Il fantasma della libertà, di Luciano Iannaccone
Nel
dibattito in corso su “destra” e “sinistra”, società aperta o chiusa in se
stessa, si inserisce l’articolato
intervento di Giorgio Armillei su questo blog. Ma ha detto la sua anche Tony
Blair nell’intervista a Repubblica del 13 novembre. Per lui il voto
presidenziale negli USA è una lezione per tutti: quella “che il populismo
di destra non può essere battuto da un
populismo di sinistra. Ma solo da un leader come Joe Biden, che unisce”.
Penso
anch’io che i populismi siano due, quello che fa del “sovranismo” una contraddittoria
e masochistica difesa e quello della
santa alleanza tra il politicamente corretto e uno statalismo onnivoro e
disastroso.
Scrive
Armillei che “la prosecuzione e lo sviluppo dell’esperimento liberale dell’unione
europea, contrapposto alla sua dissoluzione sovranista” è lo scenario
internazionale in cui può essere ridefinito uno scenario di competizione
politica nazionale. Sono d’accordo, ma perché ciò avvenga è necessario che dal
salone degli orizzonti e delle strategie
si scenda anche nelle basse cucine in cui si manipola e si prepara il
cibo quotidiano delle scelte sociali, economiche ed istituzionali. Per
verificare se la società aperta, la giustizia sociale, la libertà,
l’eguaglianza della condizioni di partenza siano perseguite davvero dai governi
e dalla politica. O se siano umiliate dalla convenienza clientelare, partitica
e personale che remano in tutt’altra direzione.
Porto
tre esempi o verifiche concrete dell’attuale situazione nazionale. La
drammatica situazione pandemica, la caduta della produzione e dell’occupazione avrebbero
dovuto rafforzare gli sforzi per promuovere equità sociale, in particolare tra
garantiti e non garantiti, per valorizzare ogni possibilità di nuovo lavoro,
per difendere le libertà dei cittadini.
Tre esempi mostrano il contrario:
sui primi due Pietro Ichino sta
conducendo da mesi una solitaria, ma splendida battaglia, incalzando
manovratori (due ministre e un governo) che
non vogliono essere disturbati.
Primo
esempio: la pandemia ha innalzato vertiginosamente il ricorso alla cassa
integrazione. Una legge dello Stato prevede che possa essere attivata nei
riguardi di dipendenti pubblici. E questo avrebbero dovuto fare la ministra Dadone
ed il governo in tutte le situazioni in cui il dipendente pubblico non fosse di
fatto in condizione di svolgere lo “smart working”. Ciò per l’arretratezza
telematica di larga parte della pubblica amministrazione che impedisce il
lavoro da remoto. Non stiamo parlando
della sanità o della scuola o di altri settori in prima linea, ma di quelli in
cui “smart working” vuol dire stare a casa a non far nulla, se non andare a far
la spesa. Era d’obbligo usare la cassa integrazione, in spirito di equità e
giustizia. Le repliche della ministra Dadone sono ridicole ed il silenzio del
governo amplifica il fossato che divide in Italia garantiti e non garantiti.
Per non parlare dello scandalo di uffici pubblici chiusi a tempo indeterminato
ed incuranti delle urgenze dei cittadini.
Il
secondo esempio: Pietro Ichino ha ripetutamente documentato che “Alla fine del
2019 l’Agenzia nazionale delle politiche attive al lavoro (ANPAL) ed
Unioncamere censivano in Italia 1,2 milioni di posti di lavoro qualificato e
specializzato che rimanevano permanentemente scoperti per mancanza di personale
disponibile a ricoprirlo o in grado di ricoprirlo”. Ma i due governi Conte sono
riusciti a peggiorare il poco che si faceva, lasciando spazio
all’irresponsabile ignoranza a cinque stelle che ha insediato al vertice
dell’ANPAL l’ineffabile Mimmo Parisi “from Mississippi”, che con i “navigator”
ha trasformato il dramma in farsa.
Il
tutto con gran parte dei sindacati in altre faccende affaccendati ed una
formidabile opportunità di lavoro, autonomia e dignità per giovani e meno
giovani che non ha trovato risposta innanzitutto, ma non solo, da parte del
governo, che avrebbe dovuto coordinarsi con le competenze regionali.
Il
terzo esempio: da due anni il guardasigilli Bonafede, con due governi diversi,
ha implacabilmente ingigantito la condizione di debolezza del cittadino e delle
sue libertà davanti alla giustizia. Dopo l’ultimo capolavoro, la sostanziale
abolizione della prescrizione dopo il primo grado di giudizio, era sembrato che
un moto di indignazione scuotesse parte rilevante della classe politica di
vario orientamento, cinque stelle esclusi. Ma il moto è sembrato placarsi (complici
il covid e l’”hic manebimus..”), Bonafede è al suo posto e le leggi liberticide
sono vigenti.
I
tre esempi sono lo specchio di una realtà quotidiana ben diversa dai proclami
governativi. Ma anche da richiami alle democrazia liberale che non si innervino
nella nostra desolata situazione. Se pensiamo che i rilevantissimi fondi e
prestiti europei previsti nel 2021, espressione
della coesione europea della democrazia liberale, saranno finalizzati e gestiti
dalle mani sopra indicate, il gelo scende nei nostri cuori.
E’
quindi necessario che qualcosa avvenga, fuori e dentro di noi, perché
l’esperimento liberale europeo si rafforzi e la sua concretizzazione in Italia
diventi meno impossibile.
Decisivo è che la libertà e l’eguaglianza nei
diritti e nelle opportunità non rimangano formula rituale e “tecnica”, non
diventino un simulacro (il fantasma della libertà), ma siano riscoperte nella
loro forza sconvolgente. Come espressione specifica del mistero della persona,
a cui solo lo stupore prima e la passione poi consentono di accedere. Dobbiamo
rimetterci in particolare in ascolto del secolo del liberalismo, l’Ottocento, le
cui espressioni culturali più alte, dal romanticismo all’analisi storica e
sociale, hanno segnato in modo indelebile il cammino comune. Con una
profondità, una passione, un entusiasmo che rimangono patrimonio dell’umanità,
ma che devono essere riscoperte da ogni generazione.
A questo
fiume impetuoso appartengono di diritto, in Italia come al di qua ed al di là
dell’Atlantico, protagonisti di fede cristiana, compresi esponenti del
cosiddetto cattolicesimo liberale. Ed è ad uno di loro che voglio riferirmi con
la sommessa proposta di una breve lettura al cortese lettore: Henri-Dominique
Lacordaire, prima giovane protagonista de “L’Avenir”, squillante espressione
del cattolicesimo liberale francese, poi da domenicano restauratore in Francia
del suo ordine soppresso nel 1790. Quasi alla fine della sua breve vita,
cooptato all’Accademia di Francia, tenne nel gennaio 1861 il discorso di
accettazione facendo l’elogio del Membro deceduto di cui prendeva il posto. Si
trattava Alexis de Tocqueville, il sommo analista storico e politico che con
“De la démocratie en Amérique” soprattutto, ma anche con “L’ancien Régime e la Révolution”,
ha meravigliosamente intrecciato la peculiare profondità di giudizio con la passione liberale e civile.
Il
“Discours de Rèception a l’Acadèmie Française” di Lacordaire è agevolmente
rinvenibile su “Google” e la sua lettura consente un breve, ma suggestivo
incontro con due uomini diversi, idealmente uniti nella comune passione per la libertà. Per
riscaldarci alla fiamma che in modi diversi illuminò la loro vita. E
riprenderne il cammino.
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