Quale legge sulle unioni civili- mio pezzo per Huffington Post

Mi sembra che il punto di partenza ineludibile per una legge sulle unioni civili debba essere la giurisprudenza costituzionale, specie quella recente, cercando di capire come essa abbia cambiato alcuni dei termini della questione. Prima delle due sentenze dedicate alle unioni omosessuali (138/2010 e 170/2014) vi era stato, com'è sufficientemente noto e consolidato, il riconoscimento delle convivenze stabili tra coppie eterosessuali su cui la Corte era intervenuta direttamente in qualche caso specifico, valutando appunto caso per caso la ragionevolezza dell'equiparazione alla famiglia sulla base delle funzioni effettivamente svolte da tale tipo di convivenze e invitando il legislatore a procedere in modo analogo. In altri termini dettando una disciplina leggera di diritti e doveri che tenesse conto per un verso della volontà della gran parte di tali coppie di non passare per la scelta del matrimonio (eccetto quelle necessitate per i tempi lunghi di separazione e divorzio), ma, per altro verso, dell'impostazione solidaristica della Costituzione che, da una circostanza di fatto della stabile convivenza, non può non far scaturire anche alcune conseguenze di diritto, specie a favore del partner più debole della coppia. Il Governo Prodi II propose i cosiddetti Dico quando si era ancora a questo stadio della giurisprudenza costituzionale e, quindi, in assenza di riferimenti alle unioni omosessuali, fece rientrare anche queste ultime (più esattamente le coppie di persone dello stesso sesso) dentro quello schema. La sentenza 138/2010 legittima invece per la prima volta le unioni omosessuali come tali dentro le formazioni sociali di cui all'art. 2 e, pur escludendo l'accesso al matrimonio sulla base di una certa lettura dell'art. 29 della Costituzione su cui si è molto discusso in dottrina, spinge di fatto a una regolazione specifica delle unioni omosessuali distinta da quella delle stabili convivenze perché, pur non assumendo il nomen di matrimonio, le persone omosessuali solo così potrebbero assumere un tipo di impegno deliberatamente scelto e potrebbero anch'esse avere a disposizione la doppia scelta tra un impegno più forte (l'unione) ed uno più debole (la stabile convivenza). Qualsiasi altra soluzione ci farebbe finire dentro un comma 22: se si prevedesse una tipologia di stabili convivenze solo per le coppie omosessuali si discriminerebbero quelle eterosessuali violando la giurisprudenza pre 138/2010; se si inserissero a questo punto le coppie omosessuali dentro le convivenze stabili di tutti i tipi si darebbe una scelta in meno alle coppie omosessuali, riconosciuta invece a partire dalla 138/2010. Questa chiave di lettura è ancora più marcatamente affermata dalle 170/2014 che, mi sembra, sia addirittura un'additiva di principio che viene a chiarire i termini della 138/2010 rispondendo a una serie di obiezioni dottrinarie. Per un verso la sentenza ribadisce la non utilizzabilità dell'art. 29, del richiamo al matrimonio, nonostante alcune aperture della Cassazione dopo la Carta dei diritti di Nizza e della conseguente giurisprudenza successiva: la lettura dell'art. 29 escludente il matrimonio omosessuale sta dentro il margine nazionale di apprezzamento dei diritti. Come recita il punto 5.3 del considerato in diritto: "In assenza di un consenso tra i vari Stati nazionali sul tema delle unioni omosessuali, la Corte Edu, sul presupposto del margine di apprezzamento conseguentemente loro riconosciuto, afferma essere riservate alla discrezionalità del legislatore nazionale le eventuali forme di tutela per le coppie di soggetti appartenenti al medesimo sesso". Per altro verso, però, al di là dell'esclusione del medesimo nomen, dall'art. 2 si giunge alla possibilità di una normazione notevolmente vicina per contenuti al matrimonio, tant'è che, nel caso di cambiamento di sesso di uno dei coniugi, essa, se permane la scelta di vivere insieme, deve subentrare al matrimonio. La discrezionalità del legislatore non solo non è riferita al se normare queste convivenze (deve farlo), ma anche sul come non è priva di vincoli, tant'è che "Resta... comunque, 'riservata alla Corte costituzionale la possibilità di intervenire a tutela di specifiche situazioni', nel quadro di un controllo di ragionevolezza della rispettiva disciplina" (5.5). Ora, se si considera che, nel concreto sviluppo costituzionale il matrimonio civile si è sempre più discostato da quello canonico sia per ciò che concerne la necessaria apertura alla fecondità, sia sul dovere di fedeltà sia sul rilievo del sacramento rispetto alla convivenza, tanto da mettere in crisi il sistema di delibazione delle sentenze ecclesiastiche di nullità, non è così semplice stabilire su che cosa la disciplina dell'unione civile possa ragionevolmente distinguersi da quella del matrimonio. L'unica distinzione ragionevole dovrebbe/potrebbe derivare dalla 'naturale' mancanza - nell'unione omosessuale - di un progetto procreativo comune: quindi, impossibilità di ricorrere all'adozione come coppia e inapplicabilità dell'art. 31 Cost. ("La Repubblica agevola con misure economiche e altre provvidenze la formazione della famiglia e l'adempimento dei compiti relativi"). In ogni caso, comunque la si pensi su singoli aspetti, soprattutto su questi ultimi, su cui è giusto confrontarsi senza pregiudiziali, i tanti conflitti che si stanno aprendo dimostrano che l'assenza di una legge è comunque la scelta peggiore e rischia peraltro di aprire le porte a forme di supplenza del giudiziario e della Corte costituzionale che il Parlamento dovrebbe prevenire.

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