Renzi, Mogherini e la politica internazionale

Con una specie di escalation editoriale The Economist degli ultimi mesi ha sostenuto l’urgenza di una posizione ferma e decisa delle democrazie occidentali sulla questione ucraina. Ha cominciato il primo marzo richiamando l’occidente a sostenere la nascita e il consolidamento dei regimi democratici, un vero terrore per Putin, mettendosi “dalla parte giusta” nel conflitto tra democrazie e autoritarismo. Nella settimana successiva ha richiamato la NATO a un impegno più forte nell’immediato per evitare conseguenze spiacevoli in futuro, senza farsi irretire dal presunto ruolo negoziale della Russia sui dossier Siria e Iran. D’altra parte il ruolo di Putin nel fomentare la guerra in Siria e il suo fare carta straccia dell’accordo che garantiva l’intangibilità dell’Ucraina in cambio della sua rinuncia al nucleare la dicono lunga sulla sua affidabilità negoziale. Ancora alla fine di marzo Economist è tornato sul ruolo decisivo della NATO, sull’impossibilità di ogni “wait and see” per evitare possibili drammatici scenari pensando ai paesi baltici, incluso quello di una escalation per rispettare i patti fondativi che chiedono di trattare l’aggressione a uno Stato membro come un’aggressione a tutti. E ancora la NATO è al centro dell’ultimo numero di aprile: è la NATO lo strumento con il quale far capire a Putin che l’occidente non è disposto a tollerare arretramenti sul fronte della democrazia e delle libertà individuali. Per farglielo capire oggi anche allo scopo di evitare tensioni molto più pericolose domani. Putin non si muove infatti dentro un quadro di realistico mantenimento dello status quo: opera al contrario per un suo mutamento. Nella direzione sbagliata. Per questo ha bisogno di destabilizzare l’Ucraina, agitando il tema delle minoranza russofone, nascondendosi dietro referendum fasulli, violando i patti sottoscritti. Foreign Affairs segue una strada simile parlando di nuovo containment, fatto di segnali militari in ambito NATO e di massicci interventi economici in ambito UE e FMI. Cedere sperando di portare a casa buoni risultati su altri tavoli negoziali, immaginando un più ampio gioco nel quale tutti guadagnano qualcosa, non sembra dunque un quadro realistico per questi osservatori. E dire che un pragmatico realismo ha da sempre guidato il loro modo di pensare. In altre parole non c’è da scomodare l’interventismo liberale e la dottrina del nuovo ordine mondale per reclamare una posizione energica sulla crisi ucraina. Quell’interventismo liberale e democratico che è invece ancora dietro – benché ripensato e adattato – l’ampio e articolato intervento con cui Tony Blair è tornato qualche giorno fa a porre al centro dell’attenzione lo scacchiere mediorientale e la questione dell’islamismo totalitario. Una questione unita a quella ucraina dalla minaccia che essa pone alle società aperte, al pluralismo, alla libertà religiosa e alla globalizzazione di questi processi. In questo contesto la difesa di Israele diventa cruciale, il ruolo della NATO per la stabilizzazione della Libia va ripreso, un’azione per l’affermazione di una no fly zone in Siria deve essere resa immediatamente disponibile, la destabilizzante influenza iraniana in tutta l’area contrastata e non scambiata con incerte promesse negoziali sul nucleare. Un Blair per altro disposto a riconoscere il ruolo della Russia nella soluzione dei problemi del medio oriente, con l’effetti di sottovalutare pesantemente i rischi del nazionalismo russo sullo scacchiere dell’est europeo. Due episodi, The Economist e Tony Blair, tra loro diversi che appaiono tuttavia assai distanti dalla lunga intervista concessa dalla ministra Mogherini qualche giorno fa a Il Foglio, e dai più ignorata. Un’intervista nella quale abbonda invece una posizione attendista anche se non passiva, in qualche passaggio per la verità quasi neutralista – l’esaltazione dell’asse Roma-Berlino, ad esempio, è tutto giocato in questa chiave - certo di grande continuità con la politica estera dell’Italia, ma che sarebbe difficile non catalogare come andreottiana. Lei la definisce invece “dottrina Leopolda”. Ecco dunque una lunga sequenza di “non ci sono buoni e cattivi” ma solo situazioni complesse nelle quali cercare l’interesse comune, cioè la possibilità di mettere in piedi giochi win-win. “Bisogna coinvolgere l’Iran” e responsabilizzarlo per stabilizzare l’intera regione, basti pensare a “come stanno andando bene i negoziati sul nucleare” in vista dell’accordo definitivo dopo quello transitorio dello scorso anno. “E’ un errore stare con o contro Israele a prescindere”, bisogna invece valutare le singole decisioni, i cambiamenti di leadership, le dinamiche interne del paese. “La Russia non va combattuta, ogni strategia punitiva comprese le sanzioni come unico strumento è un passo indietro”, occorre invece puntare al coinvolgimento e al dialogo. “Non è la NATO lo strumento più utile per risolvere la crisi ucraina”, che anzi rischia di apparire come uno strumento antagonistico. “La parola NATO non può essere usata per spaventare qualcuno” o, peggio, per sostenere strategie solo militari di regime change, “un termine che non piace”.  