Dal comunicato della Corte dubbi e certezze su come non tornare alla “prima Repubblica” di S.Curreri

Dal comunicato della Corte dubbi e certezze su come non tornare alla “prima Repubblica” di Salvatore Curreri Il comunicato con cui la Corte ha preannunciato la propria sentenza sull’Italicum scioglie alcuni nodi ma ne lascia aperti altri, ben più importanti, sui quali bisognerà invece attendere le motivazioni. Innanzi tutto, la Corte non ha bocciato i capolista bloccati, ad onta di coloro che sostengono che il voto di preferenza sia l’unica modalità con cui gli elettori possono democraticamente scegliere gli eletti. Tesi ardita sia in fatto, visto che esso, specie nelle regioni meridionali, favorisce le clientele e non i migliori; sia in diritto, perché i capilista bloccati, con il nome riportato sulla scheda, sono assimilabili ai candidati dei collegi uninominali nel maggioritario, in cui non c’è voto di preferenza. In secondo luogo, le pluri-candidature non sono state bocciate in sé ma perché, in caso di elezione in più collegi, mancava un criterio per individuare automaticamente uno, senza affidarne la scelta alla discrezionalità dell’eletto. La scelta dalla Corte di ricorrere ad una soluzione - il sorteggio – già prevista dalla legge come extrema ratio in caso di mancata opzione dell’eletto, è evidentemente dettata dalla scelta della Corte di individuare una soluzione auto-applicativa, senza essere costretta a farsi essa stessa legislatore per inventarne una. Ma certamente non è quella che consente di meglio tutelare il rapporto elettore – eletto perché potrebbe essere sorteggiato il collegio in cui il pluri-candidato ha ottenuto, in percentuale, il peggior risultato. In terzo luogo, è rimasto il premio di maggioranza del 54% dei seggi alla lista che al primo turno ottiene il 40% dei voti. Tale premio, quindi, non è irragionevole, anche perché, contrariamente a quel che sembra, lo scarto tra voti e seggi è inferiore al 14%; infatti, chi raggiunge il 40% dei voti ottiene già più del 40% dei seggi a causa dell’esclusione dal riparto dei seggi delle liste che non hanno superato lo sbarramento del 3%. L’aver mantenuto tale premio smentisce la tesi che un sistema elettorale, per essere democratico, debba limitarsi a fotografare i rapporti di forza esistenti tra i partiti politici. La Corte, invece, ci dice che attribuire la maggioranza dei seggi a chi non ha preso la maggioranza dei voti non viola il principio democratico e l’eguaglianza di voto. Infine - ed è il punto centrale della sentenza – la Corte ha dichiarato incostituzionale il ballottaggio, ma nel comunicato non se ne spiegano le ragioni. Si possono fare tre ipotesi: 1) il ballottaggio è incostituzionale in sé, perché, a differenza di quel che accade in comuni e regioni, non si può ricorrere a tale strumento quando si tratti di eleggere non un organo monocratico ma collegio, tanto più se si tratti del Parlamento, cioè la sede della rappresentanza politica nazionale; 2) il ballottaggio è incostituzionale perché il legislatore non ha previsto una percentuale minima di voti per potervi accedere, così da evitare che una lista che al primo turno abbia ottenuto una percentuale minima di voti (intorno al 30%), conquisti il premio di maggioranza del 54% dei seggi, con una dis-proporzionalità che la Corte costituzionale nella sentenza n. 1/2014 sul Porcellum aveva dichiarato incostituzionale. Oppure – seconda ipotesi – il ballottaggio è stato dichiarato incostituzionale perché non è prevista una percentuale minima di votanti per la sua validità. In entrambi i casi, il ballottaggio non sarebbe incostituzionale in sé ma perché non compiutamente disciplinato; 3) il ballottaggio è incostituzionale perché irragionevole in quanto non in grado di garantire una maggioranza di governo in un sistema come il nostro, rimasto (ahimè) bicamerale, in cui il governo deve avere la fiducia anche del Senato. Il ballottaggio, quindi, sarebbe incostituzionale non in sé ma perché il sistema è rimasto bicamerale; il che spiegherebbe perché la Corte ha voluto rinviare la decisione a dopo il referendum costituzionale. Se così fosse, però, ci sarebbe da chiedersi perché la Corte non ha bocciato anche il premio di maggioranza al primo turno, giacché anch’esso, in un sistema bicamerale, non idoneo a garantire, come detto, una maggioranza di governo. In effetti, dalle due sentenze della Corte costituzionale – la 1 del 2014 e quella del 25 gennaio – emergono tra Camera e Senato due sistema elettorali diversi: il premio di maggioranza è previsto solo alla Camera (per la lista) e non al Senato; le coalizioni di liste sono escluse alla Camera ma incentivate al Senato (lo sbarramento scende dall’8 al 3% per le liste unite in coalizione che ottengono su base regionale più del 20% dei voti); gli sbarramenti sono diversi (3% per tutte le liste alla Camera, solo per liste coalizzate al Senato, altrimenti l’8%); infine alla Camera vi sono i capilista bloccati, mentre al Senato vige per tutti i candidati il voto di preferenza. Sono differenze non radicali ma certo significative, che potrebbero determinare maggioranze politiche diverse, se non opposte, tra le due camere, con rischio di paralisi del sistema. Da qui, la necessità di rendere omogenee (ma non per questo uguali) le formule elettorali delle due camere, a proposito della quale si possono fare tre