Rileggere Bachelet quarant’anni dopo, di Stefano Ceccanti

Oggi 12 febbraio 1980 ricorrono i quarant’anni dell’assassinio
del professor Vittorio Bachelet nella Facoltà di Scienze Politiche
dell’Università La Sapienza ad opera delle Brigate Rosse.
Molto si potrebbe dire su Vittorio Bachelet, in quel momento
oltre che docente universitario anche vice-presidente del Consiglio Superiore
della Magistratura ed in precedenza condirettore del periodico della Fuci
“Ricerca” sotto la presidenza di Alfredo Carlo Moro e Presidente dell’Azione
Cattolica Italiana negli anni del Concilio Vaticano II. Una delle personalità
chiave di quello che è stato definito il cattolicesimo democratico, che è stato
particolarmente colpito dal terrorismo brigatista, come dimostrano anche i casi
di Aldo Moro, di Piersanti Mattarella e Roberto Ruffilli. “Uccidono sempre gli
stessi”, fu il commento di Nilde Jotti a Maria Eletta Martini alla Camera dei
Deputati il giorno dell’uccisione di Ruffilli. Rinvio per completezza al
profilo tracciato dal professor Fulco Lanchester nel Dizionario Bibliografico
Treccani, leggibile anche on line.
Per questa occasione, per non ripetere cose scontate o che
altri potrebbero dire molto meglio, ho pensato di rileggere il volume di
Scritti Civili curato da Matteo Truffelli e pubblicato dall’Ave nel 2005 e devo
dire che l’ho trovato particolarmente attuale.
Il messaggio più forte che se ne ricava è quello di un superamento del nazionalismo esclusivista con una piena accettazione delle opzioni atlantica ed europea. Un dato per niente scontato in quella fascia generazionale in cui tra i giovani cattolici socialmente più aperti, compresi vari costituenti, notevoli erano le riserve sul rapporto stretto con gli Stati Uniti d’America (che si sarebbe rivelato alla distanza una scelta capace di integrare tutte le forze politiche democratiche), in particolare tra i dossettiani e i gronchiani, che si sommava alla diversa opposizione dei settori della destra curiale. Com’è noto, pur allineandosi nel voto finale d’Aula, questi settori espressero chiaramente le loro riserve nel dibattito interno al gruppo democristiano.
Ma non era più tempo per Bachelet, né in chiave progressista
né conservatrice, di opporsi a questo duplice legame, anche a quello atlantico.
Ciò avrebbe di fatto significato, al di là delle intenzioni, riproporre “un
residuo di venerazione per questo mito della assoluta sovranità nazionale, in
cui si assomma il mito dello Stato inteso come valore assoluto e il mito della
nazione ritenuta necessariamente e in perpetuum come autosufficiente
politicamente” (“La patria nella comunità internazionale”).
Era invece tempo per Bachelet di praticare il principio di
sussidiarietà anche all’idea di Patria in una chiave, come diremmo oggi,
multilivello: “La patria può essere il nostro paese..la nostra città, la nostra
regione; può essere la nostra nazione radicata in un territorio e coincidente o
non con lo Stato; può essere lo Stato stesso ma può essere una comunità di
Stati; può essere (anche se man mano che i confini si dilatano può sembrare più
difficile riconoscere negli uomini un vero e proprio sentimento di amore
patrio) la comunità di tutti gli uomini” (Ivi).
Soprattutto è l’Europa che va coltivata come “una comunità
politica” poiché essa, appunto sulla base del principio di sussidiarietà, in
questo caso verso l’alto, è “di dimensioni adeguate alla realizzazione del bene
comune dei popoli europei nella situazione attuale del mondo” (Gioventù
europea”).
Questo messaggio di fondo non portava comunque Bachelet a
dogmatizzare le concrete istituzioni che si creano in un processo
necessariamente dinamico e di lunga prospettiva: “le forme che storicamente
hanno tentato di organizzare questa comunità su piano giuridico si sono
dimostrate finora, com’è naturale data la complessità del problema, del tutto
imperfette..Ciò ha prodotto nella opinione pubblica una certa sfiducia e un
certo scetticismo..ma questo scetticismo..non riesce spesso a vedere che più
che di inutilità delle organizzazioni internazionali dovremmo parlare di incapacità
degli Stati nazionali a superare anche politicamente, e sia pure con la dovuta
gradualità, una misura che quasi in tutti i casi è stata superata sia nel campo
economico sia in quello più strettamente industriale, in quello demografico
coma in quello ilitare; e perfino..scientifico” (La patria..,cit).
Del resto era il medesimo pragmatismo con cui Bachelet si
rapportava allo scarto, alla “notevole differenza” tra le due parti della
nostra Costituzione: la prima “innovatrice e talora audace” e la seconda “ferma
a un’impostazione di tipo pre-fascista, inadeguata quindi alle funzioni nuove
dello Stato” (“Crisi dello Stato”).
Del resto Bachelet aveva preso a modello nel suo slancio
ideale il “senso concreto del possibile e del giusto” di Alcide De Gasperi che considerava
il suo modello di riferimento.
Quel senso concreto nel segno di una capacità riformista, di
aggiornamento profondo della cultura e della politica che gli schemi ideologici
chiusi del terrorismo individuarono allora, non a torto, come ad esso radicalmente
alternativo.
Quel senso che dobbiamo riscoprire qui ogni giorno, come
nostro dovere comune.
Commenti (0)