Evangelizzazione e lavoro culturale. Milano 1980. Giovanni Ferretti

Congresso Fuci di Milano 1980

Evangelizzazione e lavoro culturale oggi Vivere la salvezza dentro la città

Giovanni Ferretti

Invitato a parlare sul tema «Evangelizzazione e lavoro culturale» ho suggerito di aggiungere, almeno nei manifesti, «oggi», perché sono convinto che la ricerca teologica non sia una ricerca su temi astratti, come ad esempio mettere assieme due termini in generale, come evangelizzazione e lavoro culturale, ma debba rispondere ai problemi storici concreti che nascono dalla vita di fede. Mi pare quindi importante cercare anzitutto di chiarire la domanda da cui è nata la richiesta di trattare questo tema, partendo da una riflessione sui termini stessi usati per fare questa richiesta: evangelizzazione e lavoro culturale; anch'essi hanno infatti una precisa connotazione storica, che contraddistingue il nostro tema da quello più generico del rapporto fede e cultura, fede e ragione, grazia e natura.

Evangelizzare in università

Iniziamo dal termine evangelizzazione. Come ci è stato detto introducendo questa giornata, questo termine ha ripreso a circolare nelle comunità da non molto tempo e ha come sfondo la problematica pastorale della Chiesa post-conciliare e in particolare della Chiesa italiana. Perché si è riscoperto questo termine? A mio avviso perché la Chiesa in generale, e in particolare la Chiesa italiana, hanno scoperto la progressiva scristianizzazione della realtà in cui vivono. In Italia non solo si sono scristianizzate le istituzioni (che forse erano più scristianizzate alla fine 800 inizio 900 che non adesso) ma si è avuta, quale vera novità, la scristianizzazione del popolo, delle masse una volta fedeli. Proprio questa scristianizzazione ha fatto riscoprire il primato della evangelizzazione, intendendo per evangelizzazione proprio l'annuncio primo, ai non credenti o a chi non crede più, a chi ha una fede puramente sociologica e non riesce più, a credere in modo vitale. Si è parlato anche per l'Italia di « Chiesa in stato di missione». Questo termine «evangelizzazione» dobbiamo tenerlo presente con due connotazioni particolari, legate entrambe al concetto di primato dell'evangelizzazione. La prima connotazione riguarda la necessità di concentrarsi, da parte della Chiesa, nelle esigenze del «primo annuncio». Naturalmente c'è stata una lunga discussione a proposito del rapporto fra questo «primo annuncio» e l'amministrazione dei sacramenti da un lato e la catechesi dall'altro. Non sto a spiegare le vicende di queste discussioni, ma senz'altro l'utilizzazione della parola evangelizzazione, invece che, come in passato, catechesi, significa che ci si è sensibilizzati all'esigenza di un annuncio che giunge o per la prima volta o che deve giungere in modo da trasmettere effettivamente la fede. Una seconda connotazione mi pare sia questa: il primato dell'evangelizzazione implica anche, da parte della Chiesa, un mettere in secondo ordine, o un mettere da parte, altre azioni della Chiesa, o di supplenza come erano in passato tante opere cattoliche, o anche di ingerenza forse utile e opportuna in certi momenti storici, ma certo oggi da evitare in ogni modo; penso soprattutto alle ingerenze della Chiesa in campo politico.

In sintonia con questo primato della evangelizzazione si capisce come l'A.C., e con essa la FUCI, abbiano compiuto, verso la fine degli anni '60 la «scelta religiosa», che oggi si connota come «scelta dell'evangelizzazione» lasciando da parte, come A.C. e come gruppo FUCI, altre azioni di supplenza o eventualmente di ingerenza, per concentrarsi in ciò che è essenziale nella missione della Chiesa.

II problema che oggi ci tiene particolarmente impegnati è la domanda: come attuare il programma di «evangelizzazione» in ambiente universitario, tra universitari? Tenterò di polarizzare la mia attenzione anzitutto sul capire come è nato questo problema, perché questo problema. Se non ho capita male, mi pare che il problema sia nato dalla presenza di vari moduli, con rispettive giustificazioni, di presenza ecclesiale nell'università e tra gli universitari per attuare questo programma di evangelizzazione.

a) Un primo modulo lo sintetizzerei in questa formula: esclusione di gruppi ecclesiali di universitari cattolici; l'evangelizzazione degli universitari - si dice - è sufficiente che l'attui la comunità cristiana nel suo insieme, formando al suo interno anche gli universitari alla vita cristiana. Poi i singoli universitari porteranno da soli, o anche in gruppi, ma senza impegnare la Chiesa, e quindi sotto la loro responsabilità personale, nell'ambiente universitario la coscienza di fede che hanno acquisito. Questo modulo non è astratto perché, ad esempio proprio qui a Torino esso ha portato all'autoscioglimento del gruppo FUCI nel 1969.

Il modulo è similare a quello che dopo il Vaticano II, sembra diffondersi in Italia circa il rapporto Chiesa e vita politica. La comunità cristiana forma la coscienza di fede circa le esigenze di impegno dei cristiani. Ma i cristiani si impegnano singolarmente, o anche in gruppo senza copertura ecclesiale, nella vita politico-partitica.

b) Un secondo modulo, forse quello rispondente più propriamente alla situazione attuale della FUCI, e quello che tende a formare dei gruppi ecclesiali di universitari cattolici, operanti però, in quanto gruppo ecclesiale in sintonia con la gerarchia, fuori della università. Gruppi specifici di universitari cattolici sono opportuni date le esigenze specifiche di formazione e di evangelizzazione richieste dalla vita universitaria, a cui non risponde sufficientemente la comunità ecclesiale in generale; ma come gruppo ecclesiale, essi lavorano fuori delle strutture universitarie. Nell'università, gli universitari FUCI testimoniano come singoli, in gruppi non etichettati, aperti a tutti e in collaborazione con tutti. Il fermento evangelico, queste sono le motivazioni, non ha infatti bisogno di costituirsi nella realtà temporale, nella società civile e quindi anche nell'università, un proprio territorio; vuole essere, tramite i cristiani, vicino a tutti, compagno di tutti, senza appropriarsi di nulla: vuole essere presente per «servire» non per «occupare». Se non mi sbaglio questa scelta è stata ribadita al Convegno FUCI di Napoli del 1977 anche se ci si è chiesti se veramente nell'università non c’era niente da fare come gruppo FUCI e si è finito per elaborato il modulo complementare del « gruppo di facoltà». Tramite il «gruppo di facoltà », i fucini vogliono essere presenti nei problemi specifici dell'università, ma non come gruppo ecclesiale FUCI, bensì suscitando volta per volta sia dibattiti aperti a tutti sia iniziative capaci di coinvolgere tutti.