Mogherini appare, e dichiara anche di essere, una seguace dell’obamismo realista e pragmatico, con il quale prendere congedo definitivamente dalla stagione del nuovo ordine mondiale e da quella successiva dello scontro di civiltà. Ma soprattutto dall’interventismo liberale e democratico degli anni Novanta, “perché la protezione di popoli vessati con mezzi militari non è la soluzione. Il mondo è cambiato”,  la vera alternativa alla politica della sinistra continentale europea. C’è da restare un po’ perplessi. La matrice dalemiana di Mogherini è certamente nota, quel richiamarsi nel passaggio finale dell’intervista al “noi progressisti” è una specie di certificazione doc. La sua militanza nella sinistra giovanile dei DS altrettanto. Come pure la sua preparazione, la sua competenza e il suo studio attento dei dossier. C’è quindi da ritenere che l’intervista rappresenti il frutto di un pensiero organico e non la somma di posizioni contingenti. La domanda politica è dunque: è questa la posizione del PD, di Renzi e del suo governo? Alla Leopolda la pensavano esattamente come Mogherini? Chi ha votato Renzi alle primarie l’ha fatto per queste posizioni di politica internazionale? Ma volendo indagare un po’ più a fondo, l’autoiscrizione di Mogherini all’obamismo – al di là dell’adesione ideologica come presa di distanza dall’interventismo degli anni Novanta – è fondata o stiracchiata? Alle prime domande è difficile rispondere. La concentrazione di Renzi su issue di politica nazionale e in parte europea ha messo in ombra le sue posizioni di politica internazionale. Sull’insieme degli scacchieri internazionali la posizione del suo governo appare ancora oggi vaga e attendista, più ispirata a ragioni elettorali di politica nazionale – gli F35 – che a una visione che possa far parlare di qualcosa come una dottrina. Il PD, Renzi e la Leopolda non sembra ci aiutino granché a trovare risposte. Dubito per altro che quella parte decisiva di elettorato fluttuante che ha votato Renzi per le primarie condividesse questa linea vaga e attendista. Ma la questione di fondo è il rapporto con l’obamismo e la politica estera americana. Tanto per cominciare possiamo chiederci cosa significa ispirarsi oggi ad Obama. In altri termini quale Obama prendiamo in esame come elemento di confronto? Quello che ha cambiato le cose o quello che ha agito in continuità? Quello che ha avuto successo o quello che è rimasto al palo? Quello che ha chiuso con Irak e Afghanistan o quello dei droni e dell’operazione Osama bin Laden? Quello del resetting delle relazioni con la Russia o quello della sconcertante gestione dei dossier sulla Siria e sull’Egitto? Quello dell’azione militare in Libia o quello dello stallo sul conflitto tra la democrazia israeliana e il terrorismo islamico? Quello del containment dell’Iran o quello dell’appeasement nucleare – e del non regime change - in cambio della stabilizzazione regionale? L’Obama pragmatico e competente o l’Obama pragmatico e titubante? Insomma siamo sicuri che la dottrina Leopolda tenga insieme tutto l’obamismo? Quello militare che conferma un mondo unipolare, quello economico che sfida con massicce proposte di liberalizzazione un mondo multipolare e quello civile che mette insieme cooperazione e apertura con intelligence e repressione nel mondo globale della guerra terroristica asimmetrica? Ma non basta. Se Obama è un “competent pragmatist” - come dicono gli osservatori internazionali - lo si deve anche al suo background, fatto di realismo cristiano, di percezione del limite della politica, di interiorizzazione dell’elemento tragico della politica internazionale. In altri termini, un conto è assumere un filtro obamiano per guardare la politica internazionale degli ultimi anni un conto arrivare ad Obama da posizioni di tradizionale sinistra continentale europea: è quel background a fare la differenza. Un background che ha anche nomi e cognomi (Niebuhr ad esempio) nel quale c’è paradossalmente spazio per una prudenza fatta anche di scetticismo, per un realismo fatto anche di calcolo stringente tra mezzi e fini, pensiamo per un attimo all’espressione del suo volto durante l’operazione bin Laden, per uno schema nel quale la religione è un limite all’imperialismo della politica. Un mix che a me appare assai distante dal combinato disposto tra “primato della politica” e “pragmatismo irenico” di Mogherini. Tanto che mi chiedo quanto Obama resti nella sua dottrina e quanto neutralismo pacifista continui a farla da padrone pur dovendo venire a patti con l’imporsi della dura realtà delle relazioni internazionali. E tuttavia dal neutralismo pacifista si può guarire, basta coglierne tempestivamente i sintomi e scegliere la terapia giusta.      

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