Primarie utili e cattolicesimo politico
Il solo avvio della campagna elettorale per le primarie del centrosinistra ha “ristrutturato” il campo dell’offerta politica. Intendiamoci, non è difficile fare l’elenco delle cose che non vanno. Tanto per cominciare, al di là delle previsioni di compromesso dello statuto PD, le vere primarie sarebbero quelle di partito. Si sceglie il leader - candidato premier e si va alle elezioni. E’ il sistema elettorale a “dettare” le regole della coalizione, quando indispensabile. Altrimenti il partito a vocazione maggioritaria è solo un modo di dire. Come nel PD bersaniano che ha riesumato la formula dell’unità a sinistra e dell’alleanza con i moderati. Facendo fare un clamoroso passo indietro al rapporto tra riformismo e cattolicesimo politico, un rapporto decisivo nella storia della democrazia italiana. Sorvolando sull’accantonamento della vocazione maggioritaria, le primarie restano tuttavia un meccanismo per scavalcare le oligarchie di partito, cioè per avere più democrazia immediata. Con gli accorgimenti del caso, la storia delle primarie americane è lì a dimostrarlo, la sostanza è tutta qui: far uscire dal perimetro degli apparati di partito la competizione per la scelta del leader. Eppure le regole di queste primarie sono fatte per rendere più difficile tutto questo, sembrano scritte per difendersi piuttosto che per rendere più agevole la partecipazione. Difendersi dal voto degli elettori, il voto non mobilitato, non controllabile, fluttuante, quello di chi potrebbe anche provenire da appartenenze lontane e per cui le primarie aperte sono state inventate. Tanto che il peso degli apparati, dalla CGIL alle reti dell’ex-PCI nelle zone rosse, resterà decisivo. E le primarie finiranno con l’essere, almeno in parte, una specie di censimento piuttosto che una competizione. Tutto scontato dunque? No, se pensiamo al medio periodo e non ai risultati immediati. La ristrutturazione dell’offerta ha reso evidenti i poli alternativi chiudendo con l’unanimismo delle precedenti esperienze. Abbiamo così la sinistra anticapitalista di Vendola, la sinistra socialdemocratica di Bersani, il nuovo riformismo: come in tutte le democrazie avanzate. La prima radicale a parole e conservatrice nei fatti. La seconda moderata a parole ma immobile nei fatti. La terza innovatrice a parole e ancora esile nei fatti, come dimostra Matteo Renzi. Anche se occorre riconoscere al nuovo riformismo almeno due punti di forza. Innanzi tutto solo qui è possibile costruire una relazione con il cattolicesimo politico, in un contesto a vocazione maggioritaria dove le organizzazioni politiche influenzano la formazione di una proposta di governo e non la custodia di un interesse di parte. Sfuggendo al rischio dell’irrilevanza degli ex ppi o, in fondo è la stessa cosa, dei nuovi indipendenti di sinistra. In secondo luogo, solo qui si abbozza una prospettiva di governo che si misura realisticamente con le sfide della crisi globale. Una prospettiva che non ignora la questione delle diseguaglianze ma la affronta rinunciando una volta per tutte al tax and spend. In una prospettiva di “true progressivism” – come lo ha chiamato The Economist – oltre le vecchie polarità tra destra e sinistra. Esito immediato ed effetti politici di medio periodo dunque non coincidono. Non sono primarie aperte doc ma non sembrano primarie inutili. Il nuovo riformismo può ripartire anche da queste primarie.
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