Rifiutare l'integralismo

Indubbiamente questa soluzione ha alle spalle la riflessione che la Chiesa italiana ha portato avanti, soprattutto col convegno del nov. 1976, circa il tema di evangelizzazione e promozione umana. La promozione umana, si è osservato, è costitutiva dell'annuncio evangelico; il vangelo deve essere annunciato là dove si fa vita. Però, si è anche osservato la comunità cristiana, la Chiesa, non ha avuto da Cristo lo strumento del «potere» terreno, nemmeno come mezzo per compiere la sua missione di salvezza nel mondo. «II mio regno non è di questo mondo».

Mi pare che il tener ferme queste due osservazioni ci possa offrire la discriminante fondamentale per salvare da un lato la presenza della Chiesa nel mondo, nella promozione umana, e per evitare, dall'altro, che la Chiesa come tale si ampli sulla società, cadendo nel modulo cosiddetto «integralista». La Chiesa deve essere presente nel mondo ma non deve farsi gruppo di potere nel mondo. Non si può essere presenti come gruppo ecclesiale in università quale gruppo politico di potere, di accaparramento di posti in nessuna forma, senza tradire Cristo. «L'integralismo, diceva Sorge a Roma, è il tarlo del Vangelo». Ove per integralismo si intenda l'estendersi della comunità Cristiana fino ad occupa re, come tale, sotto qualsiasi veste, un posto di potere nella società. è questa la tentazione del messianismo temporale, che Cristo ha vinto e alla cui sequela la Chiesa Cristiana deve sempre nuovamente vincere, nelle diverse forme storiche che esso può rivestire.

c) II terzo modulo è quello di un gruppo ecclesiale di universitari cattolici operante come tale in università. è il modulo della presenza come gruppo ecclesiale FUCI in università per evangelizzare la cultura; non solo per fare opera di promozione umana con gli altri, ma per portare il vangelo e farne l'anima della cultura universitaria. Gli argomenti che normalmente si portano per questo terzo modulo sono questi: la Chiesa deve essere presente per evangelizzare in ogni ambiente; la cultura ha particolare esigenza di essere evangelizzata perché tocca l'uomo integrale, l'autocomprensione dell'uomo; perché, soprattutto oggi, la cultura può essere un'alternativa al vangelo, specie quando si presenta come cultura atea o materialista. Inoltre, si dice, il vangelo deve incarnarsi nella cultura e nelle culture, quindi deve essere portato dalla Chiesa là dove si fa cultura; il vangelo è fonte di cultura; da Cristo nasce un modo nuovo di guardare le carne e il mondo, quindi una nuova cultura, la cultura cristiana.

Se non mi sbaglio, uno dei problemi che la FUCI si prospetta è proprio se deve fare o non fare il passo che la porta a questo terzo modulo.

è questa oggi in università una via corretta di evangelizzazione? E se questa via non è da percorrere, come risolvere il problema di animare col vangelo la cultura universitaria, compito che evidentemente la FUCI ha come proprio per sua stessa costituzione? A questo punto, per pater risolvere il problema, si chiede al teologo un modello teorico sui rapporti tra fede e cultura da applicare poi nella prassi. E purtroppo il teologo, o meglio la riflessione teologica oggi, deve rispondere che un modello teorico assoluto applicabile in tutti i tempi e in tutti i campi non ce l'ha. Storicamente ce ne sono stati diversi, tanti quante sono state le varie culture, i vari modi di organizzazione sociale della Chiesa, della scuola, dell'università, ma non è possibile, a mio avviso, dare un unico modello teorico del rapporto tra fede e cultura che sia applicabile oggi nel dinamismo concreto dell'evangelizzazione e del lavoro culturale. La riflessione teologica però, può essere ugualmente di aiuto, perché può individuare almeno alcuni principi quadro, forse più negativi che positivi, per tentare in qualche modo di essere presenti, evangelizzando, nei vari modi concreti con cui il lavoro culturale è fatto oggi nell'università.

Per una nuova dialettica

Tali principi-quadro, più negativi che positivi forse anche un po’ generici, possono essere così riassunti:

1) Non dualismo tra vangelo e cultura; la distinzione sì, la separazione no. Distinzione sì, perché il vangelo scende dall'alto, ha origine direttamente da Dio, non sopprime l'umano, né lo sostituisce ma vi si accompagna. La cultura invece nasce dall'uomo, è connaturale all'uomo, è una sua produzione storica.

Distinzione sì, ma non separazione. Qui il principio di fondo da invocare è evidentemente quello di incarnazione. II vangelo è parola e prassi di salvezza, vuol trasformare l'uomo, essere fermento, vuole diventare vita dell'uomo, quindi vuole anche diventare cultura; non c'è infatti vita dell'uomo senza cultura.

Se il vangelo vuole diventare vita deve anche diventare farsi cultura. Questa è la linea del non dualismo.

2) Secondo principio: non integrismo, animazione sì, ma assorbimento no, sacralizzazione no. II vangelo deve essere annunciato alla cultura, ma non deve assorbire la cultura né deve monopolizzarla. Se dovessi appellarmi a un principio teologico, ribadito dai primi concili ecumenici, mi rifarei alla condanna del monofisismo; dove per monofisismo si intende una visione del rapporto tra la natura divina e la natura umana di Cristo, dove la natura umana viene trasformata interiormente dalla natura divina tanto da non essere più una vera natura umana ma qualcosa di ibrido, un misto di divino e di umano. La condanna del monofisismo significa appunto che la natura umana assunta dal Verbo rimane vera e propria natura umana; ampliando questo principio, si deve dire che, per il credente, l' umano della cultura deve rimanere umano, con la sua libertà la sua inventività, il suo rischiare responsabilmente, il suo ricercare autonomamente. La Chiesa portatrice del vangelo deve rispettare l'autonomia del mondo.

3) Non dualismo, non integrismo, bensì - e qui si passa al positivo - un certo rapporto «dialettico», da precisare, naturalmente, anche se da precisare in questo quadro: vi sono due poli, vangelo e cultura, che sono sempre distinti, ma anche sempre condizionantesi e richiamantesi a vicenda. II vangelo infatti non può vivere che in una cultura, «acculturandosi » o « inculturandosi» in essa. Italo Mancini, in Fede e cultura (Marietti, Torino 1979, pp. 92 ss.) parla della fede che si fa un «corpo» umano nella cultura, come il Verbo si è fatto un corpo umano in Cristo. Una cultura che incontra veramente il vangelo, d'altro lato, non può che essere interiormente trasformata ed animata. Anche la cultura, incontrando il vangelo non rimane tale e quale. E tuttavia il vangelo non diventa una cultura né la cultura può essere pura e semplice deduzione dal Vangelo, pura e semplice espansione di esso. Ma come si realizza tale rapporto dialettico in concreto? Con quali processi apostolici? Con quali mediazioni storiche? Come deve avvenire ciò oggi, data la coscienza di chiesa che noi abbiamo e data la struttura del lavoro culturale che si svolge nelle nostre università? Per rispondere in qualche modo a questo problema, che non si può risolvere teologicamente in astratto, debbo passare ad esaminare e precisare storicamente anche il secondo termine del nostro discorso: il lavoro culturale.

