Collaboration
«Collaboration» è una short story di Henry James scritta nel 1892, nello scorcio di un fin de siècle europeo politicamente greve - ad onta della sua fama di belle époque -, segnato pesantemente da tensioni e risentimenti di vario ordine e grado tra le potenze continentali, non ultima quella rovinosa inimicizia franco-tedesca che vent’anni prima era esplosa nel sanguinoso conflitto franco-prussiano del 1870/71 e vent’anni dopo costituirà uno dei fattori scatenanti della Prima Guerra Mondiale. è precisamente questa torbida ostilità, con le sue dinamiche e implicazioni perverse nella vita quotidiana dei cittadini dei due Paesi, che l’autore americano mette al centro del racconto, in una variante inconsueta del suo prediletto ‘filone internazionale’: discostandosi dall’asse privilegiato del raffronto tra Vecchio e Nuovo Continente, James esercita la propria consumata capacità di analisi dei rapporti tra culture e mentalità di popoli diversi nella ricostruzione degli esiti paradossali, e dolorosamente negativi per i suoi protagonisti, cui si condanna, in clima di pieno revanchismo, l’amicizia ‘scandalosa’ tra un poeta francese e un musicista tedesco. Come evocato con sapiente ambiguità sin dal titolo (in cui il doppio senso del termine “collaborazione” - alternativamente denotativo di positiva cooperazione e dell’odioso tradimento rappresentato da ogni forma di intesa con il nemico del proprio popolo – è giocato con ironica ambivalenza, caratterizzando la dialettica che struttura tutto il racconto), le azioni umane sono oggetto di un giudizio storico direttamente ipotecato da presupposti politici e culturali che possono cristallizzarsi in codici morali opposti (quello che per gli uni è virtuoso idealismo, per gli altri è disonore ripugnante). La conclusione implicita del racconto è che l’enjeu di un’azione storica di successo non è perciò semplicemente quello (strettamente morale) della coerenza ai propri presupposti valoriali di partenza, ma anche quello di un’efficace smobilitazione, o perlomeno positiva mediazione, dei presupposti di marca opposta. Senza una transazione conciliatrice e inclusiva con tutti i soggetti coinvolti - in particolare le controparti -, una strategia storica è votata a un fallimento di cui nessun titolo di merito ideale autoconferitosi può cancellare la frustrante e a volte tragica entità (e la catastrofe storica della Prima Guerra Mondiale, che nessun ben intenzionato internazionalismo politico, estetico, culturale, riuscì a scongiurare, è il sigillo doloroso della intuizione tematizzata dallo scrittore). Con grande finezza critica il testo di James non si limita, così, a darci una ricostruzione fenomenologicamente tanto puntuale quanto illuminante di una delle grandi tradizioni di inimicizia che hanno funestato il continente europeo nel XIX e XX secolo, ma sviluppa una riflessione di straordinaria potenzialità analitica sulle basi culturali e politiche della costruzione europea - sulla non lineare, bensì labirintica e polivoca interpenetrazione di processi storici, tradizioni intellettuali e civili, meccanismi di produzione artistica, convinzioni ideali e obbligatorietà etiche. La trama del racconto è tanto semplice da apparire banale: conosciutisi nel salotto parigino di un pittore americano (l’anonimo narratore), il musicista tedesco Herman Heidenmauer e il poeta francese Félix Vendemer apprezzano a tal punto il rispettivo talento da decidere di mettersi a lavorare insieme alla creazione di un’opera, pur sapendo che questa “collaborazione” li discrediterà irreparabilmente presso il pubblico e la critica dei rispettivi Paesi (insanabilmente ostili) e avrà costi pesantissimi nella loro vita privata: il musicista tedesco perderà infatti l’appoggio economico (per lui determinante) di un fratellastro benestante, mentre il poeta francese rinuncerà al fidanzamento con una giovane connazionale di cui è innamorato, ma la cui madre - vedova di un caduto nella guerra franco-prussiana - non può accettare che la figlia sposi un ‘collaborazionista’ con il ‘nemico tedesco’. In nome della fedeltà all’ideale superiore della libertà estetica e della sua irriducibilità agli interessi politici e ai pregiudizi nazionalistici, i due artisti sacrificano nobilmente la propria felicità e le proprie prospettive di successo e scelgono coscientemente la povertà e l’isolamento: risoluti a continuare la loro collaborazione, lasciano Parigi per rifugiarsi a lavorare insieme in una remota località della riviera ligure, in cui la vita è a buon mercato («where sunshine is cheap and tobacco bad») (p.253).