Nel segno di Paolo VI. La responsabilità culturale - di Nuccio Fava

Si sta avvicinando la data di anniversario della morte di Paolo VI. nell'Osservatore Romano di oggi 5 agosto, il ricordo di un fucino degli anni Sessanta, Nuccio Fava. Nel segno di Paolo VI. La responsabilità culturale Mi ha colpito la bella testimonianza-ricordo di Carlo Di Cicco sull’Osservatore Romano di venerdì 1 agosto. In campagna nell’alta Tuscia tra Orvieto e Bagnoregio, sono in un territorio vasto e ricco di importanti memorie: il duomo di Orvieto, Civita di Bagnoregio segnata dalla presenza di san Bonaventura e poco distante la patria del poverello di Assisi a cui con efficacia si richiama quotidianamente Papa Francesco. E anche per me il 6 agosto, festa della Trasfigurazione, è occasione di riflessione e di gratitudine verso il grande Pontefice, Paolo VI. Ho provato quasi timore che la sua figura e il suo ruolo straordinario non venissero adeguatamente riconosciuti e coltivati. Col rischio di affievolire il modo di affrontare le nuove sfide della modernità, del rapporto Chiesa-mondo contemporaneo e il timore che potesse indebolire o addirittura smarrire la direzione di marcia che il Concilio aveva irreversibilmente aperto. La mia generazione è quella della Fuci degli anni Sessanta quando il centro nazionale si trovava in via della Conciliazione, all’incrocio con la Traspontina. Ci formavamo alla scuola di don Costa, don Zama e monsignor Ferrari Toniolo. Ogni occasione di incontro e di riflessione si misurava con citazioni e riferimenti all’antico assistente centrale. Il rapporto tra studio universitario e coscienza cristiana, l’apertura alla conoscenza storica della Chiesa e della società civile, la continua sollecitazione all’interiorità, alla meditazione e alla preghiera, la frequentazione giornaliera delle Scritture, erano tutte piste essenziali del nostro cammino. E anche l’importanza di spazi di riposo, di vacanza e rapporto con la natura, che Montini aveva sperimentato fin da bambino, durante i soggiorni con la famiglia nella casa di Ponte di Legno. Amava le lunghe passeggiate, attraversare boschi e camminare per percorsi anche ripidi. Nella Fuci di quegli anni hanno sicuramente contato anche i soggiorni estivi nelle case alpine — dalla Val d’Aosta al Trentino, dalle Marche alla Sicilia. In modo speciale le settimane di teologia di Camaldoli. Con regolari sedute mattutine e pomeridiane, la lettura dei Salmi e della liturgia quotidiana, era molto frequente la citazione degli scritti di Montini e di quello che chiamavamo il suo metodo universitario. Ci avviavamo così a diventare adulti, a maturare le scelte per il futuro. Ampio spazio aveva nel nostro lavoro la discussione sull’impegnativo tema delle professioni, in stretto rapporto con la responsabilità culturale e religiosa, alla necessità di collegare e fare sintesi tra questi diversi elementi, sintesi da verificare e rinnovare in un percorso dinamico continuo. Quegli anni formidabili furono per me segnati, oltre che da don Costa, dall’incontro con personalità straordinarie come Lazzati e La Pira, Moro e Franco Casavola, Alberto Monticone e Zaccagnini. Una catena di guide tutte segnate profondamente dalla lezione di Paolo VI. Il rapporto con Papa Montini, se così posso dire, si intensificò spiritualmente con l’avvio dell’attività di giornalista. Mi colpì e mi fu straordinariamente utile una considerazione di Paolo VI: i giornali e l’informazione sono molto utili, possono però far sprecare tanto tempo e sciupare energie. Non l’avrei mai dimenticato. La pagina più bella e drammatica, già verso il tramonto di Paolo VI, è per me legata alla tragedia di Aldo Moro, alla sua lettera agli uomini delle Brigate Rosse. Mi confermò monsignor Pasquale Macchi, di cui esce in questi giorni una preziosa testimonianza Paolo VI nella sua parola (Brescia, Morcelliana, 2014, pagine 416, euro 25) il tormento che accompagnò costantemente tutte quelle terribili giornate e un certo rammarico del Papa perché la sua lettera non aveva ottenuto risposta. Senza farsi illusioni, non cessò mai di pregare e di sperare che Aldo Moro, amico carissimo, potesse alla fine essere liberato. Non è forse una forzatura immaginare che quella prova estrema avrebbe fiaccato la forte fibra del Papa, ormai però allo stremo. Non ho il bel ricordo di riconciliazione cristiana a cui assistette l’amico Di Cicco con la messa di Paolo VI in memoria del cardinale Pizzardo. L’ultima volta che vidi il Papa fu in occasione della messa in San Giovanni per i funerali di Stato dopo l’assassinio di Aldo Moro. Di fronte a un pubblico attento e pensoso, con tutte le cariche della Repubblica italiana e i rappresentanti delle forze politiche, Paolo VI levò il suo grido di dolore e, quasi come Giobbe, levò la sua supplica all’Altissimo: «Tu non hai ascoltato la nostra supplica. Ma Tu sei il Dio della vita e della morte, dell’amore e della misericordia, che tutto comprende e perdona». Ho incrociato lo sguardo del Papa quasi rannicchiato nella sedia gestatoria, impedito nei movimenti dai fortissimi dolori alla schiena e alle articolazioni. Quei suoi occhi sempre intensi e folgoranti nonostante l’enorme fatica, non li dimenticherò mai. Capii subito che era l’ultima volta che avrei visto da vivo il mio amatissimo Papa Montini a cui devo ancora, tanti anni dopo, le ragioni di tutte le scelte più importanti della mia vita. Nuccio Fava L'Osservatore Romano, 5 agosto 2014.

Condividi Post

Commenti (0)