Il lavoro culturale

Anche il termine lavoro culturale va storicizzato e delimitato; storicizzato perché si tratta del lavoro culturale oggi, è delimitato perché vorrei restringermi al lavoro culturale che si fa in università. In un intervento del prof. Traniello, fatto nell'incontro preparatorio a questo seminario, era stata indicata, come una delle fonti storiche del termine «lavoro culturale», l'opera di Max Weber del 1919, II lavoro intellettuale come professione (traduz. Einaudi , Torino 1966). L'indicazione mi ha offerto lo spunto per cercare di ana­ lizzare i vari livelli in cui si situa il lavoro culturale oggi in università, richiedendo un diverso approccio da parte dell'evangelizzazione ecclesiale e quindi anche da parte dell'evangelizzazione di cui si fa carico un gruppo FUCI. Questi tre livelli o forme di lavoro culturale corrispondono in una certa misura alle tre funzioni tradizionali dell'università, che purtroppo nella nostra università italiana sono tutte e tre presenti ma malamente integrantesi; e forse proprio il problema della loro integrazione costituisce uno dei nodi fondamentali della riforma universitaria. Le tre funzioni si ricollegano rispettivamente alla visione napoleonica della università, indirizzata ad un sapere di tipo professionale; alla visione humboldtiana della università, indirizzata alla pura e disinteressata ricerca della verità; e alla visione più umanistico-illuministica dell'università indirizzata alla formazione dello spirito critico. Le tre forme di sapere, e le rispettive tre funzioni corrispondono a tre livelli di lavoro culturale che vorrei analizzare per vedere come in essi si può calare oggi una azione evangelizzatrice efficace e rispettosa dei principi quadro sopra ricordati.

a) Iniziamo dal lavoro culturale inteso come professione sia in senso stretto, quale e soprattutto il lavoro culturale dei docenti, sia come preparazione alla professione in senso vero e proprio sia perché è pagato, e quindi lo si fa per guadagnarsi di che vivere, sia perché da un servizio necessario alla società. Mi pare che una presenza evangelizzatrice, a questo livello, implichi, anzitutto, un'al tra presenza dei cristiani, in spirito di condivisione e di dialogo con tutti, per la soluzione dei gravi problemi professionali di giustizia e di efficienza che emergono da questo tipo di lavoro. Si tratta di presenza evangelizzatrice ma sotto il segno della promozione umana; questa deve vedere presenti i cattolici come uomini particolarmente sensibili anche se non necessariamente come gruppo etichettato. I problemi in gioco sono tanti perché toccano il problema della emarginazione del mondo giovanile universitario, della dequalificazione dello studio universitario, della professione universitaria, ecc. Direi che qui non c'è una spiegazione cristiana specifica, ma una soluzione umanamente equa, giusta, democratica da ricercare con ogni uomo di buona volontà. Sempre a questo livello, oltre alla condivisione dei problemi di giustizia sociale che toccano la professionalità del lavoro culturale una presenza evangelizzatrice deve oggi soprattutto essere una testimonianza di serietà e di onestà sia nella docenza, sia nello studio; tale serietà e onestà è infatti il presupposto di ogni azione evangelizzatrice, una vera «preparazione» all'ingresso del vangelo nell'università; un segno eminente, il più atteso, di autenticità evangelica. Prepararsi bene le lezioni, seguire accuratamente le tesi degli studenti, studiare con coscienza, spendere bene i soldi degli istituti, di finanziamenti per le ricerche, forse anche utilizzare il presalario per lo studio e non per altro, ecc. Penso che se il cristiano non dà questa testimonianza è già tagliato fuori dalla possibilità di annunciare. Direi che è un prerequisito indispensabile proprio perché molte volte, purtroppo, la serietà e l'onestà lasciano a desiderare, e il fatto di una presenza di serietà e di onestà dà subito nell'occhio e convince. Aggiungo che serietà e onestà significa anche, da parte dei docenti, dare dei contenuti solidi, «scientifici» introducendo al metodo critico con cui tali con tenuti sono stati raggiunti. L'università non è un puro e semplice trasmettitore di notizie già fatte, ancor meno di notizie poco controllate; se non si danno dei contenuti solidi, veramente ottenuti con metodo critico, e se non si introduce colui al quale si danno questi contenuti al metodo critico con cui sono stati raggiunti, non si fa bene il proprio lavoro. Oggi è grande la tentazione di farsi «padroni del pensiero», imponendo agli altri dalla cattedra le proprie opinioni, le proprie scelte ideologiche, la propria fede. Questo sarebbe certamente il modo peggiore di evangelizzare.

b) Un secondo livello su cui si fa lavoro culturale in università è il lavoro culturale come ricerca scientifica. Non intendo riferirmi alla ricerca scientifica della «verità» in astratto, quanta alla ricerca scientifica della verità, o meglio delle verità settoriali e parziali che si raggiungono nell'ambito delle varie discipline. Tale ricerca scientifica può essere commissionata dalla società in vario modo (sia dal potere economico, sia da quello politico), in funzione di determinati scopi pratici oppure può essere una ricerca scientifica lasciata alla libera iniziativa del ricercatore, in quanto si ritiene ancora importante per la società che le varie scienze progrediscano liberamente arricchendo tutti dei risultati conoscitivi raggiunti, indipendentemente dalla loro utilizzazione pratica immediata.

Libertà e autonomia della ricerca

Il primo problema che qui si presenta, nascendo dall'interno di questo tipo di lavoro culturale, e il problema della libertà e dell’autonomia dal potere politico ed economico. Il ricercatore scientifico dell'università non dovrebbe mai diventare un semplice «intellettuale organico» della classe politica, tutto intento ad organizzarle il consenso elettorale, né soltanto un intellettuale organico dell'industria culturale, al servizio cioè di una cultura ridotta a «merce» da vendere al miglior prezzo per la massa. Opportunamente il Vaticano II, nella Gaudium et spes al n. 59, ricorda che «bisogna soprattutto insistere che la cultura, stornata dal proprio fine, non sia costretta a servire il potere politico o il potere economico». Dicendo ciò, ed invitando ad operare in tal senso, non mi pare si dica qualcosa di specificamente cristiano bensì qualcosa di autenticamente umano da vivere come presupposto e come conseguenza dell'evangelizzazione.