[1] Il narratore li perde di vista, ma indugia, stupito ed ammirato, nella contemplazione del loro sacrificio: «I have learned (it has been one of the most interesting lessons of my life) of what transcendent stuff the artist may sometimes be made.» (Ib.) Quest’episodio costituisce infatti, ai suoi occhi, «a most refreshing, a really great little case. It rests me, it delights me, there is something in it that makes for civilization. In their way they are working for human happiness.» (p.254) Se la fabula della short story fosse quella ricostruibile dalla trama, il racconto non costituirebbe altro che un banale ed edificante peana al politically correct della dimensione transfrontaliera delle arti, comparativamente utile per riconoscere gli immensi progressi storici di una Europa riconciliata in cui non ci sono più popoli nemici che configurano qualunque forma di «collaborazione» tra individui come abominevole tradimento politico, ma tutto sommato inoffensivamente insipida per la nostra emancipata attualità. Ai nostri giorni, è un credo scolpito nelle lapidi di tutti i memoriali estetici che «In art there are no countries – no idiotic nationalities, no frontiers, nor douanes, nor still more idiotic fortresses and bayonets. It has the unspeakable beauty of being the region in which those abominations cease, the medium in which such vulgarities simply can’t live. What therefore are we to say of the brutes who wish to drag them all in – to crush to death with them all the flowers of such a garden, to shut out all the light of such a sky?» (p.250) è vulgata consacrata di tutte le celebrazioni pubbliche più o meno ufficiali, che tutti gli uomini di scienza, d’arte, di chiesa, comuni cittadini e politici, disposti a sacrificare all’ideale superiore dell’umanità riconciliata la propria felicità privata e il proprio successo, mettendo a rischio la social acceptance da parte dei rispettivi milieu familiari e sociali nazionali, sono eroi, forse perdenti nel breve termine, ma cui la storia finisce per dare ragione: «It may very well be that they will not obtain any hearing at all for years. I like at any rate to think that time works for them.» (p.253) E non si legge ormai in tutti i feuilleton che la forza dell’arte, con il suo potenziale trasgressivo e innovatore, finisce sempre per trionfare, dispiegando i suoi benefici effetti sull’ordine costituito? «Don’t we live fast after all, and doesn’t the old order change? Don’t say art isn’t mighty!» (p.255) Come ci dice la trama del racconto, il nazionalismo è «volgare», le dogane sono idiozie, tutti coloro che pretendono di devastare i giardini del bello innalzando muri e barriere sono dei «bruti». Il patriottismo è una «hideous invention» che profana il regno dorato dell’arte (p. 250). Non c’è anima bella che ai nostri giorni si sognerebbe di negare tutto questo. E allora ? Allora, malgrado tutto – malgrado l’evidente preminenza umanistica dell’universalismo cosmopolitico, dal campo delle arti a quello della scienza e del diritto - c’è qualcosa che non va, perché i bruti continuano ad andare in giro, le baionette continuano a sparare, le frontiere tornano sempre a rinascere dove sembravano cancellate e le buone intenzioni fanno sentire meglio chi le proclama, ma non cambiano le situazioni. Persino laddove il particolarismo nazionalistico sembrava appartenere al passato - nell’Europa unita dei 27 -, la barca comune rischia di naufragare nei marosi dei crescenti egoismi e risentimenti nazionali, e se i leader professano la propria mutua fedeltà, i popoli mormorano o portano in piazza (dalla Grecia alla Slovacchia) diffidenza e avversione reciproche, quando non addirittura ostilità. Il fatto è che declamare ad alta voce una verità (e persino pagare per essa il prezzo eventualmente doloroso della dimostrazione) non basta mai, di per sé, a renderla ‘autentica’ per chi