Il dito e la luna, di Giorgio Armillei
Valutare con equilibrio le criticità non significa
rinunciare a identificare il cuore dei problemi. Comincio dalla fine e la metto
così: con il caso Palamara siamo dentro un classico “il dito e la luna”. Il
problema principale non sono Lotti e la sua rete di relazioni, più o meno
opportunamente frequentata. Il problema è come si dice di sistema: il CSM e lo
squilibrio tra poteri costituzionali. Appaiono fuori luogo le prese di distanza
dei dirigenti del PD: il partito che ho in mente non si occupa di nomine dei
magistrati, per richiamarne una. Non tanto perché beh, lo sanno tutti, lo hanno
fatto tutti e da sempre, di cosa ti sorprendi. No, fuori luogo perché il rapporto
tra magistratura e sistema politico ha una sua storia istituzionale. È stato
disegnato come si poteva in costituzione; attuato male (in danno
dell’indipendenza dei giudici) nei primi 20 anni di storia repubblicana; scassato
a ragione nei successivi venti, anche per effetto della stagione del terrorismo
politico; manipolato in direzione opposta a quella costituzionale dal 1992 in
poi. E nessuno, soprattutto a sinistra, ha avuto il coraggio di mettere in
agenda e realizzare sul serio la sua riforma. Cadere dalle nuvole oggi è segno
di grande debolezza e del permanere dello squilibrio nel quale siamo piombati
da 25 anni. La politica non ha la forza di riformare la giustizia.
Tra politica e giudici i costituenti disegnarono un
equilibrio sul quale non poteva non pesare il medesimo complesso del tiranno
che condizionò le disposizioni sulla forma di governo parlamentare. Ne venne
fuori un compromesso tra le istanze di autonomia e quelle di connessione con il
potere politico, tenendosi ben distanti da un lato dal modello roussoviano
dell’elezione popolare dei magistrati e dall’altro dal modello oligarchico
liberale dell’incardinamento dei pubblici ministeri nel sistema della
burocrazia ministeriale. Nacque una specie di modello misto nel quali si
sarebbero dovute impastare autonomia della magistratura, influenza parlamentare
mediata dal CSM e ruolo di garanzia del Presidente della Repubblica. Il tutto
dentro il dogma dell’unicità della natura giurisdizionale dell’attività dei
magistrati, quella delle Procure e quella dei giudici. Unico dunque è l’ordine,
unica la carriera (con passaggi dall’uno all’altro ruolo resi più o meno
difficili), unico il Consiglio superiore della magistratura chiamato a
governare il sistema, unico il mondo di riferimento professionale. A suggello
il principio dell’obbligatorietà dell’azione penale: per evitare di dover
rendere sindacabili le scelte di politica giudiziaria delle Procure, le
indagini sul tentato scippo e quelle sulla mafia sono sullo stesso piano. La
partita si chiuse così.
Nonostante grandi costituenti si fossero spesi con forza per
soluzioni diverse - da quella della separazione tra pubblici ministeri e
giudici, a quella di immaginare una specie di procuratore generale nominato dal
Presidente della Repubblica e in varie modalità, dirette a garantire autonomia
e responsabilità allo stesso tempo, chiamato a dare un indirizzo all’attività
delle procure - il taglio netto con la tradizione liberale continentale e con
l’esperienza del regime autoritario sembrò imporre lo sbilanciamento verso il principio
dell’autonomia della magistratura, ordine autonomo e indipendente da ogni altro
potere. Al CSM andarono così le funzioni apicali di governo di questo ordine. Dalla
fine degli anni sessanta in poi, anche per reazione a una precedente fase di
quasi subordinazione ai poteri politici, il noto “congelamento costituzionale”
degli anni cinquanta nel quale molte previsioni della Costituzione restavano
lettera morta, queste funzioni furono lette in termini sempre più espansivi,
fino a far assumere al CSM un ruolo quasi di indirizzo politico in materia di
giustizia, una specie di terza Camera con poteri a forte impatto mediatico, a
volte consultivi a volte di vero e proprio veto. Onestamente è giusto
riconoscere che Cossiga aveva le sue ragioni per ribellarsi e non bisogna
dimenticare che i conflitti su questo punto cominciarono già con la presidenza
Saragat tra il 1968 e il 1969.