Se infatti la cultura è completamente asservita al potere politico o economico non è più veramente cultura; e se l'evangelizzazione non è annuncio di libertà per l'uomo non è vera evangelizzazione. La lotta per la «libertà » della ricerca scientifica, per spazi alla libertà della cultura anche in università, libertà non solo per pochi «baroni» e «baronetti», ma per tutti coloro che lavorano e studiano in università, e quindi anche per gli studenti, è una lotta che deve vedere i cristiani in prima fila. Tale lotta deve però accompagnarsi con la lotta contra l'individualismo, la semplice «libertà» borghese del privilegio, per una libertà che passi tramite il confronto democratico e le decisioni democratiche. Nell'ultimo convegno della FUCI a Napoli si è sottolineato giustamente il problema della interdisciplinarietà, si è parlato della funzione che il dipartimento dovrà svolgere perché la libertà della ricerca non diventi una semplice libertà borghese individualistica, ma sia inscritta in un effettivo dialogo democratico. Questo problema della libertà e della autonomia dal potere politico ed economico e il presupposto, il primo passo per parlare anche del problema dell'autonomia delle scienze, delle discipline scientifiche tutte, sia dalle ideologie sia dalla religione stessa. Per quanto riguarda le ideologie, intendendo per «ideologia» un «pensiero che si incarna in programma di azione» secondo una accezione del termine più positiva di quella marxista - sarebbe da richiama re la pole mica delta «Positivismusstreit » o «Methodenstreit » circa il metodo positivo delle scienze sociali, polemica scoppiata in Germania negli anni '60 e che ha visto contrapposti da un lato i positivi sti sociali (Popper e Albert) e dall'altro gli esponenti della Scuola di Francoforte (Adorno e Habermas). Richiamo questa polemica perché, come vedremo, ci aiuta a capire meglio i problema dell'autonomia delle scienze, delle discipline scientifiche, anche all'interno dell'università e nei rapporti con la fede.

Secondo la posizione di Popper è possibile nella ricerca scientifica l'uso di un metodo oggettivo, neutrale, avalutativo - cioè che non abbia bisogno di rifarsi a dei criteri di valore per giudicare il processo stesso del metodo e i suoi risultati in grado di raggiungere conclusioni scientifiche valide, anche se per natura loro provvisorie e parziali. Invece, secondo gli esponenti della Scuola di Francoforte, che hanno fortemente attaccato questa posizione, l'oggettivismo scientifico, lungi dall'essere autonomo, e al servizio della struttura socio-economica caratterizzata dal dominio dell'uomo sull'uomo, cioè della struttura capitalistica. La «verità» della scienza, proclamata da Popper e dai positivisti, non sarebbe altro che un elemento della «falsità» delle società caratterizzate dalla alienazione. La scienza non può essere neutrale: o è al servizio del dominio, o è al servizio della liberazione o emancipazione dell'uomo dal dominio.

La consistenza propria del creato

Quali osservazioni si possono fare, in vista del nostro problema, a riguardo di questa contrapposizione? Per quanta riguarda la neutralità del metodo scientifico, in quanto tale, penso che si potrebbe facilmente accettare, dato che non pone effettivi problemi alla fede. Si dovrebbe però ricordare, come si faceva ultimamente nel gruppo FUCI di Torino, che se il metodo scientifico nel suo procedimento può essere neutrale, la scelta di cosa studiare o l'utilizzazione dei risultati della ricerca non può dipendere da scelte ideologiche e da una scala di valori. Per cui una scala di valori, una scelta ideologica e di fatto presente anche là dove si sostiene - forse giustamente - che il metodo, in sé, è perfettamente neutrale. D'altro lato, per quanto riguarda l'altra posizione, quella che sostiene che vera scienza è solo quella animata da un interesse per l'emancipazione dell'uomo, interesse che entra all'interno stesso della struttura della ricerca scientifica, si potrebbe dire che ne accettiamo la istanza di fondo: la ricerca scientifica deve essere animata da tale interesse, il quale interviene di fatto nel processo stesso della ricerca scientifica; se però si dovesse con ciò giungere a una totale ideologizzazione della scienza, cioè a dire che i risultati scientifici, pur raggiunti partendo da un determinato interesse, non sono in sé veri, sarebbe proclamare la morte della scienza. Questa infatti verrebbe giudicata solo a seconda che serva o non serva alle scelte ideologiche già fatte e non per il contributo di verità che porta.

Ho richiamato questo problema perché esso è stato ultimamente collegato con il problema che ci interessa di più: cioè quello del riconoscimento della «legittima autonomia» della ricerca scientifica rispetto alla fede. A mio avviso il processo, tutt'ora aperto alla neutralità della scienza - tuttora aperto nei limiti sopra indicati - non deve vanificare quel punto di arrivo della teologia cattolica sancito dal Concilio, che è «la legittima autonomia delle realtà terrene», fra cui la ricerca scientifica, dalla religione e dalla fede. Quando si dice: la neutralità della scienza e mito, perché la scienza parte da presupposti ideologici, fra i quali ci può e ci deve poter essere anche la fede, si fa una affermazione sbagliata.

La posizione del Vaticano II sulla legittima autonomia delle realtà terrene, posizione raggiunta non senza intimo travaglio, riconoscendo errori storici della chiesa anche molto grossi, come soprattutto il caso Galileo, è infatti un punto di arrivo ben saldo, fondato com'è sul principio teologico, ormai acquisito, della consistenza propria del creato. «Le cose create - dice il Concilio GS 36 - e le stesse società hanno leggi e valori propri, che l'uomo gradatamente deve scoprire, usare e ordinare». Per cui, continua il Concilio, bisogna riconoscere « le esigenze di metodo proprie di ogni singola scienza e arte». Se infatti la ricerca è veramente scientifica essa non sarà mai in reale contrasto con la fede, e si deplora l'atteggiamento mentale che ha portato al caso Galilei e alla convinzione di una opposizione tra fede e scienza.

Si potrà senz'altro parlare di valori che intervengono nella ricerca scientifica per stimolarla, indirizzarla, come pure per guidare l'utilizzazione dei suoi risultati. Ma sono valori propri del creato, valori propri dell'uomo.

Per una formazione sociale globale

Da questo punto di vista quindi la ricerca identifica non è da «evangelizzare», ma da «rispettare». I cristiani non debbono battezzarla bensì «farla», metterla in atto in collaborazione con gli altri uomini, senza precomprensioni e pregiudizi confessionali. In questo campo i cristiani evangelizzano solo condividendo la ricerca scientifica con gli altri, cono lo stesso metodo critico, soprattutto per quanta riguarda la validità metodica del loro procedere, sottoposto alla verifica di tutti, pronto al dialogo con tutti, e a ricercare le osservazioni critiche di tutti. La « ragione critica» è qui sommamente una ragione pubblica e dialogica, che chiede consenso, non lo impone, e tanto meno si impalca a maestra di una verità tutta propria, non verificabile dagli altri e derivabile solo dalla fede.

Si può parlare, a questo punto, di una «cultura cristiana», anche solo nel senso di una cultura «sociologicamente cristiana» perché fatta da cristiani? A mio avviso, trattandosi di cultura come «ricerca scientifica», il termine non è corretto; in ogni caso una tale cultura è valida non perché cristiana, ma solo perché cultura ben fatta. In questo campo i cristiani possono evangelizzare solo in quanta contribuiscono - e non è certo poca cosa - a scegliere dei campi di ricerca e a utilizzare i risultati a favore dell' uomo, di tutti gli uomini, specie i più poveri e sofferenti, i più emarginati, e non a favore dei più ricchi e potenti.

