Acqua chiara...;-)

Mio malgrado (avevo deciso di andare a votare senza neppure pormi il problema, TRE SI PER DIRE NO, non scordando il referendum sul nucleare che siamo costretti a ripetere), sono per lavoro altrettanto costretta ad occuparmi del tema della gestione dei servizi idrici e di altri servizi pubblici. Sono quindi particolarmente colpita dal ragionamento di Giorgio perché, da un punto di vista tecnico ed economico il ragionamento non aggiunge nulla nel merito della questione. Se si passa al merito del tema, e non a generici principi di buon o cattivo governo della cosa pubblica (perché tale resta) non bisogna scordarsi alcune cose: entro la fine del 2011 comunque la gestione dei servizi pubblici locali e di area vasta dovrà essere modificata (causa una serie di leggi tremontiane) nel senso non solo di ridurre ulteriormente la tipologia di gestori possibili (anche molto oltre la normativa europea) ma anche di un nuovo cambiamento nella definizione dei soggetti ora preposti al controllo di gestione (gli AATO, di fatto organismi di secondo libello rispetto agli enti locali interessati dalla singola gestione, verranno sostituiti ancora non si sa da cosa, poiché si passerà per l’affidamento temporaneo delle loro funzioni alle regioni e a una futura riassegnazione forse alle province – che Confindustria, per dirne una, vorrebbe abolire); tutto questo in una fase in cui ancora non si è concluso l’assestamento della gestione prevista inizialmente dalla legge Galli (1994), poi rivisitata nel 2006 e poi modificata da varie finanziarie e mille proroghe (la fonte è la relazione annuale del Conviri, la commissione preposta al monitoraggio della applicazione di queste leggi). Una costante incertezza che ucciderebbe qualsiasi mercato privato (se non fosse concordato preventivamente almeno un punto di arrivo, probabilmente la privatizzazione totale del servizio) e che solo il rifarsi al pubblico (e l’addossamento dei costi derivanti a quest’ultimo e agli utenti) può sopportare; Nell’ambito della UE, o delle nazioni europee, la gestione del servizio idrico (per rimanere a questo tema) è molto più differenziata di quanto la scarsa informazione ci faccia credere. Se la GB ha privatizzato sin dai tempi della Tachter, la Francia mantiene saldi in mano pubblica gli investimenti e la Germania affida la gestione ai comuni. Infine, non è affatto detto che la gestione delle risorse idriche debba essere definita “economica” nel senso di affidabile al mercato. Questa è una decisione, anche da un punto di vista europeo, che ha più possibilità e conseguenze. In ambito ONU si è dichiarato come diritto inalienabile per il rispetto della vita umana l’obiettivo di garantire ad ogni essere umano l’accesso ad almeno 20 litri di acqua al giorno. Almeno questa quota, se ci fosse coerenza tra ciò che i nostri governanti esprimono a livello di organismi internazionali e a livello nazionale, dovrebbe quindi essere sottratta al mercato e garantita dal pubblico, almeno nei paesi che si dicono democratici. I quali, per essere coerenti, dovrebbero anche togliere supporto e finanziamenti alle aziende italiane transnazionali che non attuano politiche di prodotto similari quando operano su territori esteri, privatizzando le fonti, e/o commissariare (che va tanto di moda) quelle parti degli enti pubblici che non riescono a dare tale garanzia; una delle motivazioni per la cosiddetta “liberalizzazione” del servizio delle risorse idriche è stata quella di sottrarre tale servizio a quella sorte di “monopolizzazione locale” che si riteneva fonte di sprechi (di acqua) e costi eccessivi (per lo stato). Da un punto di vista tariffario, gli utenti pagavano meno in modo diretto il servizio per pagarlo collettivamente in un momento successivo, quando la fiscalità generale ripianava i debiti degli enti locali (con chi?), esenti da forme di concorrenza e pertanto inefficienti per definizione. Di sicuro c’e’ solo che si effettuava una redistribuzione tra più ricchi e meno ricchi (ammesso che fossero dipendenti e non evasori od elusori), la stessa che ora si vuol far passare attraverso le tariffe cosiddette agevolate. Solo che ora, al costo del servizio, della manutenzione, degli investimenti e dei costi sugli interessi per i debiti contratti dai privati per fare gli investimenti, si aggiunge anche la “remunerazione del capitale investito” dai privati. E’ necessario che qualcuno/a mi spieghi quale sia. Se poi si guardano le statistiche relative all’accesso al servizio, le regioni cronicamente inefficienti (per esempio la Sicilia) e magari non per carenza delle fonti di approvvigionamento, restano tali. Mi sa che i motivi sono da cercarsi NON solo nella strutturale (ma in genere mirata) inefficienza degli enti locali. Dal punto di vista della struttura del mercato, se prima avevamo monopoli locali pubblici (il numero era nell’ordine delle migliaia) è anche vero che il gestore e l’utente, nel caso dell’acqua, erano localmente prossimi e che l’utente poteva premiare/punire direttamente, almeno in sede elettorale, il gestore. Ora la situazione si fa più complessa. Il gestore viene investito da un ente di secondo livello rispetto agli enti locali. La convenzione tra questo ente e il gestore viene decisa da un ente terzo, in sede regionale. La valutazione dell’organismo (nazionale) di controllo è che tali convezioni/contratti siano assolutamente carenti dal punto di vista del controllo della gestione e delle sue modalità di rispetto del criterio di efficienza. Spesso, però, la loro durata è lunghissima (per