Paolo VI e la Spagna: anteprima del convegno del 15 ottobre
Sintesi della relazione di Carlos Garcia de Andoin su “Il contributo di Paolo VI e del Vaticano II alla transizione democratica in Spagna” Il rapporto tra religione e politico è tornato attuale in Spagna nel segno del conflitto intorno al 2004, contrariamente alle tesi sulla inevitabile privatizzazione del fatto religioso. Per questo è opportuno analizzare i nessi tra religione e politica che si realizzarono con Paolo Vi e col pontificato montiniano. La notizia dell’elezione di Paolo Vi fu vissuta molto male dal regime franchista perché vi era stato un precedente significativo: nel 1962 l’allora cardinale di Milano aveva chiesto clemenza verso un giovane condannato a morte, cosa che era stata interpretata da un atto ostile. Per di più era noto che Montini era legato a Maritain, da sempre antifranchista, fin dai tempi della Guerra Civile, spina nel fianco per un regime che si diceva cattolico. Il conflitto riprese nel 1969 quando Paolo VI citò la Spagna tra i Paesi che gli suscitavano inquietudine per la situazione dei diritti umani e, quindi, nel 1975, di fronte a una sua nuova richiesta di clemenza, che non fu accolta. Il regime era stato peraltro direttamente delegittimato nella sua ideologia nazional-cattolica dai documenti conciliari, prima fra tutti la Dichiarazione “Dignitatis Humanae”, la cui proclamazione della libertà religiosa come diritto ne demoliva il presupposto della coincidenza tra Patria e religione di Stato. Il Regime cercò di rispondere pragmaticamente allargando la limitata tolleranza religiosa, ma la contraddizione era radicale. Il secondo aspetto di delegittimazione riguardava le libertà politiche affermate dalla Costituzione “Gaudium et Spes”, prontamente colta dallo stesso Franco in sue lettere private a Paolo VI di critica al testo. Il terzo elemento critico era la richiesta del documento “Christus dominus” di rinunciare a forme di controllo statale nella nomina dei vescovi, cosa che avrebbe aperto le porte dell’episcopato al nuovo clero antifranchista formatosi in quegli anni, cosa vista con preoccupazione soprattutto dai ministri più direttamente legati ai settori del cattolicesimo conservatore che avevano espresso i vescovi precedenti. Di fronte a ciò iniziò un lungo braccio di ferro in cui il Vaticano (col nuovo primate Tarancon) si concentrò sulla nomina dei vescovi ausiliari, per i quali non era previsto controllo. Il vincolo cadde poi per tutti solo nel luglio 1976, a transizione aperta. Il nuovo episcopato, vista questa delicata eredità, preferì orientarsi, in una logica di priorità pastorale, verso il pluralismo politico anziché verso un sostegno a iniziative politiche democristiane o tradizionaliste. E’ vero che i primi fenomeni di contestazione cattolica al Regime (particolarmente forti già nel 1962 ad opera dei movimenti operai e studenteschi) non furono dovuti alla spinta esterna di Paolo VI e del Concilio, ma il ruolo del Papa fu decisivo nel cambiamento radicale dell’episcopato che precorse la Transizione democratica. Il processo però non fu lineare come dimostra la crisi dell’Azione Cattolica di fine anni ’60 dovuta alle incomprensioni con l’episcopato non ancora sufficientemente rinnovato: cosa che produsse un’eterogenesi dei fini positiva sul versante politico, con un afflusso di quadri cattolici in uscita dall’ambito ecclesiale troppo controllato verso i nascenti partiti politici e verso i sindacati, anche se al prezzo di una privatizzazione dell’esperienza religiosa.
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