Una «politica culturale» di questo tipo è certo espressione e testimonianza del vangelo, ma non ha bisogno di avere l'etichetta di cristiano, né di essere portata avanti in «gruppi cristiani»: di per sé è una politica aperta a tutti e necessariamente pluralista nelle scelte. Naturalmente i cristiani debbono farla, guai se non la facessero, non sarebbero tali se non la facessero; la possono è la debbono fare ispirandosi al vangelo, ma non credo sia opportuno etichettarla come cristiana in forma esclusiva. La comunità, i gruppi ecclesiali, debbono certo educare alla fede, formare le coscienze affinché vi siano molti cristiani in grado di portare avanti questa politica in prima persona, con tutti gli uomini di buona volontà.

Cioè con tutti gli uomini che siano sintonizzati in tal senso al di là di ogni fede e ideologia. Farsi però gruppo politico di pressione come cattolici in università, per pilotare fo senso evangelico le scelte di politica culturale, e oggi, a mio avviso, troppo rischioso per la causa dell'evangelizzazione. Non è possibile infatti evitare di diventare «partito», e quindi «potere», «forza che si spartisce il potere» e tradire così il vangelo, trasformandolo in un messianismo politico. II vangelo può essere positivamente annunciato solo quando i cristiani non fanno «paura» per la loro forza, ma offrono, in tutta debolezza, un servizio disinteressato ai fratelli. Per questo è rischioso per il vangelo che i cristiani si impegnino nella politica culturale facendosi gruppo di potere.

Il terzo livello di lavoro culturale che si dovrebbe fare in università è quello che chiamerei «formazione culturale personale» o «formazione sociale globale». Non tanto formazione personale o globale in vista di una professione, quanto formazione in vista di una visione critica globale dell'esistenza e della società. In passato si parlava di questa formazione globale come della formazione ad una «Weltanschauung» , cioè ad una visione del mondo globale, sia pure storicamente datata; si parlava anche, a questo riguardo, di «filosofia speculativa». Oggi invece si usa di precedenza la parola «ideologia nel senso, positivo, di «un pensiero globale che si programma la trasformazione del mondo» (I. Mancini). Si tratta di acquisire una formazione culturale che porti ad una visione globale del mondo, non astratta, non teorica, ma calata nella realtà attuale e quindi capace di fare, un programma di trasformazione del mondo. Mi pare che questa concezione del lavoro culturale sia una delle novità portate nell'università dal '68. Allora si parlò ampiamente della necessità di trasformare la cultura universitaria per trasformare la società. E si programmò generosamente di creare nell'università un modello di società democratica, partecipata, fraterna, non repressiva né autoritaria, per poi esportarlo in tutta la società. Non è qui il caso di fare un bilancio dei risultati positivi e negativi di tale stagione, anche se varrebbe la pena di farlo di fronte a troppo facili liquidazioni; mi pare però che la «politica», come interesse alla società tutta, all' uomo visto nella globalità della sua dimensione sociale, sia entrata di fatto e a buon diritto nell'università dopo il '68, e sarebbe un grave errore se vi fosse cacciata. L'«universalità delle scienze e delle arti » (oggi si preferisce parlare di «interdisciplinarietà»), da cui prende nome l'università, penso che oggi difficilmente possa rinunciare a porsi, pena una sua intollerabile mortificazione, come «coscienza critica globale» della società, o migliorare un lavoro culturale indirizzato a tale fine.

Difendere la dignità della persona

I problemi aperti a questo livello sono tanti ad es.: il problema del rapporto tra cultura, ideologia e politica. Prender però atto che oggi, anche e soprattutto nell'università si va elaborando una cultura in questo senso mi pare sia necessario. Una cultura come bene è stata definita da I. Mancini, come «progetto totalizzante di comprensione e liberazione dell'uomo nella storia, sotto il segno di una rigorosità critica capace di diventare prassi efficace nella storia». Mi pare che questo concetto di cultura si stia ampiamente diffondendo, fino a caratterizzare ciò che oggi è cultura e a costituire «il senso» del lavoro culturale che si fa in un università. è quindi urgente interrogarci su come evangelizzare il lavoro culturale in teso in questo terzo senso, su come si rapporta l'evangelizzazione a questo concetto di cultura.

Anzitutto penso che sia necessario, per impostare bene il lavoro di evangelizzazione riconoscere la legittimità di un tale progetto culturale con piena condivisione del fine che si propone è con una collaborazione critica attiva, in posi­ zione paritaria con tutti. Che l'uomo tenti di fare un progetto totalizzante di comprensione e di liberazione di sé nella storia, con rigorosità critica e con capacità trasformativa, è qualcosa che il credente deve riconoscere come cosa umanamente ed evangelicamente legittima.

Il vangelo può dare un apporto a questo progetto? Ritengo che l'apporto del vangelo a questo progetto possa giustamente essere ritenuto un apporto «sostanziale», ma ne va precisato il senso ai vari sensi. In un primo senso il vangelo, può costantemente richiamare alla relativizzazione di ogni tentativo di idolatria del progetto culturale in questione. Devo però aggiungere che forse non solo il vangelo può fare questa opera, ne solo i cristiani possono cogliere l'idolatria di questo progetto; forse anche un ben impostato pensiero utopico laico (come quello di E. Bloch) potrebbe invitare a relativizzare ogni progetto globale dell'uomo nella storia, scoprendolo sempre come una ideologia imperfetta. Il cristiano questo lo deve fare; se lo fanno anche altri, lo potrà fare insieme ad altri.

In un secondo senso, l'apporto del vangelo dovrà consistere, ed è essenziale all'annunzio cristiano, nel prendere la difesa della «dignità» assoluta della persona che trascende ogni progetto di società perfetta dell'uomo nella storia. è in gioco quella che Maritain chiamava la «extraterritorialità» della persona rispetto al «totum» della società. Certamente il vangelo sottolineando il rapporto fondamentale dell'uomo con Dio, sottolinea che nella persona c'è un elemento di extraterritorialità. Ci si potrebbe chiedere, però, se tale sottolineatura sia possibile solo in base al vangelo. Già Maritain riteneva che essa fosse grazia di ogni personalismo teistico, cioè di ogni credente in Dio. Oggi ci dobbiamo chiedere se anche un personalismo umanistico ateo o laico non possa fa re questo: difendere la persona. Maritain riteneva che lo potesse fare praticamente e quindi che i cristiani dovessero collaborare con tutti coloro che difendono la persona anche se atei; ma che non lo potesse fondare teoricamente, per cui solo chi crede in Dio ha la vera visione della dignità della persona. La cosa andrebbe discussa. Ma è certo che i cristiani debbono difendere, come impegno evangelico, la dignità della persona sia teoreticamente sia nella prassi. E anche se non fosse qualcosa di specificamente cristiano in senso esclusivo, ciò non ne diminuisce l'urgenza. Guai se i cristiani pensassero di dover fare solo ciò che è loro caratteristica specifica esclusiva.

