I cattolici e la leadership nel PD

Dottrina ed esperienza ci confermano che l’unione tra capo dell’esecutivo e leader del partito è essenziale per garantire la stabilità nei rapporti tra Governo e Parlamento e il consolidamento della vocazione di governo del partito. Eppure ancora una volta, come sempre nel “gioco delle regole” di funzionamento delle istituzioni politiche, i calcoli di breve periodo dei protagonisti mettono in forse i ben più consistenti benefici di lungo termine. A questa consapevolezza di carattere generale si possono aggiungere un paio di osservazioni che riguardano in particolare la vicenda tutta italiana del PD. Se infatti la coincidenza tra Primo ministro e leader del partito rappresenta un presidio per la vocazione di governo, cioè per la garanzia di una forte e pervasiva capacità del partito di esprimere cultura e comportamenti politici adatti ad assumere responsabilità di governo, altrettanto può dirsi della sua vocazione maggioritaria. La vocazione maggioritaria è l’altra faccia della cultura di governo in un sistema che si continua a volere competitivo e basato sulla dialettica governo / opposizione. Tutto si tiene: sistema competitivo, vocazione maggioritaria, cultura di governo e coincidenza tra capo dell’esecutivo e leader. Abbandonare questa logica di sistema in questa fase, smontandone uno dei pilastri, significa abbandonare il percorso di lungo periodo di uscita dai modelli istituzionali della vecchia repubblica assembleare, non più adatta a una fase di piena maturità della democrazia italiana. Un percorso non concluso, come sappiamo, ma che tutti dicono, a parole, di voler concludere, tanto da fare della sua mancata conclusione una condizione risolutiva del contratto che sta alla base della formazione del nuovo governo. Non solo, abbandonare questa logica di sistema, riportando in vita il dualismo tra partito e governo, tipico sia delle opposizioni senza chance di governo che delle coalizioni di governo nei sistemi parlamentaristici controllate dai giochi oligarchici delle correnti di partito, significa mettere la parola fine all’esperimento politico culturale del PD: permettere, in un quadro totalmente modificato, un nuovo incontro virtuoso tra movimento cattolico e moderno riformismo di sinistra. Quell’incontro cruciale per la democrazia italiana del novecento, sia nelle occasioni del suo accadere che in quelle del suo mancato avverarsi. E ancora oggi essenziale. Senza unione tra capo dell’esecutivo e leader di partito il PD si trasforma in un partito che sostiene un governo e dismette le caratteristiche di un partito di governo. In questa logica tradizionale di coalizione, le istanze di incontro tra movimento cattolico e moderno riformismo di sinistra non avrebbero più ragione di essere congelate in un contenitore privo della sostanziale vocazione governativa. La vocazione governativa e maggioritaria dovrebbe trovare naturalmente un’altra casa. Il PD finirebbe nel recinto della sinistra “radical”, buona per protestare ma inutile per governare.  

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