Un testo di Antonio Preiti- come il Pd non cambiò l'Italia
COME IL PD NON CAMBIO’ L’ITALIA Per fare dell’Italia un paese moderno, competitivo, con un benessere crescente non c’è una sola formula, ma un ostacolo comune: il suo assetto corporativo. A ben guardare è proprio il corporativismo, una delle eredità meno sottolineate ma più incidenti del Fascismo, che alimenta, praticamente e ideologicamente, alcuni dei mali dell’Italia. Tutte le categorie professionali, quelle sociali e persino i soggetti imprenditoriali di una certa rilevanza è come se fossero accostati uno all’altro senza nessuna ambizione che non sia la difesa (o la espansione) del proprio potere in chiave corporativa. Abbiamo tutti in mente i tassisti (il cui orizzonte d’ambizione non è neppure lontanamente l’ottimo servizio per la città, nonostante il loro ruolo pubblico, ma solo la conquista delle tariffe più fruttuose) ma se guardiamo ad altre categorie: i sindacati, ad esempio, che difendono i loro iscritti e non si occupano di chi non è tesserabile, come gli inoccupati; i magistrati; i commercianti; gli insegnanti, si trova sempre che ciascun gruppo abbia (quasi) il solo obiettivo di rafforzare il proprio potere corporativo. L’impatto del raggiungimento degli obiettivi corporativi sull’assetto generale del Paese è un fatto residuale, cui fare attenzione nei discorsi dei convegni, nei documenti ufficiali e poco o nulla più. Si potrebbe obiettare che è naturale che ogni categoria ragioni così, diciamo in chiave corporativa. Un po’ è naturale, anche se non del tutto (ma su questo non ci si sofferma), ma se la politica, cioè la composizione di uno schieramento, la definizione di una linea di politica economica, di un assetto di potere, è solo l’accatastare una combinazione di interessi corporativi, siamo ancora in una situazione fruttuosa per il Paese o non siamo sulla via del non ritorno rispetto allo sviluppo? Pensiamo se la rivoluzione industriale in Inghilterra fosse stata impedita dagli interessi dei rentier agricoli; pensiamo se l’automobile fosse stata impedita nel suo sviluppo dagli interessi ferroviari; se lo sviluppo della stampa fosse stato impedito dagli interessi degli amanuensi. Sembrano paragoni abnormi, ma se li riportiamo alle nostre piccole cose dell’oggi, magari troviamo che magari le ferrovie dello stato ostacolano accessi ferroviari rapidi e comodi agli aeroporti; troviamo che gli ordini professionali impongano i minimi prezzi per legge per impedire la concorrenza dei professionisti più giovani; troviamo che i professori universitari non vogliono nessun esame in tutta la loro vita per evitare di confrontarsi con giovani che ne sanno più di loro. L’elenco potrebbe continuare: i tassisti non vogliono i noleggi con conducente; i farmacisti non vogliono la concorrenza delle parafarmacie; le telecom non vogliono che si facciano telefonate su internet e così via. Perciò mentre è legittimo che ogni categoria persegua i suoi interessi (magari non in chiave corporativa, ma con mentalità aperta) sarebbe comunque da attendersi che la politica, almeno quella, avesse uno sguardo e un centro nel bene comune (magari con ricette alternative in concorrenza tra loro) e non si presentasse, essa stessa, come corporazione, come ceto professionale, il cui contenuto sarebbe semplicemente quello della gestione del consenso (o di quel che ne rimane) e della conseguente amministrazione delle risorse pubbliche. Se anche la politica diventa una corporazione (e i segnali in questo senso sono notevoli, si pensi semplicemente alle votazioni nella recentissima legge di riforma universitaria, quando un emendamento che voleva spostare risorse dal finanziamento dei partiti ai ricercatori, pur condiviso ipocritamente dai capi dei partiti, è stato poi affondato in aula dal voto dei parlamentari) cosa rimane della politica? Una rottura dell’assetto corporativo del Paese poteva essere annoverato tra i migliori risultati a cui il sistema elettorale bipolare avrebbe potuto portare: Se si vince o si perde, la smania corporativa della politica sarebbe un non senso o almeno depotenziata. Ma non ci siamo, almeno finora, nel raggiungimento di questo obiettivo. Proviamo a ragionare, utilizzando questo punto di vista anti-corporativo, la vicenda del Partito Democratico e ad alcune caratteristiche della sua nascita: 1. Un partito di proprietà degli elettori e non degli iscritti è già una rivoluzione anti-corporativa in quanto cancella la differenza tra chi si occupa permanentemente di politica (professionalmente?) e chi lo fa saltuariamente; 2. Un partito che sceglie la classe dirigente con le primarie è già un altro antidoto anti-corporativo: se uno deve comunque passare attraverso una prova aperta, libera, popolare, deve appellarsi alla generalità degli elettori e non alla somma/combinazione delle combinazioni di ceto; 3. Un partito in cui la classe dirigente è fondamentalmente quella espressa dagli elettori, cioè eletta negli organismi pubblici (Parlamento, consigli regionali, comunali, ecc.) e non quella nominata all’interno del partito (chi ricorda come nell’Unione sovietica comandava il segretario del partito non il capo dello stato o del governo, di cui si ignorava persino il nome?) è un altro fondamento che mina alla radice l’assetto corporativo del Paese. Ma che fine hanno fatto questi tre pilastri? Sono svaniti, tra l’ipocrisia di chi ha fatto finta di condividerli in un primo momento per dimenticarli o abbatterli subito dopo e l’inefficacia nell’affermarli da parte di chi li condivideva. Perché sono svaniti? La ragione fondamentale è perché mette in crisi proprio l’assetto corporativo di quella parte del ceto politico che alloggia sotto la label Partito Democratico. Non ci sono altre spiegazioni plausibili. Perché l’interesse astratto del Partito democratico o del paese per suo tramite, avrebbe voluto, anzi preteso, un atteggiamento aggressivo, massimamente includente di quel partito e, invece, la vulgata cui assistiamo è un progressivo restringimento delle sue ambizioni: passate da una lotta per l’egemonia a una “lotta” per conquistare alleati. Una bandiera bianca rispetto alle funzioni nazionali e generali. Si potrebbe obiettare che Berlusconi, che aveva esordito con una ipotesi da partito liberale di massa, si è poi dimostrato il migliore assemblatore di interessi corporativi senza sguardo generale al futuro del Paese. Allora ciò che sembra molto distante, è invece molto vicino: tanta pate della politica si muove e si fa assemblare come interesse di categoria, di ceto e perciò stesso finisce di sviluppare qualunque ambizione di rappresentanza generale. Insomma il male di uno, come si vede, non annulla il male dell’altro, ma tende semmai a copiarlo. Antonio Preiti
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