia è
imputare alla cultura istituzionale di questo percorso la responsabilità dello
sbandamento populista del paese via via sempre più forte, sino alle elezioni
del 2018 e alla formazione della maggioranza Lega M5s. O meglio lo si può fare a
patto di assumere una premessa che si dimostra assai debole: fuori dell’esperienza
del partito burocratico di massa e del sistema elettorale proporzionale non c’è
salvezza, ovvero non c’è democrazia moderna. Una premessa che appare a tutti gli
effetti un mito, uno dei miti che buona parte della sinistra e dello stesso
cattolicesimo democratico hanno ostinatamente coltivato, finendo per alimentare
“oggettivamente” il conservatorismo che ha continuato a gettare sabbia nel
motore delle riforme costituzionali, alleandosi spesso con alcuni ma influenti
eredi dell’azionismo.
E
il mito si è fatto resistenza, inizialmente fortissima, poi via via attenuata ma
mai scomparsa del tutto, come il referendum del 2016 ha largamente dimostrato.
La resistenza non ha generato però un nuovo assetto né contrastato le degenerazioni
del parlamentarismo lucidamente messe a fuoco dai costituenti. Ha invece trascinato
il sistema verso una progressiva paralisi decisionale. Democrazia governante e
sistema elettorale majority assuring sono in realtà le migliori polizze
di assicurazione contro il populismo, come il caso Macron ha ampiamente dimostrato.
Cercarle non genera populismo ma al contrario previene il populismo perché
accresce la capacità decisionale del sistema. E lo contiene perché evidenzia le
alternative e fa emergere la frattura tra populisti e liberali, mettendo i
secondi in condizioni di liberarsi di alleanze spurie e dannose.
Non è allora fuori luogo concludere imboccando una strada diversa da quella di Cundari e andando a cercare altre fotografie nell’album di famiglia del populismo italiano, stando attenti a non sbagliare album. Difficile allora non pensare al Berlinguer che dopo la conclusione dell’esperienza della solidarietà nazionale – ultimo esempio da lui stesso sapientemente assecondato del funzionamento integrativo della democrazia consociativa che tuttavia ne esigeva l’immediato superamento – comincia a parlare di diversità e di questione morale. I partiti di oggi sono soprattutto macchine di potere e di clientela, dirà nella famosa intervista a Scalfari. Era il 28 luglio del 1981, l’anno in cui Andreatta aveva firmato la lettera che sanciva il divorzio tra Tesoro e Bankitalia, pilastro antipopulista della costituzione economica materiale del nostro paese. Dieci anni dopo, ci avviciniamo al trentennale, il primo dei referendum elettorali dimostrava al contrario che diverse regole istituzionali e diversi partiti avrebbero potuto farcela a completare la transizione istituzionale, sfuggendo all’alternativa tra la repubblica dei partiti e la scorciatoia populista che si avviava a mietere i primi successi attraverso la Lega.
https://www.linkiesta.it/2021/04/populismo-proporzionale-cundari-partiti-storia/
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