Petruccoli spiega la svolta di Occhetto 20 anni dopo parlando anche dell’oggi

da "Le nuove ragioni del socialismo" La “svolta” non va guardata come una vicenda “separata” del Pci; ma come momento della vita e della lotta politica in Italia. Dopo la sconfitta del tentativo di Berlinguer (“senza e contro il Pci non si governa”) culminata con il referendum sulla scala mobile, sul finire degli anni ’80, il Pci era senza ruolo e strategia sull’essenziale questione del governo dell’Italia. Nel periodo della segreteria Occhetto 1987/1994, il problema che si dovette affrontare fu questo: come riaprire il capitolo del “governare”. Era la questione centrale della vita italiana; e ne dipendeva la funzione nazionale, il futuro del Pci. Si poteva riaprire una prospettiva solo con la costruzione di una “sinistra di governo” e attivando un meccanismo di alternanza. Altrimenti, il mutismo politico del Pci sarebbe diventato definitivo. Venivano in discussione i due cardini essenziali ai quali il Pci si era tenuto ben ancorato nel corso di tutta la storia repubblicana: la collaborazione delle “grandi forze popolari” e l’assoluta continuità istituzionale. Peraltro, l’esigenza di un ricambio maturava nel paese, appariva indispensabile per una governabilità efficace. L’Italia si sentiva matura per l’alternanza e ne avvertiva il bisogno. Fra i “giovani” che furono allora chiamati al vertice del Pci ce ne fu la consapevolezza? Sì; lo dimostrarono già al loro esordio, nel Comitato centrale del novembre 1987; la tradizionale posizione del Pci in materia istituzionale fu definita “nobilmente conservatrice”, non più adeguata; si riconobbe a Craxi una incisiva e dinamica capacità “destrutturante” rispetto al sistema politico anche se non accompagnata da una adeguata capacità (o volontà) propositiva e risolutiva, si aprì alle riforme che potevano risultare funzionali o addirittura necessarie per attivare l’alternanza. Per competere in un sistema dell’alternanza era evidentemente essenziale creare le condizioni politiche per una “sinistra di governo”. Costruire un regime di alternanza e una “sinistra di governo” in grado di competere vittoriosamente entro quel regime erano i due problemi messi a fuoco già prima della caduta del Muro; che provocò, comunque, lo sconvolgimento di tutti gli equilibri stabiliti e di tutti i riferimenti consueti. La consunzione del pentapartito si accentuò, come la scomposizione del blocco elettorale democristiano al nord con l’affermazione della Lega. Tutto ciò e altro ancora, insieme con la fine del Pci, al cui posto avevano preso corpo il Pds e RC aprì una fase molto incerta e molto dinamica. Il biennio racchiuso fra due voti: l’ultimo proporzionale (5/6 aprile ’92) e il primo maggioritario (27/28 marzo ’94) si rivelerà cruciale. In quell’arco di tempo si decide se la “svolta” realizzerà o meno il suo compito politico. I risultati delle elezioni del ’92 avrebbero potuto essere la premessa migliore per avviare una razionalizzazione istituzionale e un rinnovamento politico che vedesse protagonisti i partiti esistenti. Potevano essere ancora loro a predisporsi, e a predisporre il sistema, in funzione dell’alternanza. Dc e sinistra (Psi più Pds) sono in perfetto equilibrio, intorno al 30% (29, 66% la Dc, 29,73% i due partiti della sinistra sommati; meno di 25.000 voti di differenza). Dal punto di vista numerico, era la condizione ideale perché i due soggetti incardinassero un bipolarismo politico di tipo europeo, con una alternanza di tipo europeo. Tanto più che il restante 40% dell’elettorato, si distribuiva in modo anch’esso equilibrato fra destra, laici di centrosinistra, sinistra “antagonistica” o “varia”, oltre alla new entry, la Lega. Nessuno di questi aggregati superava il 10%; e si dislocavano quasi alla pari tanto