l’ascolta, pertinente per la sua situazione, credibile. Perché l’affermazione diventi testimonianza convincente, ci vuole un ponte comunicativo con i destinatari : senza «collaboration» con chi la pensa diversamente da te, nessun progetto storico diventa pratica e autocomprensione condivisa e dunque realtà. L’errore illuministico della presunzione di un universalismo razionalmente irreprensibile, che non fa i conti con la carne della storia (il particolare) e ‘disprezza’, rifiutando di ‘collaborarci’, le forze della ‘conservazione’, i soggetti regressivamente legati al passato (forme di vita, credenze, tradizioni logore o radicalmente obsolete - «superstitions», come le battezza il racconto) (p.238), mette a rischio il successo della battaglia di emancipazione innovatrice e la causa dell’universalismo umanistico, condannandolo ad ambizione elitaria e astratta che non riesce a tradursi in una ‘ragione pubblica’, oggetto di una politica volontà generale.[2] è precisamente su questo difficile passaggio che la fabula del racconto di James tesse la sua sottile intuizione (decostruendo la propria trama con ironica ambivalenza), aprendo uno scorcio di riflessione tanto discreto quanto efficace su un centrale paradigma politico. L’anonimo narratore, infatti, è un pittore, e il suo occhio è allenato a vedere più di quello che racconta: se la «monstruous collaboration» (p.253) tra il poeta francese e il musicista tedesco è descritta come un esempio mirabile di idealismo, la ‘realtà’ contro cui esso si erge («the land of realities» in cui vivono ‘i più’, non abbastanza intelligenti e illuminati)(p.242), si dispiega al suo sguardo con un complesso, vitale protagonismo, che non si lascia emarginare a sfondo irrilevante. Di contro ai due artisti, infatti, entrano in scena due donne, madre e figlia (Madame de Brindes e Paule), che svolgono peculiarmente, ognuna alla sua maniera, il ruolo di antagoniste, negando di fatto ai due artisti quella ‘ragione’ che il narratore riconosce loro in via di principio Le ragioni dell’‘individuazione’ storica e antropologica in un corpo di tradizioni e di memoria (impastata di eventi, simboli, lutti, modelli di identificazione e socializzazione, codici di comportamento e di riconoscimento, affetti), il loro rifiuto di lasciarsi tacitare come ‘irrilevanti’ nell’astrazione razionalista dell’universalismo estetico (etico, intellettuale) si incarnano eloquentemente in Madame de Brindes, magnifico monumento al magnetismo seduttore e potente del «bigottismo patriottico» che ad onta di ogni demistificazione concettuale e storica (per il prezzo di sangue e dolore che può arrivare a costare) si annida con indistruttibile resilienza nelle viscere dei popoli e degli individui. «It was a narrowness if you will, but a narrowness that to my vision was enveloped in a dense atmosphere – a kind of sunset bloom – of enriching and fortifying things. Herman Heidenmauer himself, like the man of imagination and the lover of life that he was, would have entered into it delightedly, been charmed with it as a fine case of bigotry. This was conspicuous in Marie de Brindes: her loyalty to the national idea was that of a dévote to a form of worship. She never spoke of France, but she always made me think of it, and with an authority which the women of her race seem to me to have in the question much more than the men. I dare say I’m rather in love with her, though, being considerably younger, I’ve never told her so – as if she would in the least mind that! I have indeed been a little checked by a spirit of allegiance to Vendemer; suspecting always (excuse my sophistication) that in the last analysis it is the mother’s charm that he feels – or originally felt – in the daughter’s. He spoke of the elder lady to me in those days with the insistence with which only a Frenchman can speak of the objects of his affection. At any rate there was always something symbolic and slightly ceremonial to me in her delicate cameo-face and her general black-robed presence: she made me think of a priestess or a mourner, of revolutions and sieges, detested treaties and ugly public things. I pitied her, too, for the strife of the elements in her – for the way she must have felt a noble enjoyment