riflessioni. Innanzi tutto: quale dovrà essere il verso di tale “omogeneizzazione”? Dovrà essere il sistema della Camera ad essere omogeneo a quello del Senato, o viceversa? Si dovrà, insomma, proporzionalizzare il sistema della Camera, togliendo i capilista e, soprattutto, il premio di maggioranza; oppure, al contrario, si dovranno introdurre elementi maggioritari nel sistema del Senato? In questa seconda ipotesi, quali essi potrebbero essere? Già la Corte costituzionale, nella sentenza n. 1/2014, ha bocciato i premi di maggioranza regionali perché inidonei a garantire una maggioranza a livello nazionale. Si potrebbe introdurre al Senato un premio di maggioranza nazionale alla lista o coalizione più votata? Va ricordato che a tale soluzione, prevista in un primo momento dal centro destra all’atto di redigere il Porcellum, fu avversata dalla sinistra e trovò un netto rifiuto nell’allora Presidente della Repubblica Ciampi, che per le vie brevi fece sapere di ritenerla in contrasto con l’art. 57.1 Cost., secondo cui il Senato “è eletto a base regionale”. La si potrebbe ora riproporre, interpretando tale “base regionale” come la sede in cui i seggi vengono solo ripartiti ma non aggiudicati? Pur ammettendo un premio di maggioranza nazionale al Senato, ciò non impedirebbe però che a conquistarlo possa essere una forza politica diversa da quella invece vincitrice alla Camera, per cui avremmo la situazione paradossale di due premi di maggioranza attribuiti a liste o coalizione diverse, con rischio, anche qui, di paralisi del sistema. Per scongiurare tale eventualità, si potrebbe inserire una clausola per cui i premi di maggioranza scatterebbero solo se ad aggiudicarseli fossero la stessa lista o coalizione in entrambe le Camere? Oppure una simile clausola sarebbe in contrasto con l’art. 58.1 Cost. perché consentirebbe agli elettori diciottenni della Camera di influire sull’elezione del Senato, riservata ai venticinquenni? Secondo riflessione: tale omogeneizzazione è un’esigenza politica o un obbligo costituzionale? Il costituente del 1948 aveva disegnato un Senato rispetto alla Camera di durata diversa (sei anni contro cinque) ed eletto in modo diverso (su base regionale per l’appunto). Già però nel 1948, fissando per l’elezione nei collegi uninominali del Senato la soglia irraggiungibile del 65%, le due legge elettorali furono di fatto uniformate sull’asse proporzionale. E nel 1963, dopo gli scioglimenti anticipati del ’53 e del ’58, la durata del Senato fu allineata a quella quinquennale della Camera. Tale situazione è però mutata dal 1993. Da allora, infatti, le leggi elettorali delle due Camere sono state diverse: con il Mattarellum il 25% dei seggi proporzionali era attribuito in base al voto alla Camera di una seconda scheda, dell’unica scheda invece al Senato; con il Porcellum, come detto, il premio di maggioranza era nazionale alla Camera e regionale al Senato; per non dire delle diverse soglie di sbarramento. Il risultato, com’è noto, è che dal 1994 abbiamo avuto quattro volte su sei maggioranze politiche diverse, se non opposte, tra le due Camere. Nel 1994 Berlusconi ha la maggioranza alla Camera ma per ottenerla al Senato deve ricorrere al voto di alcuni senatori transfughi eletti con il terzo polo costituito dal Patto Segni; nel 1996 Prodi ha la maggioranza al Senato ma deve ricorrere all’appoggio di Rifondazione comunista alla Camera (con cui comunque aveva stretto un patto di desistenza); nel 2006 Prodi vince il premio di maggioranza alla Camera ma per ottenere la fiducia al Senato deve ricorrere al voto dei senatori a vita ed eletti all’estero; infine, come tutti ricordiamo, nel 2013 il centro sinistra vince il premio di maggioranza alla Camera ma non è in maggioranza in un Senato che riflette piuttosto, dopo il successo del M5S, l’assetto politico tripolare. Il punto, allora, è che, per quanti sforzi si facciano, nessuna formula elettorale è in grado di garantire che la maggioranza alla Camera sia uguale alla maggioranza al Senato, finché verranno interpretati rigidamente i due requisiti costituzionali che la contraddistinguono, e cioè l’essere eletto da un corpo elettorale diverso e più ristretto (25 anni anziché 18) e su base elettorale diversa (regionale anziché nazionale). L’aver mantenuto – terza ed ultima riflessione – il premio di maggioranza alla Camera potrebbe in tal senso rispondere al tentativo di farne comunque la base per la costruzione della maggioranza di governo. In tal senso, esso potrebbe non palesarsi come irragionevole e, quindi, per questo non dichiarato illegittimo dalla Corte costituzionale. Ma è un’ipotesi, non una certezza, lasciata ovviamente alla discrezionalità della politica. Ipotesi il cui esito, stante l’indisponibilità del M5S a qualunque accordo, porterebbe dritti a governi di grande coalizione tra una parte del centro destra e una parte del centro sinistra. Una democrazia bloccata, quindi, in cui la tradizionale linea di frattura destra – sinistra con cui siamo stati sinora soliti classificare i rapporti tra le forze politiche sarebbe sostituita da altre, forse più attuali e drammatiche, che passano per l’adesione all’euro e all’Unione europea, per le politiche sull’immigrazione o quelle sulla sicurezza nazionale e internazionale. Forse è questo il preoccupante futuro che ci attende.

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