verso la destra che verso la sinistra; il che rendeva verosimile e credibile la competizione fra due schieramenti che facessero perno su Dc da una parte e sinistra dall’altra, soggetti prevalenti che potevano costituire e guidare coalizioni di governo coerenti. Il tutto, però, doveva iniziare da quel 30% assommato da Psi e Pds. Era quella l’area, ancora divisa, che si doveva unificare politicamente. Sarebbe, così, finalmente nata, in Italia, la “sinistra di governo”; e avrebbe impresso una spinta potente a riorganizzare l’intero sistema politico nella logica dell’alternanza. Anche per l’avvio di questo processo nella sinistra è difficile immaginare condizioni più favorevoli. Il muro era caduto ormai da due anni e mezzo; da uno e mezzo si era riunificata la Germania. Nell’agosto ‘91, dopo un fallito golpe, era stato messo al bando il Pcus e il successivo 26 dicembre si era sciolta l’Unione Sovietica. Altro che cambiare il nome del Pci! A non esserci più era addirittura il comunismo, almeno quello sovietico. Il 17 settembre del ‘92, il Pds entrerà a pieno titolo nell’Internazionale socialista, con tutti i nulla osta degli altri soci nazionali, Psi e Psdi. Per la prima volta dopo il 2 giugno 1946, nel ’92 si registrò un equilibrio fra i due partiti della sinistra. Al 16,11% del Pds faceva riscontro il 13,62% del Psi che, con l’aggiunta dei voti Psdi, saliva al 16,33%: perfettamente alla pari, neppure centomila voti di differenza. Sia politicamente che numericamente, quindi, c’eravamo. Si sarebbe potuto mettere esplicitamente all’ordine del giorno, per la prima volta nella storia dell’Italia repubblicana, la costruzione di una sinistra di governo, con caratteri politici e massa critica adeguati al compito. E si sarebbe aperta la strada per assicurare all’Italia, con l’alternanza, una governabilità moderna ed efficiente. L’incarico di formare il primo governo della legislatura toccò ad Amato. Ci fu, a dare il segno di una continuità politica, la immediata convergenza dei quattro partiti che avevano sostenuto il precedente governo, l’ultimo Andreotti. Ma il governo Amato non era identico a tutta la serie del precedente “decennio del pentapartito”; e, se vogliamo, “del CAF”. Già chi lo presiedeva era una persona diversa da Craxi, De Mita o Andreotti; la sua scelta rivelava una certa “neutralizzazione tecnica”. Ma, soprattutto, era cambiato il contesto in cui quel governo nasceva; era evidente che quello di Amato sarebbe stato un governo di transizione in vista di orientamenti e decisioni più significative e durature che dovevano maturare. La debolezza del governo Amato, anziché indurre il Pds ad essere presente, attivo nella convinzione di poter condizionare politicamente i suoi atti concreti e, soprattutto, l’evoluzione delle relazioni politiche che ne avrebbero accompagnato la esistenza, fu utilizzata per combatterlo frontalmente. Per toglierlo di mezzo prima possibile, furono fatti errori gravi: come la ripulsa dell’accordo fra governo e sindacati siglato alla fine di luglio del ‘92; al quale aveva apposto la sua firma un uomo come Bruno Trentin, segretario della Cgil. La polemica del Pds fu tale che Trentin si dimise. Ma, a parte questo sgradevole particolare, un partito che avesse voluto dar vita ad una sinistra di governo non poteva chiamarsi fuori da ad una situazione che poche settimane dopo, a metà settembre, avrebbe imposto la svalutazione della lira, l’uscita dallo Sme e una manovra finanziaria da centomila miliardi di lire. Era vero quel che disse nel dibattito sulla fiducia Occhetto riprendendo le parole di Segni: il governo Amato appariva “come l’ultimo di una vecchia serie piuttosto che il primo di una serie nuova”. Ma in momenti di grande incertezza e di cambiamenti accelerati, si presentano situazioni instabili, aperte