una interessante riflessione sul Concilio.

Con il Vaticano II la Chiesa anticipò la modernità del mondo globale

di Giuseppe De Rita e Luca Diotallevi

Nel cinquantesimo anniversario del Concilio ci avviamo verosimilmente verso un ulteriore momento di confronto - tutto interno al mondo cattolico - fra progressisti e conservatori, cioè fra chi considera sempre più attuale quella mobilitazione di fede collettiva che il Concilio avviò; e chi considera invece necessario un anche crudo revisionismo delle scelte conciliari. Quanto è successo alla recente morte del cardinale Martini non fa prevedere nulla di nuovo.

Forse è giunto il momento di prendere atto di quanto stia diventando inutile rimestare «da dentro» l'andamento e gli esiti della svolta conciliare. Crediamo sia più giusto guardarli anche «da fuori», cercando di capirne le relazioni con l'evoluzione complessiva della società del ventesimo secolo, nella progressiva autocomprensione della Chiesa non più come societas perfecta , ma come mistero e sacramento. E da questo angolo visuale si colgono subito tre coincidenze temporali e tre insegnamenti strutturali.

Ci sono anzitutto coincidenze temporali importanti, pur senza star qui a discutere su chi ha anticipato l'altro fra Chiesa e dinamica socioeconomica mondiale. La prima riguarda la accettazione della globalizzazione. A parte le guerre mondiali e le relative conferenze di pace, all'inizio degli anni Sessanta non c'era nella cultura che si diceva moderna la consapevolezza del carattere sempre più globalizzato dei fenomeni, dei problemi, delle decisioni da affrontare; in questo deficit di cultori aver convocato un evento così impressivamente globale come il Concilio fu un atto non solo di profezia ecclesiale ma anche di collettiva e laica consapevolezza planetaria. La seconda coincidenza riguarda il fatto che il Concilio, forse per andar contro la ferrea logica piramidale della gerarchia cattolica, si rivelò una assise segnata da una grande molteplicità di variabili e di responsabilità (socioculturali oltre che religiose); e divenne quindi una proposta forte di un modello di governo di tipo policentrico, ad architettura distribuita del potere, su cui non a caso si va misurando oggi tutta l'evoluzione degli apparati istituzionali, nazionali e internazionali. E la terza coincidenza risiede nel fatto che, come tutte le riforme vere, il Concilio fu «slegamento dei soggetti», orientamento di cui fanno testimonianza sia quella secolarizzazione soggettiva e di massa che contraddistingue gli ultimi decenni (e che qualcuno, in sacrestia, ha addirittura addebitato al Concilio), sia una proliferante soggettività ecclesiale - anche di tipo associativo - che rende oggi articolata e ricca la quotidiana presenza della Chiesa.

Non mette conto, lo ripetiamo, star a discutere su chi è arrivato prima, fra Chiesa e società moderna, a coltivare la dimensione globale, quella policentrica e quella soggettiva del mondo in questo passaggio di secolo. Quel che importa è che, dopo tanti secoli, la Chiesa non è andata a rimorchio          della cosiddetta modernità, si è misurata nel Concilio con gli stessi parametri di riferimento cui si rifanno tutti i più dinamici sistemi sociali.

Ma c'è qualcosa di più delle coincidenze temporali, c'è anche una elaborazione culturale complessa che si è esercitata e si è sviluppata nel Concilio e che può essere di insegnamento per tutti i grandi soggetti storici oggi operanti nel mondo. Il primo di tali insegnamenti è stato di sapere sviluppare un policentrismo governato (fuori dei pericoli di inerzia tipica dei sistemi a troppi poteri). Il Vaticano II è stato un grande tentativo di fare governo senza sovranità. I pastori di comunità locali che si riunivano in San Pietro, lo facevano per decidere; non per protestare né per delegare, ma per prendersi delle responsabilità su cui sapevano di possedere potere da spendere. Altrimenti non sarebbe seguito così tanto governo della Chiesa, dalla riforma della liturgia alla riforma del diritto canonico. La seconda lezione è stata quella di avere lavorato in una logica di continuità con la grande tradizione storica della Chiesa, di «continuismo» si dovrebbe dire, se il termine non avesse assunto valenza negativa. Il Concilio scelse la via lenta e media,      la via che introduce ai cambiamenti più profondi, quelli che il conservatorismo nega o rimanda, quelli che il massimalismo ingenuo o ipocrita non si sogna neppure di conseguire. Chi sceglie la riforma nella continuità scopre che con tale scelta le risposte possono arrivare prima delle domande, le soluzioni prima dei problemi. Così, anche nella Chiesa, gli sprovveduti, quando sono arrivati i problemi, li hanno interpretati come il fallimento di quelle soluzioni che invece solo allora mostravano tutto il proprio valore. E la terza grande lezione sociopolitica (e di vera teologia politica) del Concilio sta nel superamento dell'idea che ci fosse una società perfetta, una polis ben governata, interpretata nei secoli dallo Stato e/o dalla Chiesa.

Con il Concilio questa illusione di perfezione scompare ed oggi la cosa è ancor più evidente per la perdita di sovranità che colpisce tutti i soggetti istituzionali esistenti. Se non c'è più sovranità non c'è più polis, non c'è più società perfetta: c'è solo «civitas», la formazione progressiva di un'identità collettiva figlia di condivisione e non di sovrapposto disegno ideologico o confessionale. Lezione straordinaria se si vuole affrontare con cultura adeguata il pericolo di nuovi fondamentalismi, anche civili e non solo religiosi.

Riflettiamo quindi laicamente e storicamente sul Concilio, orgogliosamente consapevoli, noi cattolici, di esser portatori non solo di una fede privata, ma di una visione dal mondo che aiuta tutti a capirlo e gestirlo, in una crescente coscienza della sua complessità.

Corriere della Sera, 12.10.2012

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