Fermare il populismo: istruzioni per l'uso, di Giorgio Armillei

E così Trump esce di scena. Male, inutile dirlo. Come male ha governato per quattro anni, anche quando ha fatto le (pochissime) scelte giuste. Male perché il populismo non è compatibile con la democrazia liberale, non c’è proprio nulla da romanizzare. Male perché il nazionalismo non è compatibile con la modernizzazione avanzata, non c’è identitarismo buono da salvare.

Trump esce di scena ma il trumpismo non si cancella con un voto, non era difficile prevederlo: il populismo è ancora vivo. Il cluster trumpiano di uomini bianchi, sopra i 65 anni, fondamentalisti, residenti nelle zone rurali e nelle piccole città, tra south e midwest è ancora lì. Anzi, grazie agi scivoloni della sinistra liberale, ha conquistato qualche spazio in più. Ma questo conferma quanto detto da molti in questi anni. La struttura profonda del trumpismo non ha a che fare principalmente con la frattura tra destra e sinistra ed è invece intrecciata con il “cultural backlash” degli ultimi decenni. Sono la rabbia, la paura, l’invidia, l’ossessione identitaria ad aver innervato questa struttura. Su quelle e con quelle si è costruita l’ondata populista che certo non farà marcia indietro in pochi mesi o in pochi anni. Basti pensare a quanto lunga è stata la preparazione di Brexit o a quanto lontane siano le radici del populismo italiano - da “mani pulite in poi - per rendersi conto del tempo che occorrerà per riportare il sistema in equilibrio. In altri termini, per i prossimi anni la dimensione di competizione tra liberali e populisti resterà determinante per comprendere una dinamica politica che rimescola l’allineamento tra destra e sinistra.

Per il momento l’influenza populista si va raffreddando, grazie a strategie diverse, lontane per culture politiche di riferimento ma convergenti. Ha cominciato Mark Rutte nel 2017. Poi è stata la volta di Macron qualche mese dopo. Merkel da tempo lavora in progress lungo questa medesima traiettoria. Il 2019 è l’anno delle elezioni europee e della maggioranza Ursula. L’Italia ha trovato una strada tutta sua - visti i rapporti di forza e i limiti dell’assetto istituzionale - spezzando il fronte populista, mandandone una parte all’opposizione e tenendo l’altra al governo, sotto stretta (si spera) sorveglianza dell’Unione. La politics ne ha guadagnato in termini di riequilibrio, sulle policy è meglio sorvolare. Rimane fuori da tutto questo processo il Regno Unito che si è perso dietro l’illusione brexitara e - in grandissima parte per responsabilità di una sinistra vittima della medesima sindrome populista - non ha avuto una seconda chance per rimediare all’errore del 2016. Ora tocca agli Stati Uniti con Joe Biden e Kamala Harris che a differenze di Bernie Sanders e Alexandria Ocasio-Cortez hanno costruito una coalizione alternativa ad ogni populismo di destra e di sinistra.

Insomma, se si resta nel perimetro della sinistra del ‘900 non si costruiscono rimedi vincenti contro il populismo. Questa la lezione di questi quattro anni aperti dal referendum britannico e chiusi dalla vittoria di Biden. Se si vuole che speranza, globalismo e apertura prevalgano stabilmente – pur nel pluralismo delle prospettive – su nostalgia, sovranismo e chiusura, la ricetta non è la rincorsa a sinistra. Occorre guardare altrove, verso qualcosa di cui riusciamo a mettere in ordine i pezzi ma non ancora a percepire la visione di insieme. Ma soprattutto occorre schivare letture in chiave tradizionale destra vs sinistra. Non certo per gusti ideologici quanto innanzi tutto per pragmatismo. Cominciando dall’Italia e dalle scadenze elettorali del 2022 e del 2023.

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