mutilated. She was too good for that, and yet she was too rigid for anything else; and the sight of such dismal perversions made me hate more than ever the stupid terms on which nations have organised their intercourse.» (p. 240) Non si può non essere «in love» con la storia e il corpo di memoria di cui essa è depositaria, in una sacralità simbolica ed affettiva che resiste ad ogni profana estraneazione. C’è un nucleo di verità, nell’appartenenza ad una comunità storica, che la stupida «mosca del patriottismo» (p.241) nazionalistico «perverte» e «mutila», ferisce e «funesta», che il peso di «ugly public things» schiaccia in una condizione di «conflitto» interiore di cui è inevitabile «avere compassione». L’appartenenza storica a una comunità (il suo peso individuativo di legami di sangue, lingua, cultura, tradizioni) è una «nobile» condizione, pervertita e mutilata dal nazionalismo, che non può essere semplicemente liquidata come una «superstizione», un’inesistente illusione, e l’arte (la politica, l’etica) diventano un vero «land of dreams» se negano la realtà delle individuazioni particolari (e del peso, dell’opacità, dei problemi, delle frontiere che esse costituiscono), in nome di un universalismo che diventa a sua volta astrazione prevaricatrice e infeconda («perversione”), quando è inteso come cancellazione, rimozione, assimilazione uniformante della diversità, piuttosto che come operoso esercizio di traduzione («collaborazione») – messa in comunicazione di reali alterità storiche nel mantenimento della loro rispettiva peculiarità. Nel confronto con l’autentica ‘sofferenza sociale’ di Madame de Brindes,[3] si evidenzia il limite fondamentale della «collaboration» in cui si impegna il poeta francese : è un gesto di straordinario di idealismo quello dei due artisti, che in nome della superiorità della creazione artistica rispetto a qualsiasi tentazione di particolarismo nazionalista sacrificano le proprie fortune materiali, sociali (e amorose), ma anche un errore di intelligenza storica e artistica, viziato com’è dalla pretesa razionalisticamente riduzionistica di astrarre l’arte stessa a mentale camera iperbarica della pura creazione, esente da ogni interferenza contestuale (e intertestuale) con provenienze, destinatari, tradizioni sociali e culturali. Nella collaborazione ideale perseguita in nome di un’astrazione radicale, l’artista respinge ogni «collaborazione», ogni dialogo con il reale: nel liquidare la ‘madrepatria’, ogni appartenenza storico-culturale come una perversa superstizione, l’artista compromette perciò molto più delle proprie fortune sentimentali e materiali. Chiuso in una dimensione totalmente autoreferenziale di negazione che è anche autonegazione (il poeta scrive in una madrelingua e si forma in una determinata tradizione culturale), perde ogni transitività storica, non solo attuale, (non ha più alcuna rilevanza nel presente degli individui reali - persino il narratore, che pure ammira incondizionatamente la sua scelta, resta privo di ogni contatto con lui: non si possono avere rapporti con qualcuno reso assente dallo ‘spaesamento’ di un’esistenza relegata in un altrove imprecisato, un estero remoto e periferico «on alien soil, at a little place on the Genoese Riviera») (p.253) ma parzialmente anche futura, perché l’opzione per l’utopia impersonale del domani dell’umanità lo taglia fuori come individuo dalla complessa dinamica antropologica della riproduzione comunitaria. Con la decisione simbolicamente pregnante della rottura del fidanzamento, la madrepatria respinta nega all’artista la propria figlia, lo priva cioè di ogni chance di futuro biologico-sociale,[4] e il poeta rimane escluso dalla linea della discendenza intergenerazionale, della fecondità storica personale. Quest’esito appare tanto più paradossalmente fallimentare alla luce della scoperta conclusiva su cui si chiude il racconto: Paule, la fidanzata del poeta francese, aveva un’attrazione per il musicista tedesco (o perlomeno per la sua musica), ma nel silenzio della sua dipendenza dalla madrepatria (la ragazza non pronuncia una parola in tutto il racconto)[5] non è in grado di tradurre quest’attrazione in un movimento di attiva liberazione. La giovane non riesce a fare altro che tacere e subire (è la madre che parla e decide) e lo «strappo» della rottura si definisce nitidamente non come un’assertiva scelta di vita ma come la desolata deriva in una «confusione di sentimenti» che la priva di ogni capacità di dialogo (facendola piombare in uno «strano», «misterioso» stato di «distrazione», assenza): [6] il potenziale di futuro che la giovane fidanzata incarna, viene sprecato dall’artista nella rigidità di un’opzione ideologica tanto innamorata della propria pretesa di verità da sacrificare il ponte biologico-antropologico con la realtà.