Fusaro versus Zagrebelsky: una lettera al Corsera

In un'intervista al "Corriere" (2 aprile), un autorevole esponente del "fronte del no" (no - di fatto - a qualsiasi riforma, e in particolare al progetto del governo Renzi e alla trasformazione del bicameralismo qui ed ora), Gustavo Zagrebelsky, lascia intendere che i fautori delle riforme, presi dall'ansia improvvisa di cambiare per cambiare si muovono con superficialità, senza approfondimenti, ignorando le «ragioni profonde - nelle democrazie - delle seconde camere». Sono critiche stupefacenti, tanto più da parte di un collega di così vasta dottrina. Per amor di verità e per informazione dei lettori vorrei precisare: primo, che il bicameralismo del 1948 nacque come nacque - come altri aspetti della forma di governo - per la profonda reciproca sfiducia dei maggiori partiti dell'epoca; secondo, che da subito esso pose problemi rilevanti tanto da indurre le forze politiche a eliminare le modeste differenziazioni che i costituenti avevano introdotto: di fatto uniformando la legislazione elettorale a quella della Camera e ricorrendo, poi, al sistematico scioglimento anticipato del solo Senato per eleggere insieme le due camere; terzo, che in pratica non si è mai cessato di discutere di composizione, funzioni e ruolo della seconda camera e che almeno dal 1982 (istituzione dì due Comitati di studio "per l'esame dei problemi istituzionali", uno alla Camera e uno al Senato) il Parlamento ne ha ripreso l'esame in chiave riformatrice; quarto, che tentativi di riforma del bicameralismo, in particolare, sono stati condotti dalla Commissione Bozzi (1983-1985), dalla X legislatura (progetto approvato in prima lettura al Senato, 1990), dalla Commissione De Mita-Iotti (1992-1994), dalla Commissione D'Alema (1997-1998), dalla XIV legislatura (progetto approvato dalle camere in doppia lettura, ma non confermato dal referendum popolare, 2005-2006), dalla XV legislatura (progetto c.d. Violante elaborato in I Commissione alla Camera, 2007), dalla XVI legislatura (progetto approvato in prima lettura dal Senato, 2012). Con tutto ciò e con quel po' po' di elaborazioni dottrinali che hanno preceduto, affiancato e seguito questi tentativi riformatori, dipingere lo sforzo del governo Renzi come una specie di fulmine a ciel sereno, frettoloso e non ben meditato prodotto di riformatori dell'ultim'ora, mi pare davvero troppo. Del resto la relazione finale della Commissione delle riforme (i 35 + 7 nominati dal governo Letta) pochi mesi fa (17 settembre 2013) iniziava con queste parole: «La Commissione ha svolto i suoi lavori nella consapevolezza della gravità della crisi italiana e delle connessioni esistenti tra il perdurare di una recessione che minaccia la coesione sociale da un lato e la debolezza delle istituzioni politiche dall’altro. La Costituzione del 1947 ha consentito di raggiungere importanti risultati che oggi corrono il rischio di essere perduti. La necessità della riforma delle istituzioni nasce proprio dall’esigenza di non vanificare i risultati sinora conseguiti». E poi: «Per superare la crisi... la Commissione unanime ritiene necessari interventi di riforma costituzionale, i cui punti principali sono...: 1. Il rafforzamento del Parlamento attraverso la riduzione del numero dei parlamentari, il superamento del bicameralismo paritario, una più completa regolazione dei processi di produzione normativa e, in particolare, una più rigorosa disciplina della decretazione di urgenza. 2. Il rafforzamento delle prerogative del Governo in Parlamento attraverso la fiducia monocamerale, la semplificazione del processo decisionale e l’introduzione del voto a data fissa di disegni di legge. 3. La riforma del sistema costituzionale delle Regioni e delle Autonomie locali che riduca significativamente le sovrapposizioni delle competenze...». Come si vede si tratta proprio delle materie affrontate dal progetto governativo. Non è allora un caso che promotrici dell'appello del "fronte del no" siano le uniche due componenti di quella Commissione dimessesi dall'incarico (Lorenza Carlassare e Nadia Urbinati). Legittimo il dissenso: meno accompagnarlo con delegittimanti accuse ai riformatori (superficiale faciloneria, ignoranza e - perfino - derive autoritarie). E ciò quando tutte le grandi democrazie - Stati Uniti a parte - hanno parlamenti monocamerali o, più spesso, bicamerali ineguali, in molti casi indirettamente composti.     Carlo Fusaro Ordinario di diritto pubblico comparato Università degli studi di Firenze / Dipartimento scienze giuridiche    

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