Scongiurare lo stallo
La recente sentenza della Corte costituzionale sulla legge di riforma della pubblica amministrazione, la cosiddetta legge Madia, tiene banco da qualche giorno sui media. Si è detto che la Corte bacchetta il governo a dimostrazione di come le sue riforme siano scritte male e soprattutto incostituzionali. Un monito dunque per chi si appresta a votare si alla madre di tutte le riforme, quella costituzionale. In realtà le cose non stanno così e come vedremo questa sentenza finisce con l’essere un indiretto sostegno alle ragioni della riforma costituzionale. La sentenza boccia la legge Madia per due principali ragioni, entrambe collegate con la questione dei rapporti tra Stato e Regioni. Innanzi tutto la legge regola nel dettaglio una serie di materie - lavoro nelle pubbliche amministrazioni, servizi pubblici locali, aziende pubbliche - che sono per varie ragioni in condominio tra Stato e Regioni, invadendo così lo spazio delle Regioni. In secondo luogo la legge sbaglia nel non prevedere un’intesa tra lo Stato e le Regioni - intesa che tendenzialmente dovrebbe raccogliere l’unanimità - che possa ovviare all’intreccio inestricabile di competenze, dando così alle Regioni la possibilità di dire la loro. La Corte si arrampica un po’ sugli specchi tentando di rimediare alle incertezze della riforma del 2001, concepita in fretta e furia per contenere l’espansione elettorale della Lega e comunque priva della sua gamba istituzionale: la rappresentanza degli interessi delle Regioni in Parlamento. E la Corte infatti dice di essere costretta ad arrampicarsi proprio in ragione di questa mancanza. Ad oggi tuttavia cosa spetta allo Stato e cosa spetta alle Regioni? E cosa succede quando la distinzione è molto difficile a farsi? Tutte le soluzioni adottate lasciano insoddisfatti alternativamente lo Stato – che ritiene di dover stabilire regole valide per tutto il paese – e le Regioni che ritengono ingiustamente invasa la loro autonomia. Ed è proprio a questo stallo che la riforma costituzionale per cui andiamo a votare il 4 dicembre cerca di porre rimedio, eliminando materie in condominio, riportando allo Stato materie che se non trattate in modo unitario rischiano di produrre segmentazioni, rendite di posizione, ingiusti vantaggi e stabilendo confini certi per le materie di competenza regionale. Ma non basta. Una Repubblica delle autonomie come la nostra genera inevitabilmente tensioni nella ripartizione dei compiti tra Stato, Regioni, Città e Comuni. La stanza di compensazione di queste tensioni è ora relegata allo spazio della Conferenza Stato Regioni e Città, un organismo sostanzialmente amministrativo che opera quasi del tutto al riparo dei riflettori dell’opinione pubblica e nel ristretto mondo degli addetti ai lavori. E’ qui infatti che andrebbero siglate le intese richieste dalla Corte nella sentenza, per altro con una certa qual spregiudicatezza considerando che così si conferisce un potere di veto ad un organo che non è neppure previsto dall’attuale costituzione. Anche qui la riforma Renzi interviene a sanare i difetti della situazione attuale con uno dei suoi punti qualificanti, la riforma del Senato e la nascita di un Senato delle autonomie. Sarà quella la sede del confronto preventivo tra Stato, Regioni e Città senza che tuttavia nessuno possa arrogarsi poteri di veto: l’interesse dei governi regionali e locali entrerà dalla porta principale nel circuito decisionale, sotto il pieno controllo dell’opinione pubblica. Con la riforma costituzionale dunque si pongono le basi per non ripetere il blocco di processi di cambiamento come quelli avviati dalla riforma Madia. Resta un interrogativo sulle motivazioni della sentenza della Corte che in questa occasione – con dieci righe - ha cambiato parere rispetto ai suoi orientamenti precedenti sullo stesso tema, un cambiamento decisivo per arrivare a dichiarare incostituzionale la legge. Come si può in questi casi utilmente ed equilibratamente esercitare il necessario scrutinio dell’opinione pubblica sulle sentenze? In altri sistemi si sono messi a punto marchingegni che consentono di raggiungere questo obiettivo. Un pieno scrutinio ad esempio su competenze, orientamenti culturali, biografie dei giudici allo scopo di comporre un quadro più esatto dei presupposti del loro lavoro, accanto all’introduzione di una regola di trasparenza per cui le opinioni in dissenso all’interno della Corte sono motivate e rese pubbliche. I poteri devono essere bilanciati e valutabili, sempre. Ora tuttavia il punto è finire il lavoro che gli elettori hanno cominciato 25 anni fa chiudendo la pagina della Repubblica dei partiti nella quale l’arte del non governo aveva preso il sopravvento. E come il caso della riforma Madia dimostra, la riforma costituzionale per cui andiamo a votare il 4 dicembre mette un primo punto fermo per finire quel lavoro. Un punto fermo che non esclude aggiustamenti e correttivi in sede di attuazione.
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