[7] Dalla triste immagine conclusiva della giovane francese condannata a suonare la musica del ‘nemico’ nella solitudine di una stanza chiusa, di nascosto dalla madre(patria) e da ogni possibile testimone, si schiude inevitabilmente la domanda, se invece di scegliere la verticale dissociazione dalla realtà storica – nell’affermazione della propria verità in un mondo parallelo, del tutto incomunicabile e decontestualizzato -, l’universalismo (etico e artistico) non avrebbe dovuto piuttosto farsi carico di questa rigida dipendenza della figlia dalla madre (del futuro dal passato), impegnandosi in un processo di liberazione in cui alla figlia fosse restituita la voce, la capacità di dire quello che essa realmente voleva. Se l’opposizione al codice di valori dell’universalismo illuminato viene verbalizzata frontalmente dalla madre a sconfessione di un supposto disonorevole tradimento dell’appartenenza storica ad una comunità, nella silenziosa passività della figlia tale opposizione si articola invece come mancata chance di inclusione transitiva di una potenzialità cui non viene data voce, cui non vengono date le condizioni liberatorie di realizzazione della propria disposizione al ‘nuovo’ pur nella fedeltà, antropologicamente radicata, al ‘vecchio’. La lezione che l’americano James (un’intera esistenza, personale ed artistica, spesa nel processo di apprendimento e ricostruzione estetico-riflessiva dei meccanismi antropologici e interculturali di incontro/scontro/mediazione tra popoli e tradizioni intellettuali ed etiche) dà alla coscienza europea è dunque illuminante e profonda: l’analisi in chiaroscuro e sottilmente complessa della collocazione instabile e dinamica e problematica della creazione artistica tra appartenenza nazionale e universalismo trans-(inter-?)culturale elaborata nel racconto fornisce infatti un modello potente di definizione di un ancora non adeguatamente pensato “matriottismo” europeo (nella prospettiva della identità europea come poliedrico dialogo di culture diverse): l’idea di Europa ha bisogno anche politicamente di configurarsi emozionalmente e simbolicamente in un vettore storico che riconcili passato e futuro e non può distillarsi unicamente nel limbo intemporale delle astrazioni ideali (o meramente sistemiche, come quelle dell’economicismo monetario). La pretesa razionalistica dell’universalismo illuminato fallisce nella propria ambizione di integrazione sociale, culturale e politica dei popoli europei se si produce come astratta negazione della realtà storica, del suo peso evenemenziale di appartenenze emotive, etiche, religiose, territoriali, di memoria, di tradizione. Se si propone come annullamento delle differenze, loro assimilazione rimozionale, e non come loro dialogica composizione in un pluralismo polifonico e dinamico, in perpetua ridefinizione, il progetto di Unione è destinato alla sterilità della segregazione nell’«alien soil» di un dirigismo burocratico-tecnocratico (di un «federativismo esecutivo postdemocratico», come lo chiama J.Habermas)[8] completamente avulso dalla realtà della “sofferenza sociale” e delle aspirazioni delle opinioni pubbliche. Il cammino popolare verso l’integrazione non è quello della progressiva riduzione delle differenze storiche e culturali, ma quello dell’intensificazione della capacità di reciproca percezione e transitiva elaborazione di convergenze dinamiche. La sfida per ogni progetto di integrazione interculturale (e politica) individuata dal racconto di James è dunque, in ogni caso, molto più complessa di quella evidenziata nella polemica (per altro condivisibile) svolta da ampi settori della sinistra europeista contro