Presentazione della serata su Pd e moderno riformismo di centrosinistra tra Italia ed Europa - Cornice cronologica e giuridica in tre punti di Stefano Ceccanti. Camaldoli 2017

[media-credit id=67 align="alignnone" width="300"][/media-credit] Scopo della serata è valutare in che misura lo strumento partitico che è stato creato per dar corpo a un moderno riformismo (il Pd) ha risposto in questa legislatura e può rispondere in futuro allo scopo per il quale è stato immaginato. Posto che, per completare la premessa, altri strumenti sul medesimo piano non si vedono giacché o sono stati fondati all’insegna di un chiaro conservatorismo di sinistra (le forze a sinistra del Pd che confondono coerenza sui princìpi con la riproposizione degli strumenti tradizionali, anche quando ciò sia mascherato da una confusa retorica “ulivista” che cerca di attrarre così anche qualche filone di vecchia sinistra cattolica fuori tempo) o, quand’anche genericamente riformisti, del tutto legittimamente dal loro punto di vista non si collocano in questa area politica. Il primo elemento da sottolineare è però che l’ambiente istituzionale è divenuto ostile. Posto che una “vocazione maggioritaria” (che non è autosufficienza, ma che è il tentativo di raccogliere su un progetto chiaro solo alleati omogenei, ove esistano, per raccogliere  un mandato popolare senza confini preventivi tra gli elettorati) si può perseguire dentro sistemi diversi, è però evidente che un sistema che tende a fotografare i consensi e ad avere molti poteri di veto rappresenta un ambiente peggiore rispetto ad un contesto che invece valorizzi il ruolo dell’elettorato mobile e che abbia pochi elementi di blocco. La sconfitta del 4 dicembre, per i suoi effetti di lungo periodo sul mancato aggiornamento istituzionale, ha segnato quindi una sconfitta importante, capace di mettere in difficoltà il ruolo di un partito a vocazione maggioritaria. Quell’aggiornamento era l’obiettivo individuato come prioritario da inizio della legislatura, da prima che emergesse la leadership di Renzi e che poi era stato riconfermato riprendendo il dialogo su quel piano col cosiddetto “patto del Nazareno” dopo l’interruzione dell’esperienza di Governo in seguito alla decadenza di Berlusconi. Era un esito probabile dopo la rottura seguita all’elezione di Mattarella, che è stata più un’occasione colta da Forza Italia rispetto alla crisi dei propri consensi, che non la causa vera della medesima. Tuttavia questo esito probabile non è meno rilevante sul lungo periodo, anche come credibilità del sistema Paese. Ferma restando la difficoltà a riproporre un diverso progetto di aggiornamento sul tempo breve e medio, dobbiamo sapere che prima o poi i nodi irrisolti si riproporranno, magari già dall’inizio della prossima legislatura. Essendo fallito un modello neo-parlamentare, di fatto basato sull’imitazione del sistema dei sindaci, l’unico altro modello proponibile sembra essere quello semi-presidenziale che, del resto, si presenterebbe come una razionalizzazione di quanto accadrà di fatto. I sistemi a base proporzionale, coi poteri di veto rimasti nel testo costituzionale, nel contesto di debolezza strutturale dei partiti, porteranno infatti il sistema a basarsi più stabilmente sul pilastro presidenziale.  In questa fase finale di legislatura si poteva solo tentare di ridurre il danno, ma una volta fallito il tentativo simil-tedesco che si ispirava a questa logica e che avrebbe garantito un finale ordinato della legislatura, fallito anche a causa di una dura campagna mediatica che ha attaccato con successo le parti più deboli della coalizione parlamentare che sosteneva il tentativo, dagli irriducibili cinque stelle a pezzi del PD, a pezzi della Lega, è impensabile anche di ottenere questi obiettivi minimali. Si potrebbe infatti anche peggiorare le leggi vigenti abbassando lo sbarramento al Senato per i ricatti che le forze minori potrebbero cercare di esercitare durante la sessione di bilancio. Meglio quindi evitare iniziative dell’ultimo minuto, specie se fossero rivolte a introdurre coalizioni per le quali non sembrano esservi sul piano nazionale condizioni minime di omogeneità programmatica. In ogni caso, va ribadito di fronte all’intervento di Guido Formigoni su www.c3dem.it e a quello di Gianfranco Brunelli sul Regno, a regole vigenti ciò che impedisce la coalizone pre-elettorale non sono tanto le regole perché una lista coalizionale alla Camera si potrebbe fare e al Senato persino una coalizione (ovviamente comunque guidata da chi guida il partito più votato dagli elettori), ma dalle differenze politico programmatiche innegabili che si stanno manifestando in questa parte finale della legislatura tra il Pd e la sinistra conservatrice e che avranno il punto massimo nella divaricazione sul Trattato Ceta siglato dall’Ue. Un problema non solo italiano se è vero che la Spd non ha mai pensato in questi anni a livello nazionale di governare con la Linke e se su questa contraddizione il Ps francese è letteralmente esploso. Viceversa (secondo elemento) l’ambiente europeo è diventato favorevole a un cambiamento delle regole su quel livello, con maggiori livelli di integrazione che comporteranno un bilancio comunque più significativo della zona Euro e quindi una capacità di intervento più efficace a favore della crescita, non affidandosi più solo alla Bce. Purtroppo l’Italia arriva istituzionalmente indebolita a questa nuova stagione, che diventerà concreta dopo le elezioni tedesche, per le ragioni dette nel punto precedente, ma nondimeno il nuovo scenario rappresenta un potente argomento a favore delle forze dell’apertura invece di quelle della chiusura. Bilancio positivo (terzo punto) anche per le regole del Pd: il meccanismo statutario che è centrato sugli elettori nel momento decisivo per l’elezione del segretario-candidato Premier (che resta doverosamente tale, lo ribadisco sempre Guido Formigoni, anche nella fisiologia dei sistemi parlamentari a base proporzionalistica perché è comunque legato all’indissolubile legame tra consenso, potere e responsabilità da sempre rimarcato da Ruffilli) ha prima consentito l’emergere di una leadership che si iscrive a un filone liberale di sinistra e poi l’ha vista confermata, stavolta anche a livello degli iscritti. Ciò in controtendenza ai partiti europei di centrosinistra dove invece, anche a causa della base più ristretta dei selettori, prevalgono dentro il recinto delle spinte di difesa identitaria che però nel cerchio esterno degli elettori riescono al massimo a impedire alle forze di centro-destra di vincere (Labour Party), ma non a convincere una quota maggioritaria di elettori, talora restando inchiodati tra un 20 e un 25% degli elettori (Psoe spagnolo, Spd tedesca) quando non imboccano la strada di un rapido declino (Ps francese). La rilegittimazione così ottenuta è stata tale da far fronte anche ai risultati prevedibilmente difficili delle amministrative e dagli ulteriori tentativi che non mancheranno di riproporre forme oligarchiche di gestione del partito, sminuendo il rilievo istituzionale della leadership, senza il quale però non si dà partito a vocazione maggioritaria, potenzialità di attrazione oltre i confini tradizionali. Potenzialità che, tuttavia, vanno poi adeguatamente e coerentemente coltivate.  

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