a sviluppi diversi. In quei casi, gli interventi soggettivi possono essere determinanti per orientare le cose in una o nell’altra direzione. Il governo Amato era una di quelle situazioni influenzabili. In ogni caso, ai fini degli sviluppi ulteriori, il Pds avrebbe dovuto muoversi con chiarezza e coerenza verso l’approdo della sinistra di governo. Il nuovo partito (il Pds) aveva perso forza rispetto a quello vecchio (il Pci); tanto più avrebbe dovuto dimostrare di aver guadagnato in agilità, in tempestività, in disponibilità al rischio. Non lo fece. Quel periodo (per la precisione, nove mesi e qualche giorno) è stato per il Pds tempo sprecato: nove mesi di “anestesia” politica, di “vacanza” che ridettero spazio ai comportamenti più abitudinari derivanti dalla pratica e dalla cultura politica del vecchio Pci. Come risultò clamorosamente evidente in occasione del secondo appuntamento con la prova del “governare”, di fronte al governo Ciampi. Questa volta, il governo non poteva essere considerato l’ultimo di una vecchia serie. Occhetto, che di fronte al governo Amato aveva alzato (senza peraltro essere molto contrastato) il ponte levatoio, con il governo Ciampi pur in minoranza nel vertice più ristretto del partito, dette il suo assenso e si impegnò a sostenerlo. Ma il voto parlamentare sulle autorizzazioni a procedere a Craxi, lo indusse a cambiare atteggiamento, a imporre l’uscita dal gabinetto dei ministri che si riferivano al Pds, e a passare dall’appoggio alla astensione. Dopo la “reazione a caldo” di Occhetto, ci fu il tempo e ci sarebbe stata la possibilità di modificare quella decisione. Si sarebbe dovuta manifestare una chiara volontà nei vertici e negli organi dirigenti del Pds; non si manifestò, neppure nella riunione della Direzione del 3 maggio. Qualcuno auspicò che non si escludesse un voto favorevole; ma nessuno andò alla radice del problema dicendo che quel governo era il passaggio cruciale per avviare a positiva soluzione il rapporto fra la sinistra nuova per la quale il Pds era nato e il governo dell’Italia. Ricordo che in quel governo, oltre a Ciampi che lo presiedeva e ai tre “pds” – Barbera, Berlinguer e Visco – c’erano Maccanico, Spini, Cassese, Elia, Andreatta, Spaventa, Baratta, Garavaglia, Ronchey, Rutelli…E i segretari della Dc e del Psi non erano più, come al varo del governo Amato, Forlani e Craxi, ma Martinazzoli (dal novembre ’92) e Benvenuto (dal febbraio ’93). Tutto questo fu considerato irrilevante. E ne ricordo anche un’altra: Massimo D’Alema, presidente dei deputati, ai parlamentari che dovevano decidere come votare su quel governo disse: ”Un governo con 8 Dc e 5 socialisti è davvero il nuovo, mentre la sua maggioranza parlamentare è il vecchio? E’ un’idea rischiosa parlare di un governo buono contrapposto a un parlamento cattivo…” (l’Unità, 5 maggio 1993, pag. 4). Ciò non ha impedito a D’Alema di far la parte del “defensor partitorum”. Per la seconda volta, nel corso del biennio ’92-’94, il Pds mancò l’appuntamento che poteva dare l’impulso decisivo alla costruzione della sinistra di governo. Questa seconda defaillance derivava anche dall’atteggiamento assunto nove mesi prima nei confronti del governo Amato; ma era assai più grave perché era la prova d’appello irrecuperabile. Il biennio cruciale si avviava alla conclusione senza che Il Pds raggiungesse il risultato essenziale per il quale si giustificava la sua nascita e tutto quello che era costata: la costruzione, in Italia, di una sinistra di governo capace di far vivere produttivamente l’alternanza e capace di vivere nell’alternanza. L’alternanza, a seguito del referendum sul maggioritario, si affermò; ma non trovò, a sinistra, l’interprete adeguato. Alla fine dell’anno, quando si trattò di prepararsi alle elezioni, si mise mano al “polo progressista”; qualcosa di molto simile alla edizione più larga ed aperta del Pci, quella del 1976; il bacino di raccolta, era quello. E, più o meno, fu uguale anche il risultato, intorno al terzo dei voti. In conclusione, la “svolta” non ha raggiunto il risultato politico che doveva raggiungere. C’era chi pensava che tutto ricominciasse come prima, con la sola differenza che al posto del Pci c’era il più piccolo Pds, teso, peraltro, al recupero dei “fratelli separati”; e chi, invece, si preoccupava solo di stare alla larga dal crollo di un “sistema politico” che vedeva inevitabile. Nessuno “fece politica” in armonia con quella che era, o avrebbe dovuto essere, la vera motivazione storica e nazionale della “svolta”: costruire la sinistra di governo, il soggetto politico capace di interpretare l’alternanza in modo produttivo per il paese. E’ rivelatore che, all’indomani della sconfitta del 1994, conclusa la parabola di Occhetto, la riflessione critica non si orientò su questo punto decisivo, ma si concentrò sul fatto che la sinistra da sola era “insufficiente” a vincere la sfida del governo. Tanto D’Alema che Veltroni, sottolinearono che era necessario mettere in campo non la “sinistra” ma un “centrosinistra”. Come se, su questo, ci fosse la differenza decisiva rispetto ad Occhetto| Occhetto era andato alle elezioni con i progressisti - un facsimile del Pci più indipendenti di sinistra - non perché pensasse di ottenere così la maggioranza, ma perché contava su una maggioranza da fare dopo il voto con Martinazzoli e Segni. Anche lui, dunque, come i critici postumi non considerava autosufficiente la sua “sinistra progressista”. A tutti mancava la percezione esatta di cosa volesse dire sinistra di governo, e quanto questa fosse lontana dal Pci non solo per ideologia, denominazione, legami internazionali; quanto e soprattutto per la cultura politica e la coscienza politica di sé. La distanza è quella che c’è fra un soggetto politico fatto per influire in una situazione priva di alternanza, e un altro fatto per governare in una situazione in cui vige l’alternanza. Se non c’è la sinistra di governo, non può esserci una convincente e visibile presenza della sinistra nel governo e una sua permanente candidatura al governo, indispensabile per alimentare l’alternanza. E non esiste neppure un centrosinistra che governa. Diluendo una sinistra non di governo con un po’ di centro, con un po’ di moderazione e moderatismo si può anche raggiungere una maggioranza di voti, ma non si ottiene una miscela utile per governare. La sinistra può aver bisogno di alleanze o giudicarle necessarie, come avviene in molti paesi in cui c’è l’alternanza; ma se non è di governo, non governa. Anche l’espressione “a vocazione maggioritaria” è vaga. Il termine esatto è proprio sinistra di governo: una sinistra che si propone di governare e dice come intende farlo, diversa dunque da una sinistra che si propone essenzialmente di influire non importa dove si trovi, al governo come all’opposizione. Con la svolta si sarebbe dovuto realizzare questo passaggio; una vera e propria “rivoluzione culturale” non solo per i dirigenti o gli iscritti ad un partito ma per l’elettorato, per cittadini che a lungo, con il Pci, avevano pensato, scelto, valutato con la logica dell’influire, non con quella del governare. Non lo si è fatto, non si è riusciti a farlo; ed è questo, a mio avviso, il limite davvero pesante della svolta. Che ha continuato a pesare nel corso di tutti gli anni trascorsi dopo e pesa – come è evidente – ancora. Nonostante tutti i cambiamenti di nomi, di uomini, di partiti. Non è facile cambiare una cultura, un modo di pensare, i criteri che determinano le scelte e le aspettative di milioni di persone.

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