il verticismo intergovernativo e la mancanza di trasparenza dei meccanismi decisionali comitologici in nome di un modello comunitario fondato su una maggiore partecipazione democratica dei cittadini (nella prospettiva ideale dell’instaurazione di processi di rappresentanza e codecisione diffusamente democratici, capaci di generare tra i cittadini europei un patriottismo costituzionale che sostituisca gradualmente quello nazionale). Il patriottismo costituzionale è infatti di per sé un’astrazione razionalistica che non riuscirà mai a metter radici nella coscienza dei cittadini se non si coniuga in un mattriottismo europeo nutrito di memorie culturali, narrazioni, codici e immagini simboliche, dimensioni affettive storicamente individuate, in permanente dialogo e mutua traduzione. I difensori illuminati di un’integrazione europea che finalmente realizzi sul piano politico i progressi compiuti su quello economico (e che giustamente denunciano – alla luce dei devastanti sviluppi della crisi in corso - come questi ultimi siano alla lunga insostenibili senza il supporto dei primi) si rinchiudono in volontarismo autoreferenziale (in un astratto ottimismo della volontà) quando postulano (irrealisticamente) che un ampliamento dei meccanismi istituzionali di rappresentanza e partecipazione democratica (normativizzati in una Costituzione europea di respiro etico-giuridico universale) basterebbe a invertire il processo di progressiva disaffezione delle opinioni pubbliche europee dall’idea di Unione. La crisi dell’idea d’Europa unita nella coscienza delle cittadinanze europee è molto più profonda dell’insoddisfazione verso le dinamiche istituzionali di decisione e del disorientamento legato alle incertezze di una recessione economica che in molti Paesi sta erodendo rovinosamente le acquisizioni di welfare consolidate dagli Stati nazionali nel secolo scorso : scaturisce dalla mancanza di un’idea organicamente simbolica e potentemente storica di Europa come madrepatria comune, come tradizione vivente di appartenenza comunitaria. Un’idea di questo genere si costruisce certamente anche ma non soltanto attraverso la definizione di un codice costituzionale (politico e giuridico) di coappartenenza democratica dei cittadini e dei popoli europei: la generalizzazione delle volontà particolari dei cittadini e dei popoli in una ragione pubblica europea deve essere faticosamente e lentamente edificata anche nella paziente reciproca traduzione delle diversità diacroniche e sincroniche (non annullate e rimosse, ma tematizzate, ascoltate, messe in condizione di esprimersi), nel rispetto delle sofferenze e delle aspirazioni scaturenti da situazioni concrete e da tradizioni storiche particolari (il caso della Grecia è esemplare della stolta e devastante arroganza censoria e sanzionatrice con cui un modello centralistico e monopolistico di settoriale razionalità sistemica pretende di delegittimare in blocco un intero popolo con il suo peso di opacità storica, invece di esercitare un sapiente e rigoroso ma generoso esercizio di intesa comprensiva), nella tessitura di una rete orizzontale, diffusa, capillare di meccanismi simbolici e culturali di integrazione comunicativa delle identità. è evidente che si tratta di un obiettivo di ampio respiro storico, al cui raggiungimento la politica non basta - rispetto al quale anche la fondata e urgente richiesta di maggiore democratizzazione dei processi di integrazione appare insufficiente. Essenziale, in questa prospettiva, ma purtroppo finora fortemente inadeguato, risulta infatti il ruolo di mediazione e promozione che investe le élite culturali, che con poche eccezioni sono fin qui rimaste ai margini di un attivo impegno pubblico in questo senso, non curandosi o non essendo capaci di articolare l’oggettivo europeismo in re dei circuiti (accademici, scientifici, editoriali, artistici, mediatici) della produzione intellettuale (ormai largamente europeizzata) in modelli convincenti e meccanismi efficaci di inclusione simbolica delle opinioni pubbliche. La distanza tra europeismo illuminato e oscurantistico localismo nazionalistico è andata anzi accrescendosi negli ultimi anni, con il montare di un antieuropeismo bellicosamente attivo (come nel caso