garantire gli investimenti) e le clausole per la rivisitazione e modifica incerte, a rischio di contenziosi vari. Le imprese, che si vanno enormemente riducendo di numero e accrescendo di dimensione, perché accresciuta per legge è la dimensione dell’area e del servizio da gestire, hanno un potere contrattuale in crescita, mentre gli enti locali non ne hanno praticamente più. L’utente non può ora che intervenire singolarmente o collettivamente in sede di contenzioso privato col gestore, su una materia che ha sottratto il consumo vitale dei 20 litri suddetti all’ambito dei diritti inalienabili per condurlo in quelli dei servizi a pagamento. Universali sì, ma solo se accetti il contesto in cui sono forniti. Per intenderci: il costo per i più poveri non deve, teoricamente, superare il 3% del loro supposto reddito di povertà. Il problema è che anche tutti gli altri costi non dovrebbero superare un % supposto, ovvero la casa, l’istruzione, la salute i generi alimentari…. I contratti fatti ai gestori privati sono stati fatti pensando a un modello di mercato, ma non concorrenziale. Sia nella formazione del prezzo (formula standard approvata dal CIPE), sia nella dimensione media del mercato di riferimento, sia soprattutto nella strategia di impresa supposta (identificabile in quei piani di ambito che fanno la base per la definizione dell’investimento e dell’orizzonte previsto di fornitura del servizio) il mercato preso a riferimento è quello oligopolistico o di concorrenza monopolistica. La caratteristica principale, oltre al fatto di riprodurre in grande quella situazione tanto criticabile di “monopolizzazione locale” che si è detto prima, è che la strategia di impresa deve prevedere, per poter essere efficiente dal punto di vista dell’impresa, un’offerta in crescita permanente. Lasciamo perdere anche tutte le altre questioni legate a queste tipologie di mercato (che si sa danneggiano il consumatore rispetto al produttore se comparate con la mitica concorrenza perfetta) e teniamo invece conto di una cosa, dimostrata anche dai dati statistici ad oggi disponibili (e che nonostante tutto ciò risalga al 1994 sono ad oggi non proprio perfetti, perché tutta questa legislazione si è persa gli strumenti di monitoraggio e controllo per strada): la risorsa acqua è oggi un bene scarso e in riduzione di consumo (cambiano i comportamenti degli utenti aumentando la consapevolezza della scarsità). Quindi la convenienza per l’impresa, e la molto concreta convenienza che derivava dai piani di ambito con cui si sono prospettati gli investimenti e i ritorni di profitto, sta saltando. Al momento, il privato si difende solo con aumenti molto rilevanti delle tariffe. Infatti, come in ogni oligopolio che si rispetti, il prezzo NON viene fatto da domanda e offerta, ma viene fatto a copertura dei costi e ottenimento di un adeguato margine di profitto (7% in questo caso se non sbaglio). Quindi a riduzione dei consumi, a parità di alcuni costi fissi di gestione e a costanza di investimenti rispetto al piano iniziale, DEVE corrisponder un aumento delle tariffe. Questo comportamento mi sembra, dal punto di vista di qualsiasi utente o servizio pubblico, certo NON premiante di un consumo oculato e via via più sostenibile, NE’ virtuoso. Ne avrei ancora da dire, ne sto scoprendo tali e tante che neppure ci posso credere, e forse in questo scritto di getto c’e’ qualche imprecisione. Ma tutto si può dire tranne che i due referendum non siano mirati e precisi a fronte di questo quadro. Se il primo mira a mantenere quelle pluralità nella scelta dei gestori che sono presenti in Europa (anche in modo addirittura più ampio, come in Germania), il secondo si chiede perché, su un diritto fondamentale (e non un bisogno che ognuno soddisfa in base alle proprie possibilità), ed avendo la copertura integrale di costi e investimenti, il privato ci debba lucrare un guadagno aggiuntivo per il solo fatto di essere “privato”. Quante entità sociali possono permettersi di dire di dover avere qualcosa nel nostro Paese per il solo fatto di essere, che so’, disoccupati, anziani, donne, …… certo, ci preoccupiamo, sempre di meno, di malati e di persone portatrici di handicap, ma anche lì ci sarebbe molto da dire e molto a loro viene comunque chiesto. Secondo: quali sono le caratteristiche della responsabilità sociale di impresa? Perché le tariffe per i maggiori consumatori di risorse idriche (agricoltura e imprese) sono limitate e basse per tenere conto dei loro bisogni (e della rilevanza che le attività hanno per il paese) e il consumo minimo delle persone (che se un paese è tale deve tenere in vita dignitosamente) ha una pluralità di tariffe e nessuna garanzia neppure del minimo vitale? I referendum non toccano certo altri principi (l’integrazione della gestione, la considerazione dei “bacini idrici”, la depurazione ai fini della sostenibilità del consumo) che varrebbe la pena, oggi, con ciò che sappiamo di più e con i disastri che sono già accaduti, di prendere più sul serio, anche con serie politiche idrogeologiche, di insediamento anche produttivo e di conservazione della capacità di carico ambientale. Ma questa, ovviamente, è una storia che ai privati piace meno…. Ci dovrebbero mettere un (bel) po’ di ricerca, di responsabilità sociale e di effettiva collaborazione con gli altri soggetti esistenti, tra cui anche coloro, ora utenti, ora consumatori, ora lavoratori, ora elettori che sono gli/le unici/che depositari/e di questa nostra, tanto vituperata, democrazia.

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