Stagioni italiane, di Luciano Iannaccone

Al sole della primavera brillano tanti avvenimenti e tanti temi di discussione, che rendono garrulo ed affaccendato il circo della politica e dell’informazione. Quella televisiva in particolare (con l’occupazione della Rai da parte dei vincitori) è sull’allegretto, ma anche quella mediatica e cartacea non scherzano, perché i temi sono tanti. In politica la crescente egemonia del Matteo con la barba, le favole recitate da zio Luigino in Italia e all’estero, la “new entry” pensosa di Zingaretti, gli appuntamenti elettorali fino alle europee del 26 maggio con vincitori e vinti, finora sempre gli stessi. Nella cronaca è il momento dei primi consuntivi sulle domande per il reddito di cittadinanza e “quota cento”, della cittadinanza italiana al bravo Rahmi, dei titoli che troverete domani. Nella futurologia i temi variano da guerra e pace tra Lega e 5Stelle agli imperscrutabili traguardi di Salvini alle quote dei bookmakers londinesi sulla professione di Di Maio nel 2029.

Spiace guastare questo clima sereno, ma occorre avvisare per tempo che, con toni molto meno melodiosi delle note di Vivaldi, arriveranno un autunno ed un inverno assai critici per l’economia e la società italiana. C’entrano poco gli sbandierati arretramenti dell’economia mondiale, trattandosi di parziale rallentamento di una crescita globale che comunque prosegue, con rallentamento significativo solo in Germania. Ma da noi le previsioni oscillano ormai tra la stagnazione e la recessione, speriamo marginale. Il Pil 2019 dovrebbe essere quindi sensibilmente inferiore all’incremento dell’1% previsto dalla Legge di Bilancio, forse negativo, accompagnato e provocato dalla caduta degli investimenti pubblici e privati.

Il bilancio dello Stato chiuderà con un deficit non del 2,04%, come comicamente previsto dal governo, ma significativamente superiore perché mancheranno fra l’altro all’appello previste ed ingenti entrate in conto capitale ed entrate fiscali legate al Pil programmato, ma non conseguito. Causa la finora bassa inflazione, il mancato incremento del Pil e l’alto deficit, il debito pubblico consolidato calcolato percentualmente sul Pil dovrebbe quindi aumentare in modo significativo ed allarmante dopo anni in cui era stato, dal 2014, in lieve ma costante discesa. E ciò malgrado l’aumento della pressione fiscale, dopo anni in cui era progressivamente scesa.

Il governo punta sul decreto sblocca-cantieri e su un pacchetto di misure per la crescita curato da Tria, entrambi in lentissimo arrivo, per contrastare la tendenza negativa. Speriamo servano almeno per alleviare le difficoltà, ma anche in questo caso la situazione apparirà nella sua gravità in autunno, quando il governo dovrà impostare la legge di bilancio 2020, privo di ogni credibilità dopo le meraviglie ed il boom promessi, e cercare se e come disinnescare aumenti iva per 23,1 miliardi nel 2020 (e 28,8 arriveranno nel 2021).

Non è difficile prevedere tanti nodi al pettine, che tenderanno a fare dell’Italia la “malata d’Europa” ed esporla alla turbolenza dei mercati, che già esigono da più di dieci mesi una remunerazione per la sottoscrizione del debito italiano a tassi imparagonabili a quelli correnti fino a maggio 2018 (con lo spread a 10 anni mediamente più che raddoppiato fino a 160 punti base in più) e a quelli dell’area euro (Grecia esclusa).

Come rispondere a queste gravi difficoltà: con più tasse, con meno spesa pubblica, con le due cose insieme favorendo tendenze recessive? O buttandola in farsa prendendosela con l’Europa e l’euro, senza i quali staremmo molto peggio, perché finanziariamente ed economicamente squassati dal nostro incontrollabile debito pubblico?

Sarà il momento della verità, in cui il clima festoso dei telegiornali e dai talk amici lascerà il posto a pensosi proclami e, c’è da giurarlo, a liti da ringhiera tra i contraenti del famigerato programma di governo. Qualcosa di nuovo dovrà avvenire, in gran parte legato alle scelte obbligate di Salvini, che vedrà a rischio il largo consenso finora accumulato.

Quello che sembra certo è che non potrà limitarsi a “tornare” nel centro-destra, in cui sarebbe egemone, per riproporre il vergognoso programma elettorale 2018 della coalizione, premio oscar per la demagogia, che tra tagli fiscali ed aumenti di spesa correva velocissimamente verso il dissesto pubblico e la distruzione del risparmio degli italiani. E allora?

Ma lo stesso discorso vale per il “nuovo” Pd di Zingaretti. Se gli umori prevalenti fossero quelli di una rivisitazione camussiana o landiniana, o più modestamente alla Speranza o anche solo alla Damiano, delle riforme economiche, produttive e sociali di Renzi (e Gentiloni), ciò vorrebbe dire una cosa sola. E cioè rigettare il cammino di risanamento economico e finanziario che dal 2014 a metà 2018 ha costruito quella modesta, ma concreta solidità (e credibilità) che ha consentito tra l’altro all’Italia di sopportare i disastri di dieci mesi di governo gialloverde. E ciò senza neppur raccogliere il necessario consenso popolare per essere alternativa di governo credibile.

Come ha scritto Luca Ricolfi sul “Messaggero” del 25 marzo, il Pd, con il suo mitico “campo largo”, per tentare di allargare significativamente i consensi e contendere la vittoria al centro-destra, anzichè accontentarsi di un innocuo e permanente secondo posto, dovrebbe “tornare a Renzi sulla politica economica, per non perdere il sostegno dei ceti produttivi che vogliono la crescita”. E “tornare a Minniti sulla politica migratoria, per recuperare il sostegno dei ceti popolari, ormai indisponibili a tollerare gli ingressi irregolari in Italia”. Spiegando preoccupazioni, timori e ragioni legittime di questi ultimi, aggiungo, ai “ceti medi riflessivi”, aperti alla globalizzazione ed ai migranti”, ma spesso algidamente chiusi alle preoccupazioni di tanti italiani.

Proprio il contrario di quanto il gruppo Zingaretti sembra avere in mente, dimenticando la lezione delle due principali storie politiche da cui il Pd è nato. Che è consistita nel non temere, ma ricusare e combattere (in contesti diversi e imparagonabili fra loro) una posizione estrema alla propria sinistra in nome di una funzione e di una responsabilità nazionale: De Gasperi contro alcuni eccessi del dossettismo, Di Vittorio, Amendola e Lama contro l’estremismo politico e sociale dentro e fuori il Pci.

L’Italia, se saldamente attiva in Europa, può affrontare le sfide che ha davanti e rifiutare il cammino di decadenza che la minaccia. Non deve temere la globalizzazione e la rivoluzione digitale, ma affrontarle con una rinnovata unità operativa dell’Europa ed agendo nel vivo della propria realtà nazionale: gli investimenti nelle nuove tecnologie produttive e nella nascita e qualificazione del nuovo lavoro; la serietà e la competenza della politica; l’efficienza della società liberale per sconfiggere i disastri dell’oppressione burocratica, dei nuovi privilegi, del giustizialismo.

E se né Salvini, né il centro-destra, né il “campo largo” del Pd saranno in grado, quando i nodi autunnali verranno al pettine, di mettere in campo una proposta credibile di risanamento nazionale che parli a tutti gli italiani? Allora movimenti e forze nuove ed oggi imprevedibili dovranno riuscire a formarsi e a prendere il loro posto: è la necessità, può essere anche la speranza.

 

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