da L'Unità del 5 agosto- La concentrazione di potere immaginaria

di Stefano Ceccanti Man mano che ci avviciniamo ai passaggi finali della riforma costituzionale ritorna l’incubo della concentrazione di poteri. L’errore di fondo consiste nell’isolare il sistema nazionale dagli ulteriori livelli di governo con cui esso condivide la sovranità. Anzitutto il piano europeo, dove è dominante la dinamica intergovernativa e dove Merkel governa dal 2005 avendo già visto in successione in Italia Berlusconi, Prodi, Berlusconi, Monti, Letta e Renzi. La gran parte dei governi, soprattutto quelli delle grandi democrazie, con cui co-decidiamo la gran parte delle questioni che vincolano anche noi, hanno un’aspettativa di durata di almeno una legislatura. Non è il prodotto solo di una cultura politica, ma anche di precisi meccanismi: sistemi elettorali anche più selettivi dell’Italicum come quelli inglese, francese e greco, ostacoli a sfiduciare i Governi, rapporto fiduciario solo relativo ad una Camera (nessuno pensa che l’altra vada costruita primariamente come una garanzia contro il Governo, ma che sia chiamata a completare il rapporto centro-periferia), deterrente dello scioglimento in sostanza in mano al Primo Ministro che è ovunque, nelle democrazie parlamentari. il leader del primo partito, o di governi monocolori o di coalizione (unione personale decisiva come spiegava Elia per la coerenza del governo), dotato di potere di revoca dei ministri. Se qualcuno cade anticipatamente è perché il suo partito ritiene di doverlo sostituire con un nuovo leader di partito in vista della future elezioni. Solo alcune di queste condizioni (sistema elettorale selettivo, monocameralismo politico) sono riprodotte nelle riforme italiane, altre no (scioglimento, revoca: pur consigliate dalla Commissione di esperti nominata dal Governo Letta), altre ancora sono state introdotte per via politica (unificazione della leadership di partito e di governo). In ogni caso, prima del termine del percorso, nel 2017, Renzi sarà soggetto a primarie e, alla fine, chiunque, di qualunque schieramento, vincerà le elezioni del 2018, a riforma completata, avrà comunque meno poteri dei suoi omologhi europei. Non c’è nessun post-Partito: il Pd è l’unica forza politica presente in Parlamento che osa chiamarsi partito, che ha uno statuto realmente vincolante e che rende tra l’altro contendibile la leadership con tempi certi. Non c’è neanche nessuna post-democrazia: anche dopo la riforma se viene meno l’appoggio di almeno 25 deputati eletti nella lista di maggioranza (che il premio porta a 340, la soglia di maggioranza autosufficiente è a 316) il Governo cade e il Presidente con lui. Si chiama democrazia parlamentare, oggi come domani. La magistratura resta indipendente, i quorum per eleggere gli organi di garanzia, dal Csm alla Corte, restano non di poco al di sopra dei voti della maggioranza, la possibilità espansiva dei poteri presidenziali del Capo dello Stato in caso di crisi resta intatta. Il tutto è confermato se, all’opposto, si guarda al sistema dai suoi rami bassi: quasi tutti i sindaci e i Presidenti di Regione con cui molte decisioni nazionali devono essere concordate hanno una maggioranza autosufficiente e non sono sostituibili se non facendo cadere anche la loro assemblea, quindi trattano col Governo nazionale da posizioni di maggiore solidità istituzionale. Per inciso: c’è un’eccezione, quella siciliana dove, a prescindere da meriti e demeriti personali, si dovrebbe tenere conto che la maggioranza non è garantita in un’Assemblea che è peraltro rimasta l’unica a votare con voto segreto come regola ordinaria. Finché questi ostacoli non saranno rimossi è illusorio pensare che il rendimento di qualsiasi governo regionale possa essere comparabile a quello degli altri. Gli unici post che si possono teorizzare dopo la riforma sono il carattere post-oligarchico della forma partito mentre in precedenza le leadership non erano contendibili e non si sfuggiva alla logica paralizzante del primus inter pares, e il connesso carattere post-assembleare della forma di governo, non più soggetta a miriade di poteri di veto, che sono altra cosa dai contropoteri e dalle garanzie che restano invece per intero. Quando Maurice Duverger, scomparso pochi mesi fa, parlava di “democrazia immediata” caratterizzata da un rapporto stringente tra consenso, potere e responsabilità, la linea di pensiero su cui si sono basate le riforme elettorali e istituzionali post-1993, invocava certo una discontinuità ma non con la democrazia o coi partiti, ma col “vetero-parlamentarismo”, con l’assenza di responsabilità imputabili per un periodo pari ad una legislatura. E’ su quella strada che si muove il cosiddetto combinato disposto tra riforma elettorale e costituzionale. Altro che incubi. Anzi, è dall’incubo della paralisi che stiamo uscendo, non da un’inesistente età dell’oro.

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