CGIL e tabù

Si chiama tabù, qualcosa di cui non si può parlare. Nel linguaggio comune e in quello degli addetti ai lavori: sono tabù idee, oggetti, azioni il cui contatto è ritenuto pericoloso, quindi da evitare. Meglio non parlarne e ovviamente chi lo fa va immediatamente sotto processo: ha infranto una delle regole cardine della comunità. La comunità coltiva il tabù e ne assicura il rispetto. Nel nostro caso la comunità è il ceto politico della vecchia sinistra italiana, quello erede della tradizione e della cultura più conservatrici del PCI e del massimalismo socialista. Il tabù è la critica di un giornale di sinistra, vicino al partito di sinistra che guida il governo, al sindacato della sinistra per antonomasia, la CGIL. La discussione è di queste ore e già sono scesi in campo i custodi del tabù, a difesa della comunità minacciata. Cosa si è detto di grave da far ritenere violato il tabù? Apparentemente nulla ma il tabù è minacciato per il semplice fatto di essere entrati in contatto con l’idea che la CGIL sia sulla strada sbagliata. Apparentemente nulla ma l’inganno potrebbe essere prossimo ad essere smascherato. E dunque occorre alzare il tiro: di pesanti errori della CGIL non si può parlare, meno che mai ne può parlare criticamente un giornale di sinistra che fiancheggia un partito di sinistra al governo. La CGIL di Camusso non ha quasi più nulla a che fare con quella dei Lama e dei Trentin, è questa l’idea che minaccia il tabù. E’ questo il giudizio semplificatorio ma veritiero emesso dal giornale. Lama e Trentin sfidavano l’opinione pubblica interna alla CGIL e il ribellismo di piccoli gruppi per tutelare gli interessi di chi lavora, non importa quale fosse il governo in carica o la politica esaurita da archiviare. Camusso e la sua CGIL al contrario cavalcano gli interessi degli opinion maker e di piccoli gruppi per obiettivi esterni al sindacato: criticare un leader politico e sostenere una fazione interna al PD. E’ come se con il partito a vocazione maggioritaria della seconda repubblica ci si potesse regolare come ci si regolava con i partiti identitari di massa della prima. Con la differenza, a peggiorare le cose, che quei partiti custodi dell’identità avevano bisogno della CGIL per rendersi permeabili mentre ora questo mestiere (e giustamente) il PD lo fa in proprio. Un dato dunque apparentemente indiscutibile, la CGIL come corrente del PD all’opposizione interna, finisce con grande scandalo in un editoriale de l’Unità. Ma il tabù è così: non è sottoponibile a falsificazione, non può essere smentito dai fatti. E’ tabù e basta. I suoi tutori sono lì a guardia del tabù non certo della verità dei fatti. E il tabù è quello: impossibile criticare la CGIL da posizioni di sinistra di governo. La vecchia sinistra italiana (che si vuole ahinoi anch’essa di governo) ancora una volta viaggia con venti anni di ritardo. E neppure dopo venti anni ha ingranato la marcia giusta. I laburisti inglesi hanno chiuso con il tabù del sindacato nel 1994, aprendosi la strada a 13 anni di governo. La sinistra riformista italiana ha impiegato 30 anni (dal referendum sulla scala mobile del 1985 al jobs act) per vincere da sinistra la battaglia sulla tutela del lavoro e non del posto di lavoro. Anche nel sindacato però si è cominciato a capire che coltivando tabù come questo si finisce sul binario morto dell’irrilevanza, proprio quando ci si sta per convincere che custodire i tabù rende più forti. Tanto da far dire a leader innovatori come Marco Bentivogli che non possiamo fare a meno del sindacato ma dobbiamo fare a meno di una linea sindacale conservatrice, difensiva e autoreferenziale. Il pluralismo abbatte anche i tabù.

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