Si alle garanzie, no ai poteri di veto
Vogliamo tutti un governo più responsabile che decida velocemente affrontando i problemi, che possa essere giudicato per quello che fa e quindi confermato o sostituito per decisione degli elettori. Allo stesso tempo vogliamo che la sua azione e le sue decisioni siano controllate, che i suoi poteri abbiano contrappesi forti, che insomma la sua azione sia equilibrata dai necessari bilanciamenti. Se questo è vero dobbiamo rassegnarci: occorre modificare il rapporto tra Governo e Parlamento che la costituzione del 1948 disegnò principalmente allo scopo di accrescere i poteri di controllo e di veto su quelli di decisione. C’era infatti da dare tranquillità e serenità in un clima che era fatto invece di sospetto di tutti contro tutti: una scelta saggia ma inevitabilmente troppo storicamente condizionata. Cambiato il clima si debbono cambiare i contenuti di quella scelta. Un’altra indispensabile premessa. Per avere un governo più efficiente dobbiamo togliere a chi lo guida ogni alibi e ogni giustificazione. Dobbiamo cioè evitare che chi governa scarichi la responsabilità della non decisione su altri, sui partiti, sul parlamento, sui gruppi parlamentari, sui presidenti delle camere e così via. Occorre però ricordare un punto: nelle democrazie contemporanee la dinamica tra potere e controllo non si volge più tra governo e parlamento. Non siamo più agli albori del costituzionalismo quando i parlamenti espressione delle borghesie in ascesa garantivano dalle interferenze dei governi dei monarchi. Siamo nella democrazia matura, nell'era post partito di massa nella quale si eleggono maggioranze parlamentari e governi per realizzare un mandato elettorale sotto il controllo dell’opposizione. E per consentire all'elettorato sovrano di giudicare l’azione dei governi e delle loro maggioranze. Abbiamo qui il segreto del funzionamento delle democrazie parlamentari contemporanee: la stretta relazione, quasi la fusione in un certo senso, tra il governo e sua maggioranza fronteggiati dall'opposizione e non più il governo fronteggiato nel suo insieme dal parlamento. E da questo scaturisce la terapia per raggiungere il nostro principale obiettivo, rendere il governo più responsabile: ridurre la conflittualità tra governo e sua maggioranza dando al governo strumenti efficaci e rafforzando i poteri dell’opposizione, senza ovviamente cancellare il ruolo costituzionale del Parlamento. La riforma costituzionale per cui andiamo a votare il 4 dicembre fa esattamente questo. Con i dovuti compromessi - per fortuna il diritto, anche quello costituzionale, non è scritto dai costituzionalisti o dai politologi - la riforma razionalizza i poteri del governo in parlamento, riduce alcuni degli eccessi registrati negli ultimi decenni e rafforza i poteri dell’opposizione. E lo fa con poche semplici disposizioni, in parte riprese da quello che negli anni hanno detto i giudici della Corte costituzionale su questi argomenti. Innanzi tutto comincia con il limitare il potere del governo di fare decreti legge. Il potere cioè di fare atti che hanno la stessa forza della legge per poi chiederne la convalida al parlamento entro 60 giorni, mettendo spesso il parlamento nella condizione del prendere o lasciare o imponendogli di accettare il decreto attraverso la clava della questione di fiducia. Con la riforma il governo potrà farlo solo nei casi di effettiva necessità e urgenza, dovrà farlo solo per materie omogenee e non approfittarne per inserire nei decreti “normette” di favore per questo o quest’altro interesse, non potrà farlo per riportare in vita decreti decaduti. Quindi poteri del governo più circoscritti e controllabili. Allo stesso tempo la riforma, proprio allo scopo di consentire il riequilibrio tra governo e parlamento richiesto dai tempi e consolidare l’allineamento tra governo e sua maggioranza, consente al governo di ottenere dal parlamento l’approvazione di una proposta essenziale per l’attuazione del suo programma in tempi certi. L’obiettivo è smontare i poteri di veto che impediscono decisioni anche importanti per tutelare interessi di piccoli gruppi, consentendo quindi decisioni più veloci ed efficaci. E per finire la riforma va al cuore del funzionamento dei sistemi parlamentari moderni, intervenendo sulle prerogative dell’opposizione che acquista così un rilievo costituzionale oltre il tradizionale gioco tra parlamento e governo. E lo fa solo per la Camera dei deputati a dimostrazione del fatto che il gioco nel nuovo Senato delle autonomie non si svolgerà tra maggioranza di governo e opposizione ma tra gli interessi dei diversi livelli di governo, stato, regioni, città e comuni. Nessun uomo solo al comando dunque ma una ordinata e coerente razionalizzazione dei poteri del governo in parlamento. Nulla di più e nulla di diverso, forse qualcosa in meno, di quanto avviene in tutte le democrazie parlamentari cui guardiamo spesso con invidia in ragione del loro disporre di governi solidi, maggioranze di governo coerenti, opposizioni forti ed elettori cui è rimesso il giudizio finale. Il cittadino come arbitro diceva Roberto Ruffilli, un padre intellettuale di questa riforma stroncato dai colpi di pistola del brigatismo.
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