verso l'assemblea di sabato: pd e cattolici, i nodi al pettine, per "mondoperaio" di aprile
dossier/otto settimane e mezzo Morte e resurrezione del cattolicesimo politico? Stefano Ceccanti La bocciatura di Franco Marini e di Romano Prodi da parte dei grandi elettori del Pd in occasione dell'elezione del Capo dello Stato aveva indotto qualche commentatore a ritenere ormai concluso anche in Italia il ciclo del cattolicesimo politico sia nella sua versione “sociale” che nella sua versione “democratica”. Ma poi la formazione del governo Letta ha indotto gli stessi commentatori a parlare di “monocolore democristiano”, e addirittura Il Foglio ad illustrare con un grande scudo crociato la pubblicazione del discorso del presidente del Consiglio alle Camere. In realtà la questione è più complessa, e per analizzarla può essere utile mettere a fuoco la vicenda dei cattolici in seno al Pd. Contrariamente a quanto molti osservatori fin dall'inizio scettici sul Pd amano ripetere, cioè che la genesi di questo partito sarebbe stata una forzatura alla storia politica del paese, in realtà le vere forzature erano quelle che ingabbiavano le culture riformiste nella logica della guerra fredda, e che dopo la caduta del Muro di Berlino le hanno spinte a convergere oltre i limiti precedenti. L'egemonia comunista sulla sinistra, conformatasi con una singolare commistione di tradizionalismo ideologico e pragmatismo pratico, aveva reso più deboli le correnti riformiste degli altri partiti nell'area della maggioranza di governo. Per questo, con l’eccezione di alcuni momenti topici come l'inizio del primo centrosinistra, in Italia non si è mai avuto un coerente ciclo riformista, ma solo un'innovazione a spizzichi in cui sinistre dc, socialisti e repubblicani hanno svolto il ruolo di traino rispetto all'opposizione comunista e ai settori conservatori dei propri partiti. In un quadro istituzionale ben più favorevole, trainato dall'elezione diretta del Presidente, che aveva indebolito anzitempo il Pcf, era quanto aveva realizzato Francois Mitterrand nel 1971 aggregando l'insieme delle sinistre riformiste laiche e cattoliche, ed era quanto l'ex-ambasciatore Gilles Martinet aveva suggerito di fare anche in Italia. Mentre però nel caso francese il nome socialista non era patrimonio di una delle singole parti dell'insieme (il nome precedente era quell’arcaico Sezione Francese dell'Internazionale Operaia), per cui quel nome potè diventare il riferimento di tutti, in Italia il diverso punto di partenza ha condotto ad utilizzare il più comprensivo aggettivo di “democratico”, che però non può che considerarsi interno alla medesima area di centrosinistra imperniata sui partiti socialisti europei: da tempo, a loro volta, più “democratici” e post-ideologici di quanto non dica il mantenimento del loro nome. Non stiamo quindi parlando di una scommessa a priori sbagliata, ma di una sfida esigente, raccolta solo in modo molto parziale. Giunti alla meta del Pd, quale poteva essere all'interno del Pd il ruolo dei cattolici con cultura di governo, sia di provenienza dc sia associativa e non direttamente partitica (escludendo le frange identitarie o sul versante ecologico-pacifista o cattolico intransigente tipo teodem, per definizione minoritarie)? E quale è stato davvero esercitato? Per capirlo dobbiamo partire dai seguenti fattori: scelte delle alleanze interne e modello di partito (due questioni intimamente connesse), scelte sulle politiche. Rispetto agli alleati, è mancata spesso la memoria di lungo periodo. Le migliori fasi dei riformismi non comunisti sono state quelle in cui si è affermato un ruolo decidente della politica (sola possibilità di realizzare condizioni effettive di uguaglianza), ma al contempo anche un ruolo non invadente, capace di stimolare più che di gestire direttamente (cosa che preserva dalle degenerazioni burocratiche ed autoreferenziali), ed in cui queste aree si sono avvertite come alleate capaci anche di trainare le componenti più in grado di uscire dalla crisi del comunismo, a cominciare da quella migliorista. Invece cattolici e comunisti, senza lo stimolo forte delle culture laiche e socialiste, hanno governato situazioni emergenziali ma non hanno prodotto riformismo incisivo. Le debolezze della cultura politica dei cattolici, nonostante le grandi potenzialità di partenza, non hanno aiutato lo sviluppo riformista del Pd Sulla storia recente del Pd ha invece innanzitutto pesato lo scontro tra sinistre dc e socialisti nella fase finale della prima Repubblica e l'incapacità di riforma dell'intera classe politica: per cui il centrosinistra, non trovando un perno efficace, ha finito per ruotare in modo altalenante tra il centro burocratico dell'ex-Pci (uno Stato senza più nazione, capace di cooptare spezzoni altrui) e spinte movimentiste di vario segno (referendarie, uliviste, ovvero una nazione senza Stato). Per certi versi nello Statuto del Pd erano emersi elementi di risposta, a cominciare dalla coincidenza tra premiership e leadership e dalla scelta delle primarie come regola per le cariche monocratiche: Stato e nazione potevano riconciliarsi, limitando le logiche oligarchiche e dando sfogo razionale alle spinte movimentiste. Del resto tentativi analoghi erano stati proposti da De Mita col doppio incarico tra segretario eletto dal Congresso e premier (sulla base delle puntuali elaborazioni di Elia ed Andreatta), e da Craxi, anch'egli capace di assommare entrambe le cariche. Eppure spesso anche tra i cattolici del Pd la centralità di questa scelta in funzione di un riformismo