Annunciare il Cristo all'uomo sofferente

C'è però una terza cosa, a questo riguardo, che solo i cristiani possono fare ed è loro compito esclusivo il farla: è annunciare che solo Cristo salva radicalmente e definitivamente tale progetto umano. I cristiani, in base alla fede, sanno infatti che solo Cristo può salvare radicalmente tale progetto di totale comprensione e liberazione dell'uomo nella storia. In che senso, però, i cristiani debbono portare tale annuncio? Non tanto aggiungendo qualche cosa di proprio al progetto umano, quasi debbano sommare a tutto ciò che progettano gli uomini Gesù Cristo, per cui essi debbono annunciare la salvezza del progetto umano attestando che, proprio in virtù di Cristo, Dio si è manifestato come colui che è sempre con l'uomo nella realizzazione del progetto umano di liberazione e che Egli compirà tale progetto al di la delle forze dell'uomo.

Annunciando, soprattutto, che nella croce e risurrezione di Cristo quel progetto sarà realtà anche per i sofferenti, i vinti, gli emarginati, e quindi veramente per tutti gli uomini. Il progetto umano può essere riscattato in totalità solo nel regno di Dio. Anche il miglior progetto di liberazione totale dell'uomo nella storia deve infatti dichiarare il suo fallimento, la sua necessaria fallibilità nei confronti dei limiti della storia... Qui il cristiano ha un annuncio del tutto nuovo da dare: annunciare per tutti la speranza. In una delle ultime opere di Schillebeeckx tradotta in italiano solo quest'anno, «Il Cristo. La storia di una nuova prassi» , l'autore sottolinea fortemente come oggi il partner del dialogo della Chiesa non è più l'intellettuale non credente bensì l'uomo sofferente; soprattutto a lui la Chiesa deve dire una parola di salvezza.

«Spalancare le porte a Cristo», (secondo la bella espressione di Giovanni Paolo II) non significa, per l'uomo, mutare il proprio progetto di totale liberazione, oppure apportarvi delle aggiunte «cristiane». Tanto meno significa affidarlo a Dio, dispensandosi da un insonne impegno di elaborazione critica e di messa in atto operosa.

Significa salvare il proprio progetto lasciando che Cristo lo sostenga con la forza di Dio, oltre le nostre capacità, i nostri fallimenti, oltre il nostro stesso limitato coraggio. è per questo che gli uomini non debbono aver paura. Mi viene in mente la prima strofa dell'inno che la Chiesa canta il giorno dell' Epifania: «Perché temi, Erode, il Signore che viene? Non toglie i regni umani chi dà il regno dei cieli».

Trattandosi di Erode, l'espressione è certo molto forte. Ma essa ci aiuta a prender coscienza che Cristo non viene a togliere nulla e direi neppure ad aggiungere nulla ai progetti storici dell'uomo. Soprattutto per questo, direi, gli uomini non debbono aver paura.

Qui però, soprattutto oggi, si tocca il punto nevralgico e più delicato del rapporto tra evangelizzazione e lavoro culturale, o anche, più propriamente tra evangelizzazione e cultura contemporanea, dato che questa è indubbiamente caratterizzata dal suo scoprirsi in essenziale funzione di una «storia di liberazione ed emancipazione dell'uomo». Ciò che non contribuisce a liberare l'uomo non è infatti più considerato vera cultura. «Non abbiate paura di spalancare le porte a Cristo». Perché però il mondo di oggi ha paura? Perché l'annuncio evangelico non risuona alle sue orecchie come un «lieto annuncio»? Forse - almeno in parte - perché troppe volte, in passato, con l'annuncio di Cristo si è tentato di far passare una cosiddetta «cultura cristiana », che di fatto era però la cultura cristiana dell'occidente: colonialista, capitalista, imperialista. Perché troppe volte, in passato, con l'annuncio di Cristo si è tentato di far passare privilegi mondani per la Chiesa o per gruppi ecclesiali o addirittura impedire lotte sacrosante per la liberazione degli oppressi, a favore di regimi politici autoritari e di classi sociali privilegiate. è una paura che ha una memoria storica ben radicata e che, soprattutto in certe regioni d'Italia, colora di sé tanto anticlericalismo di persone peraltro oneste e generose. è una paura che le comunità e i gruppi ecclesiali devono fare di tutto per appianare: con immensa umiltà, con autentica povertà, con spirito di servizio profondamente disinteressato, ad imitazione di Cristo «venuto per servire e non per essere servito», venuto non per «giudicare ma per salvare». A questo punto il nostro tema del come evangelizzare ci porta a quello del come purificare la fede per poterla annunciare in modo efficace, meglio, per non tradirla nell'annunciarla. Problema non facile da capire nei suoi termini reali, ma su cui vorrei dire qualcosa perché ritengo che sia divenuto oggi di importanza primaria.

La dialettica fede-cultura

La fede è sempre da « purificare » perché non esiste allo stato puro, bensì sempre immersa in una cultura. La dialettica fede-cultura e quindi interna alla stessa vita di fede e anche alla stessa ricerca teologica nel senso di riflessione sulla fede, perché sia una fede adulta. Per chiarire tale «dialettica» si parla oggi spesso di «struttura ermeneutica circolare» della vita di fede e della teologia. Come punto di partenza di questa struttura va indicata la fede vissuta in una determinata cultura, in un determinato ambiente e in una determinata età.

Noi riceviamo e viviamo la fede di fatto incarnata in una determinata cultura la cosiddetta «fede pura »... o il cosiddetto «Vangelo puro» è un «mito», frutto di inconsapevolezza critica. La fede pura non esiste, non è mai esistita, neppure nei primi cristiani, neppure in Pietro che proclamava Cristo «Figlio del Dio vivente»; la Fede è accolta ed espressa in una cultura, con una determinata consapevolezza culturale.

Per noi la fede vissuta da cui partire è la fede che ci hanno trasmesso i genitori, che viviamo nella nostra comunità, che sperimentiamo nella liturgia, nella preghiera, che esercitiamo in opzioni di vita che ci hanno dato e ci danno il senso di esse cristiani. E penso qui soprattutto al vivente contatto, con Cristo sperimentato nella preghiera liturgica e individuale, nonché alla prassi dell'amore fraterno di carità in cui abbiamo vissuto la rottura dell'egoismo e abbiamo trovato un senso al nostro impegno per gli altri, fino a quel pagare di persona, che ci assimila alla croce di Cristo. Occorre sottolineare questo primato del vissuto, della prassi cristiana. Questo primato del vissuto e della prassi cristiana inserito ed espresso in una cultura non è solo cosa nostra; fu una realtà anche per i primi discepoli che sperimentarono l'incontro con Cristo. Per quanto diretto possa essere stato il loro incontro con Cristo, esso fu pur sempre vissuto in una cultura, la loro, reso cosciente in un linguaggio, il loro, con conseguenze pratiche impregnate del loro mondo culturale.