di alcuni movimenti di estrema destra, ma anche di una sinistra ‘indignata’ contro i diktat di bilancio) o gelidamente passivo (come per vasti settori dell’opinione pubblica). Condannare in blocco queste tendenze come reazionario ritorno al passato può aiutare a sentirsi in pace con la propria superiore coscienza ma non aiuta la causa dell’Europa. Il ‘disprezzo’ non è mai una buona categoria politica: la mancanza di «collaborazione» (di volontà di comprensione e dialogo) nei confronti delle «superstizioni» reazionarie dell’atavismo localistico, passatistico e comunitario, come nei confronti della rivolta sociale di masse squassate e duramente penalizzate dalle dinamiche transnazionali di un’economia globalizzata, serve solo a relegare quote crescenti di cittadinanze (con il loro carico di ferite, paure, fragilità sociali e povertà materiali e culturali) in braccio ad ideologie regressive di marca fascista e nazionalistica o di sinistra populista, allontanando l’orizzonte di un Europa pacificata, solidale, pluralistica e integrata. Marine Le Pen brandirà Giovanna d’Arco come una clava, se una capacità sapiente di appropriazione simbolica delle appartenenze storicamente derivative non saprà restituire alla Pulzella francese il suo significato di rivendicazione di libertà per tutti. L’Europa è in cerca di simboli, narrazioni analettiche, ascolto del passato e inter-traduzione del suo presente pluralistico e stratificato; per costruirla non bastano strategie concettualmente prolettiche, incapaci di radicamento nell’immaginario e nella volontà popolare. La consapevolezza rousseauiana della complessità antropologica dei meccanismi di formazione della ragione pubblica è una referenza sempre attuale e imprescindibile contro i rischi di riduttivismo inerenti a tutte le prospettive di universalismo astratto di marca illuminista. è necessario sviluppare un discorso pubblico che elabori l’idea di integrazione europea non unicamente come un modello di razionalizzazione sistemica (economica, giuridica, istituzionale) ma come un processo storico complesso di incontro di diversità, in cui non c’è opposizione ma mutuo arricchimento e potenziamento tra identità storiche e culturali particolari da un lato e convergenza integrativa sul piano delle istituzioni e delle governance dall’altro. I popoli europei saranno disponibili a deporre quote sempre più sostanziose di sovranità politica dei rispettivi Stati solo se questo non significherà spogliarsi delle proprie appartenenze e tradizioni storiche – se essere più europei non significherà essere meno italiani, francesi, tedeschi… Un’Europa integrata esclusivamente sul piano economico e governativo non sarà mai la casa comune dei popoli europei, perché «l’ordine economico e amministrativo dell’identico» è per essenza irriducibile a quella polimorfa diversità che è intrinseca all’Europa nel suo pluralistico divenire storico: l’imposizione delle costrizioni uniformizzanti delle regole di convergenza contabile imprescindibili per un mercato e una moneta comuni senza un esercizio politico e culturale di intensificazione della mutua percezione e inclusiva transazione delle differenze tra popoli e tradizioni con una peculiare identità storica esaspera la sofferenza della rimozione assimilatrice delle particolarità invece di promuoverne la convergenza. La deriva isolazionista delle opinioni pubbliche nazionali è lo scotto (potenzialmente insostenibile, come dimostra la minaccia catastrofica della bancarotta dell’euro) pagato a una integrazione di cassa che si è arrogantemente e ciecamente insediata come autosufficiente, liquidando come irrilevante l’integrazione di testa (politica) e di cuore (storico) delle cittadinanze. è l’ora che le élite culturali europee scendano dal loro «land of dreams» di nobile superiorità nei confronti della volgarità delle «superstizioni» populiste e promuovano dinamiche popolari di pluralizzazione mediatrice del processo di integrazione: senza l’innesto in un inclusivo e storicamente consapevole matriottismo intercomunitario, il patriottismo razionalisticamente esclusivo di un astorico centralismo comunitario resterà una nobile scommessa priva di futuro.
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