La creazione delle correnti interne alla magistratura, una
cosa del tutto ovvia in presenza di un’organizzazione complessa che richiede la
specializzazione delle funzioni di autogoverno; l’uso di sistemi elettorali
congegnati per moltiplicare la frammentazione e il correntismo, che quindi non
nasce dalla cattive tendenze di magistrati in cerca di potere ma da esigenze di
sistema largamente prevedibili e ampiamente conosciute; l’attraversamento
sempre più consistente delle famose porte girevoli tra giustizia e politica, di
una di queste è ancora stato concierge il PD nelle elezioni europee, al netto
del fragile velo del pensionamento; la presenza spesso inopportuna, altro che
Lotti, di magistrati negli uffici
legislativi e nei gabinetti dei ministri – in una recente ricerca (Melis e
altri) emerge che nel gruppo dei gabinettisti più gettonato i magistrati sono
il 67% del totale dei gabinettisti; il rifiuto di ogni meccanismo di governo e
conseguentemente di accountability dell’attività delle procure, anche assistita
da opportune garanzie e muri di separazione dall’esecutivo, ne fece le spese
Falcone; l’intreccio tra partiti e CSM, anch’esso del tutto ovvio essendo il
Parlamento ad eleggere un parte del Consiglio; tutto questo ha fatto il resto.
Sul mondo dei rapporti tra partiti e magistratura già sotto
stress, si sono poi abbattute due scosse telluriche: quella che con manipulite
ha sollevato la crosta terrestre costituzionale, con un ordine trasformato in
potere nei fatti privo di efficaci freni e contrappesi, Craxi aveva le sue
ragioni; e quella che con il populismo giudiziario (da ultimo quello del M5s)
ha generato uno sciame sismico ancora attivo. Difficile, molto difficile non
ritrovare nella questione morale di Berlinguer l’album di famiglia del
populismo giudiziario, come giustamente dice Vittorio Ferla su questo blog. Difficile,
molto difficile non vedere oggi nel collasso al quale assistiamo le tracce di
un ennesimo cattivo compromesso tra conservatorismo giudiziario e populismo
giudiziario, le due famiglie politiche responsabili del medesimo collasso.
Un’agenda per la riforma è così più urgente che mai. I
capitoli sono sempre quelli: separazione delle carriere e creazione di organi
di autoamministrazione separati, al momento quello italiano è un sistema
atipico sconosciuto in questa forma agli altri casi di democrazia stabilizzata;
responsabilizzazione dell’azione delle procure rispetto alle scelte di politica
giudiziaria, con tutte le garanzie del caso; superamento del principio
dell’obbligatorietà dell’azione penale – così come è lo abbiamo solo in Italia,
altrove se c’è è comunque circoscritto; cambiamento del sistema elettorale per
la composizione degli organi di autoamministrazione. Possiamo ritenere ancora
giustificato il ruolo inibitore del complesso del tiranno? E se sì – come si
può anche legittimamente ritenere, specie in un contesto nel quale divisione
dei poteri e democrazia rappresentativa vivono una crisi di legittimazione - come
possiamo neutralizzarne gli ingredienti più ostinatamente conservatori e
paralizzanti, quelli che animano la gran parte degli interventi dei magistrati
nel dibattito pubblico di queste settimane?
Ha ragione dunque Stefano Ceccanti. Per una ragione o per
l’altra si è aperta una finestra di opportunità in un settore di policy nel
quale i poteri di veto hanno sempre avuto la meglio. Prima che la crisi di
sistema degeneri in direzioni non prevedibili ma comunque caratterizzate dallo
squilibrio tra i poteri, è saggio approfittarne per mettere in cassaforte
almeno una riforma, quella del sistema elettorale per la composizione dei
componenti togati del CSM. Una riforma che renda molto più difficile la vita
alle correnti e molto più facile la vita ai candidati e agli eletti. Senza
farsi illusioni: tutte le organizzazioni hanno la loro stratarchia interna,
tutte le organizzazioni hanno le loro coalizioni dominanti, tutte le organizzazioni
hanno le loro dinamiche interne di potere. Altrimenti non esisterebbero come
organizzazioni. Ma possiamo trattare giuridicamente la magistratura come
un’organizzazione?
Però non si possono avere dubbi: si comincia dal punto in
cui i riformisti possono vincere e non solo scrivere libri dei sogni.
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