E la ricerca storico-critica sul NT è oggi particolarmente attenta a mettere in luce questo debito culturale presente nei vangeli stessi, che sono tutt'altro che la presentazione della « fede pura », o anche solo della fede pura espressa in una sola cultura; già nel N.T. è presente tutta una serie di debiti culturali diversi e quindi di modi diversi di sperimentare e di presentare la stessa primitiva esperienza cristiana. Le espressioni del N.T. vanno in qualche modo «decodificate», non al fine di ottenere il vangelo puro, bensì al fine di riesprimere il vangelo nel nostro ambiente culturale.

Le provocazioni culturali

a) Primo momento: la presenza delle provocazioni culturali odierne. Se il punto di partenza è la fede vissuta in una determinata cultura, la nostra oppure quella dei primi secoli, il primo momento della dialettica fede-cultura interna alla fede è la presenza delle provocazioni culturali che vengono da nuove idee, scoperte, valori, bisogni, cui si apre il giovane che cresce e la cultura di una epoca.

Oggi queste provocazioni culturali sono particolarmente gravi e decisive perché si vive in un'epoca di trapasso culturale, di crisi dei modelli dominanti in passato, e di nascita di nuovi modelli. Purtroppo, ma è una necessità storica, questa nascita di nuovi modelli e contemporanea alla presenza ancora viva dei vecchi modelli e addirittura al sorgere di una molteplicità di modelli nuovi diversi, di cui nessuno è ancora egemone, per cui la fede è vissuta nella tensione fra il vecchio e il nuovo e fra i molteplici nuovi modelli che si contendono il campo. La crisi della nostra cultura diviene necessariamente crisi della fede vissuta nella nostra cultura. La crisi della società non può non avere ripercussioni nella chiesa. Con una cultura in crisi non può non esserci crisi anche nella Chiesa.

Fra le fondamentali provocazioni culturali tuttora presenti, anche se a livelli diversi di sfondo, vorrei ricordare innanzi tutto la provocazione illuministica. è la provocazione della ragione «critica» che vede la Fede come autorità tradizionale che ha paura della libera ricerca scientifica .

La provocazione è stata ampia e radicale. Basti pensare alla questione del razionalismo in campo scientifico nonché del liberalismo in campo politico. Nonostante che col Vaticano II vi sia stata un'ampia acquisizione delle giuste esigenze da cui nascesse tale provocazione, essa ha tutt'ora un'ampia capacità di porre in crisi la fede vissuta di molti cristiani odierni.

La seconda grave provocazione culturale, è quella socialista. Essa critica la religione cristiana in quanto alienante dall'impegno per una trasformazione liberante del mondo capitalista, e pone alla vita di fede il tema della questione sociale. è una provocazione culturale che prima non c'era. Un tempo i cristiani non pensavano che si potesse e quindi si dovesse (trasformare le strutture sociali oppressive e tanto meno quelle del mondo capitalistico. Il socialismo ha messo in luce che si può e si deve fare; come debbono reagire i cristiani? Hanno già il modo corretto di impersonarsi in tale trasformazione in coerenza con la loro fede e delle esigenze di liberazione dell'uomo d'oggi?

Una terza provocazione è la provocazione umanistico-libertaria, o «radicale», che sottopone a critica la religione in quanto repressiva della libera soggettività dell'uomo. Sarebbero da ricordare l'umanesimo ateo alla Feuerbach, il libertarismo ateo alla Nietzsche, l'emergere odierno di una «nuova oggettività», con il corollario di tutta una serie di «nuovi bisogni».

Tutte e tre queste provocazioni culturali pongono con esigenza la necessità di riflettere sul nostro modo di vivere la fede, per vedere se è una fede contro la ragione (prima provocazione), una fede contro le trasformazioni sociali, (seconda provocazione) una fede contro la libera soggettività umana (terza provocazione). Un'ultima provocazione che vorrei ricordare e quella della crisi odierna della società che sfocia nella crisi totale del senso, propria del «nichilismo culturale». Perché questa provocazione culturale della nullità del senso? Forse perché sono nati molti nuovi bisogni che la società non può soddisfare e quindi c'è una contraddizione nell'intimo stesso di questa società? Qual è questa contraddizione?

Rimandando ad un altro tempo il proseguimento dell'analisi di queste provocazioni culturali , chiediamoci: che senso hanno per il dinamismo della nostra fede? Vorrei citare a questo riguardo un brano della Gaudium et Spes, numero 52, molto opportunatamente posto all' inizio del catechismo dei giovani, dove si dice: «L'accordo tra la cultura e la formazione cristiana non si realizza sempre senza difficoltà. Queste difficoltà non necessariamente sono di danno alla fede; possono anzi stimolare lo spirito ad una più accurata e profonda conoscenza della fede». Di fronte a queste provocazioni culturali il cristiano non deve aver timore. Certo, esse possono anche esser di danno alla fede; ma di principio esse non sono di danno alla fede. L'autentico atteggiamento cristiano deve essere di «fiducia nella cultura», perché essa è di aiuto indispensabile alla fede.

Questa fiducia è da riscoprire! è infatti essenziale per superare non solo il divorzio tra fede e cultura, ma anche fra fede e vita. Se non si acquisiscono i nuovi modelli culturali non si riesce a fare una sintesi fra fede e vita, e quindi non si riesce a vivere la fede. Una fede non vissuta nella propria cultura rende infatti schizofrenico il credente e quindi lo rovina come uomo. Tale fiducia non è accettazione acritica di tutto quanto di «nuovo» emerge nella cultura contemporanea, bensì è fiducia che siano presenti ed operanti, anche nel «nuovo» più ambiguo, delle intenzioni, dei bisogni, dei fermenti positivi: un progetto d'uomo in boccio, forse solo in parziale abbozzo, addirittura in abbozzo contraddittorio, che però anticipa in qualche modo una «qualità di vita» più umana. Fiducia che può e deve suscitare nei cristiani un insonne e alacre «lavoro culturale» di conoscenza, decifrazione, vaglio critico, sapendo che ogni prematuro rifiuto, condanna, sufficiente superiorità rispetto a quanto di positivo e in boccio del nuovo, e un chiudere una porta (forse per sempre) all'annuncio del vangelo agli altri e forse alla propria stessa possibilità di vivere il vangelo nell'oggi che ci è dato come nostro tempo. Questo è il primo momento: la provocazione culturale.