di governo non si è affermata con forza, privilegiando momentanee esigenze tattiche, come se un equilibrio coerente e costante potesse poggiarsi su una leadership di governo spostata verso il centro bilanciata da un segretario di partito custode ideologico della vecchia sinistra: un dualismo schizofrenico che in un sistema competitivo tende fatalmente a portare a sconfitte elettorali, mentre l'equilibrio tra le correnti dc che praticavano quella distinzione era legato ad un sistema bloccato. Al di là di questa questione, attualissima in questa fase e forse decisiva, come hanno concretamente gestito i cattolici del Pd le due primarie chiave, quelle del 2009 e quelle del 2012? Senza l'integrazione subalterna di una parte di essi con una proposta di limitata ed esplicita manutenzione della sinistra tradizionale essi non avrebbero mai potuto prevalere nel cerchio dei votanti alle primarie, peraltro condannando poi il partito alla non vittoria in quella più larga delle elezioni vere. Molti, o comunque quelli decisivi, hanno quindi contribuito alla propria sconfitta e a quella del Pd sbagliando politica delle alleanze interne: particolarmente grave nel caso del 2012, giacchè errare è umano, ma perseverare è diabolico. Passando dallo scenario politico complessivo e dal versante della forma-partito alle singole scelte di policies nelle due aree decisive (istituzioni e materia economico-sociale), i cattolici del Pd si sono trovati di fronte alla necessità di distinguere tra principi e strumenti. Sul piano istituzionale, in termini di principio i cattolici sono sempre stati portatori sin dalla Costituente di una visione nettamente anti-assemblearista, e non solo in Italia. Basti pensare agli scritti di Maritain tra le due guerre contro il ritorno al parlamentarismo pre-Vichy e la sua impostazione semi-presidenzialista ante-litteram. Sul piano pratico, però, specie dopo il 1953 prevalse nella Dc la scelta di varare operazioni di apertura politica di allargamento a sinistra delle maggioranze a regole istituzionali invariate. Apertura politica e status quo istituzionale si sono a lungo obiettivamente intrecciati, col rischio di scambiare gli strumenti di una fase coi principi. Solo dalla metà degli anni '80 sono poi ripartiti due riformismi istituzionali (quello elettorale della sinistra dc e quello costituzionale del Psi) che erano in realtà due mezze verità complementari: ma la divisione ha a lungo pesato tra i cattolici del Pd, che spesso - sulla scia del conservatorismo dei comitati Dossetti del 1994 (andati peraltro ben al di là dell’intenzione dell'illustre costituente) - si sono trovati alla retroguardia. Anche sul versante economico-sociale vi era la necessità di distinguere tra principi e strumenti. Se all'inizio della storia repubblicana la leva dello Stato era quella decisiva per lo sviluppo - e larga parte delle sinistre dc (specie la Base) si sono fondate su questo - il nuovo contesto interno ed internazionale dagli anni' 70 richiedeva una ripresa delle intuizioni anti-burocratiche dell'ultimo Sturzo, come ebbe a fare quasi isolatamente Nino Andreatta. La continuità sul principio di uguaglianza doveva essere coniugata con una necessaria discontinuità di strumenti, con una maggiore capacità di distinguere tra pubblico e statale: come in parte accaduto col nuovo art.118 risultante dalla riforma del Titolo Quinto, ed analogamente a quanto stavano facendo alcuni partiti socialisti europei, stimolati spesso dalle componenti di ispirazione religiosa, come il tandem Delors-Rocard dopo il primo biennio di Mitterrand e il Christian Socialist Movement con Smith e Blair. Anche qui Sturzo è stato spesso svalutato a favore di vecchi statalismi. A questo punto nulla appare obiettivamente scontato. Le debolezze della cultura politica dei cattolici, nonostante le grandi potenzialità di partenza, non hanno aiutato lo sviluppo riformista del Pd in sinergia col meglio delle altre culture politiche, anche a causa della debolezza di quella liberale e socialista interna al Pd, e per il prevalere del centro burocratico dell'ex-Pci sugli spezzoni più riformisti di quella provenienza. Per di più, senza il traino di una posizione efficace dentro il sistema politico, non era certo da attendersi una maturazione efficace autonoma del retroterra dell'associazionismo e dell'episcopato, fermi (dopo la parentesi della settimana sociale di Reggio Calabria sfortunatamente priva di sponde politiche) ad astratte declinazioni di principio combinate con le sempre riemergenti velleità centriste, anch'esse senza riferimento. Paradossalmente il nuovo pontificato, con la spinta di innovazione che porta, darebbe uno spazio fecondo per un'iniziativa anche politica: ma la finestra di opportunità per i cattolici del Pd non resterà aperta per molto tempo ancora (senz'altro non oltre il prossimo congresso). Senza dire che l'eventuale fallimento del progetto del Pd, portando a una confusa regressione identitaria a sinistra (magari fondendo le aree più tradizionaliste con pezzi di ceto dirigente movimentista grillino), potrebbe assicurare a un centro-destra post-berlusconiano una egemonia abbastanza stabile. Da questo punto di vista l'attuale governo rappresenta una possibilità ambigua: per il Pd che lo guida può essere l'occasione di riaprirsi agli elettori di centro se la guida del Pd sarà sintonica con tale possibilità; oppure può essere il luogo da cui nasce un Ppe italiano a vocazione maggioritaria se il Pd fugge verso le vecchie identità.
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