Il PD e gli alibi della sinistra

L’uscita recente del libro del gruppo di ricerca ITANES sui risultati elettorali di febbraio chiude un primo ciclo di analisi del voto da parte dei più importanti centri e reti universitari. CISE, Istituto Cattaneo, LaPolis, ITANES hanno detto la loro raccogliendo dati, cercando di ordinare fenomeni, interpretando tendenze. Tra i tanti risultati di questi lavori mi sembra utile segnalare due questioni guardando, in prospettiva, all’infinita discussione sulla legge elettorale e alle prossime elezioni nel PD. La  prima è una questione di sistema. Le elezioni di febbraio hanno cambiamo il volto del sistema di partito in Italia o sono un fenomeno transitorio destinato a riassorbirsi? Non c’è unanimità tra gli osservatori. In troppi hanno dato per morta la stagione bipolare del sistema italiano, scambiando una questione di funzionamento del sistema (qual è il gioco) con una questione di numeri (quanti sono i giocatori). Se dunque si è sostenuta da più parti la fine del bipolarismo, addirittura indicandone il sintomo nell’affermazione non solo di una terza forza ma di una quarta considerevole forza - come sappiamo mestamente evaporata - altri più prudentemente hanno scritto di un riallineamento elettorale tutt’altro che duraturo. Il M5s potrebbe infatti rivelarsi un fenomeno riassorbibile. Il punto non è senza conseguenze per il dibattito sulla legge elettorale. Il preteso superamento del bipolarismo porta evidentemente acqua al mulino dei proporzionalisti: un indebolimento transitorio del bipolarismo rafforza le ragioni dei sostenitori dei sistemi maggioritari. Al mulino dei proporzionalisti porta acqua anche una malintesa lettura della cosiddetta disproporzionalità del porcellum, cioè la sua eccessiva capacità di manipolazione del risultato elettorale in termini di trasformazione dei voti in seggi. Una disproporzionalità che dovrebbe essere una delle ragioni per dichiararne l’incostituzionalità nell’improbabile e malfermo giudizio che pende davanti alla Corte. Giudizio che per molti legittima le accelerazioni proporzionalistiche degli ultimi mesi. In realtà tutti i sistemi elettorali che intendono sostenere, più o meno direttamente, la formazione di governi di legislatura contengono un elemento di disproporzionalità, cioè premiano in termini di seggi rispetto ai voti allo scopo di assicurare una diretta legittimazione dei governi. E lo fanno per dare più peso al voto degli elettori. L’equazione disproporzionalità uguale incostituzionalità per violazione del principio di eguaglianza non ha alcun fondamento. Basti pensare che la misura di questa disproporzionalità nel caso del porcellum è inferiore a quella del sistema francese e di poco superiore a quella del sistema inglese. Due casi che sarebbe difficile etichettare come violazione del principio di eguaglianza. Chi vuole migliorare la legge elettorale non ha dunque alibi costituzionali: meglio tenersi il porcellum rispetto ad una riforma proporzionalistica. La seconda questione riguarda il PD. Gli studi elettorali confermano in larga parte quanto si sapeva. Il PD di Bersani e D’Alema è diventato il partito dei pensionati e del ceto medio dei lavoratori dipendenti, pubblici e privati, oltre a essersi ritirato nella roccaforte rossa dell’Italia centrale. Una specie di partito del welfare all’italiana. Ci sono però elementi nuovi per la riflessione che mettono in discussione molti luoghi comuni coltivati dal gruppo dirigente del PD sulla sinistra. Su alcuni di questi è già intervenuto Stefano Ceccanti. Qui ne metto di nuovo in evidenza tre. In primo luogo il PD non ha perso le elezioni per il suo appoggio a Monti. Il che significa che il PD è in grado di sopportare riforme fatte di tagli e di ristrutturazioni del sistema della pubblica amministrazione italiana. Il PD può dunque fare politiche liberiste di sinistra: avanzare timori di contraccolpi nell’elettorato di riferimento è solo un alibi. In secondo luogo il bacino elettorale di centrosinistra disponibile a votare PD non è fatto solo di elettori più a sinistra del PD. Al contrario è fatto in gran parte di elettori con posizioni più moderate in tema di tasse, Europa, immigrazione.  Ovunque nel paese il PD perciò farebbe dunque bene a smettere di inseguire la sua ombra a sinistra. Infine  il PD non può permettersi di scegliere sul tema della personalizzazione della leadership. O si personalizza la leadership o si perdono le elezioni. Una lezione per le primarie di dicembre. Ne esce con le ossa rotte l’establishment del PD, non solo Bersani ma tutto l’arco costituzionale interno, da Letta a D’Alema. Anche in questo caso non ci sono alibi: la base elettorale, il profumo di sinistra, il leaderismo. Ammesso che l’obiettivo sia vincere le elezioni e non continuare a coltivare una speciale “rendita di posizione”.

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