Alle fonti della fede

b) Ritorno alle fonti della fede. Il secondo momento di questa dialettica teologica è il ritorno alle fonti della fede (Scrittura e tradizione), la «rivisitazione delle fonti della fede » in sintonia con la comunità ove si ha la garanzia del magistero), e con la sicurezza di fede di poter trovare una soluzione alle provocazioni culturali. Si ha qui il secondo ampio «lavoro culturale » essenziale all'evangelizzazione che è un lavoro propriamente teologico: il lavoro di ritornare alle fonti della fede per ritrovare in esse lo spirito necessario per rispondere adeguatamente a queste provocazioni culturali ed essere così in grado di vivere in queste la nostra fede cristiana. Lavoro propriamente teologico che direi possibile anche in università. Benché in Italia non ci siano più le facoltà teologiche, è infatti possibile almeno in parte, avere in università qualche spazio per studiare le fonti della Rivelazione; penso a discipline come Storia del cristianesimo, letteratura cristiana antica, filosofia neo-testamentaria, storia della teologia ccc. è questo un lavoro culturale che riguarda i cristiani in primo luogo, ma che riguarda e può interessare anche il mondo laico. Essa può essere quello con piena «serietà scientifica» e può quindi trovare il suo posto anche in università.

Perché questo ritorno alle fonti della fede? Perché Cristo non ha assunto in sé una natura umana bell'e fatta una volta per tutte, bensì l'uomo storico che scopre e fa sé stesso nella storia; perché siamo sicuri che Cristo è la luce di ogni uomo che viene in questo mondo, anche l'uomo di oggi con le sue speranze ed angosce, i suoi desideri e timori, i suoi «nuovi bisogni » e le sue «nuove frustrazioni»: in una parola, la sua «nuova cultura ».

La ricchezza di Cristo è un deposito talmente ricco da poter offrire motivi di vita, ispirazioni di vita, proposte di vita per ogni tempo. Si noti, però, che il ritorno alle fonti non è per ritrovare in esse il «Cristo puro» , privo di ogni incarnazione culturale. Se torniamo alle fonti è per trovare in esse la via e la forza, a contatto con la primitiva incarnazione culturale dell'esperienza cristiana, per una nuova incarnazione oggi per noi. La prima incarnazione culturale della fede resta infatti per ogni incarnazione futura, quasi il modello esemplare del procedimento con cui oggi noi dobbiamo affrontare i problemi che ci pone la necessità di pensare e vivere la fede nella nostra cultura.

Riattualizzare la fede

c) Reinterpretazione o riattualizzazione della fede. Il terzo momento di questa dialettica innescata dalla cultura all'interno della fede è la reinterpretazione o la riattualizzazione della fede del nuovo ambiente culturale con le sue novità provocatorie. è il momento creativo del cristianesimo, come tale non solo opera di fede che viene dall'alto, ma opera di cultura vera e propria. Riattualizzare la fede oggi nel nuovo ambiente culturale è un'opera di fede, ma è anche un'opera di cultura. Anzi, a mio avviso, questa è l'unica autentica «cultura cristiana», cioè la cultura teologica. La cultura che facciamo (e che dobbiamo fare) per pensare, dire testimoniare la fede, per riattualizzare la fede nel mondo di oggi dopa averlo capita, scoperto fatto proprio nei suoi valori e nel suo linguaggio. Un lavoro culturale ampio e di vasto respiro che veramente può essere qualificato specificamente come «cristiano », e che dà origine alla vera e propria « cultura cristiana ».

Una cultura cristiana che è debitrice all'esperienza di Cristo, propria del cristiano, ma anche alla cultura del nostro tempo, che sia dei credenti che dei non credenti. Quindi non una cultura cristiana che nasce autonoma da se stessa, quasi per generazione spontanea. Non è tale neppure la cultura teologica. Il Concilio l'ha sottolineato in quei testi molto belli della G.S., ove si parla dell'aiuto che viene alla chiesa dalla cultura non solo dei credenti ma anche dei non credenti.

Si noti: non si tratta solo di « ripensare» la fede, ma di «viverla» in modo nuovo. Si tratta di incarnarla in modo creativo in quella forma di cultura che è lo strumento indispensabile del nostro espandersi vitale oggi. Non si tratta di «adeguare» il vangelo a una nuova cultura e tanto meno di «annacquarlo», quasi il vangelo sia una X che può essere riempita con qualsiasi cosa. Non si tratta neppure di «aggiornare» la fede con i rivestimenti esterni di nuove mode culturali. Tanto meno si tratta di «rendere funzionale» il vangelo ai nuovi progetti sociali, politici e culturali. E neppure si tratta di fare una «somma sincretistica» tra elementi parziali della cultura odierna ed elementi parziali del vangelo.

Si tratta di ciò che oggi si dice (con una terminologia che ho visto accettata anche da Giovanni Paolo II nella Catechesi tradendae n. 53) «inculturazione» o «acculturazione» del Vangelo. Anche se è un neologismo un po' strano, il termine esprime bene, dice Giovanni Paolo II, una componente essenziale del mistero dell'incarnazione.

Osserviamo ancora: non si tratta solo di un linguaggio nuovo, ma, più profondamente, di scoprire come la carica di lieto annuncio di conversione e di salvezza, portato da Cristo, o meglio che è Cristo stesso, possa essere effettivamente lieto annuncio per l'uomo di oggi. Si tratta di trovare come l'annuncio cristiano risponda alle esigenze di salvezza e parli un linguaggio di salvezza, tale da poter essere colto oggi come un lieto annuncio. Per es., se ieri l'annuncio cristiano era rivolto a persone che sentivano come un lieto annuncio. Ma se la disperazione, la perdita di salvezza oggi non la si sente più in termini di peccato, dire: Cristo ti libera dai peccati, forse non significa la stessa cosa e non annuncia un bel niente. Anzi può essere inteso addirittura come un voler far nascere dei sensi di colpe per poi subordinare al potere di chi può liberare da tali sensi di colpe. Si tratta quindi di trovare dei moduli nuovi, scoprendo dove è necessario oggi inserire il lieto annuncio di salvezza. Si tratta di trovare e di sperimentare, prima di tutto per noi stessi una volta ben calati nella cultura di oggi, cosa significhi per noi che Cristo ci salva; significa vivere tale salvezza nel bel mezzo della città, non ai margini o in ghetti, come ben diceva Bonhoeffer; significa essere talmente creativi da trovarci i linguaggio adatto per esprimere con autenticità, questa lieta esperienza di salvezza che noi facciamo, e la prassi adatta per testimoniarla con fedeltà. Solo se avremo fatto con impegno questo lavoro culturale », che si esercita non primariamente sulla cultura altrui, ma sulla dimensione culturale della nostra stessa fede, perché purificata dal «vecchio lievito» rinasca come fede vitale nel nostro tempo, solo allora potremo sperare che il nostro impegno di evangelizzazione porti fa dove si fa cultura un «lievito nuovo», capace di fermentare la pasta del mondo, senza suscitare paure ma aprendo i cuori alla speranza e alla gioia che Cristo vuole portare per mezzo nostro nel mondo.

(Testo trascritto dal registratore)

Ricerca - Nuova Serie di Azione Fucina

Mensile della Federazione Universitaria Cattolica Italiana Anno XXXVI - n. 5 - 1980

Contributi al Congresso - Evangelizzazione e laicità

Evangelizzazione e lavoro culturale oggi (Colombo Monticone Traniello Ferretti Agresti)

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