la relazione di Marco Ivaldo al convegno ACI sull'Azione cattolica e il Concilio
Marco Ivaldo (Università di Napoli Federico II) L’Azione cattolica italiana nella Chiesa del Concilio (testo per lettura) L’espressione Chiesa del Concilio può essere intesa in modi diversi, e in questa sede ne focalizzo due. Può significare la Chiesa quale è stata delineata dal Vaticano II inteso come avvenimento storico e spirituale e come complesso di visioni e di dottrine relative alla Chiesa. Può significare la comunità dei credenti in Gesù Cristo, il Popolo di Dio, che a partire dal Concilio, ha iniziato un percorso di ricezione, di interpretazione e di applicazione delle visioni e delle dottrine sulla Chiesa e in generale sulla fede cristiana che il Concilio stesso ha messo a tema e formulato. In questo secondo significato – che comunque suppone il primo – la Chiesa del Concilio comprende anche noi che oggi ci interroghiamo sul rapporto fra il Vaticano II e l’Azione cattolica e che pensiamo che dalla “forza del Concilio” si apra un orizzonte di futuro per la Chiesa e per l’umanità nel quale giudichiamo ricco di senso collocarci e operare. Ricostruire o evocare il percorso della Azione cattolica nella Chiesa del Concilio significa allora, e inevitabilmente, anche parlare del nostro presente, di che cosa giudichiamo urgente o essenziale nel momento attuale. Non posso cimentarmi, anche a causa della mia incompetenza, in una ricostruzione pertinente del cammino dell’Azione cattolica nella Chiesa del Concilio durante i decenni che ci separano da questo evento, ovvero – per riprendere una espressione felice di Vittorio Bachelet – da quella “ora grande di Dio nella storia della Chiesa e del mondo” che è stato il Vaticano II. Guardando retrospettivamente mi sembra che l’Azione cattolica nella Chiesa del Concilio abbia modellato la propria identità in maniera processuale, interagendo con soggetti diversi e rispondendo a sollecitazioni varie, secondo un cammino, tuttora aperto, che muoveva da una certa intuizione originaria. E’ questa intuizione che vorrei provare a focalizzare e anche considerare nel suo potenziale; vorrei ripensare cioè l’atto fondamentale che l’Azione cattolica ha posto nella Chiesa del Concilio, un atto che è stato a un tempo di ricezione dell’insegnamento del Concilio stesso, di ermeneutica del suo messaggio, e di applicazione, ancora in fieri, della sua visione e dottrina. Questo atto – che Bachelet designava: la nostra scelta fondamentale - è stato chiamato: scelta religiosa. La scelta religiosa La scelta religiosa esprime il principio in virtù del quale l’Azione cattolica ha intrapreso un complesso percorso di re-identificazione e di rinnovamento di sé, che è stato insieme – secondo una intuizione di Bachelet – un programma di attuazione del Concilio. In una relazione alle presidenze diocesane del 1966 – dal significativo titolo: “Rinnovare l’Azione cattolica per attuare il Concilio” - Bachelet legava strettamente rinnovamento della Azione cattolica e attuazione del Concilio, tanto da vedere nel primo, nel rinnovamento, il modo specifico con cui l’Associazione poteva contribuire all’attuazione del secondo, ovvero di “tutto l’insegnamento e l’indirizzo del Concilio” - una attuazione che doveva avvenire “senza timori e senza impazienza, ma con organicità, costanza e coraggio, anche se sempre in spirito di obbedienza e di pace”. Non si può non cogliere qui la preoccupazione del presidente della nuova Azione cattolica di enucleare alcune premesse spirituali di una produttiva ermeneutica del Concilio, che doveva mirare alla totalità del suo indirizzo e insegnamento, e non opponeva novità e tradizione. L’identitas vive come identitas – e non come astratta fissazione di una medesimezza - solo nella novitas, e viceversa la novitas è tale solo in quanto si relaziona alla permanenza di una traditio e apre in questa e da questa nuove possibilità e prospettive. La scelta religiosa è stata, non solo per l’Azione cattolica, ma per la comunità dei credenti, e resta a mio giudizio, fonte non esaurita di ispirazione e di iniziativa. Tuttavia essa è parimenti stata tema controverso, in particolare dal punto di vista del rapporto fra annuncio del Vangelo e ordine sociale, ovvero di quella che si sarebbe successivamente chiamata la presenza della fede nello spazio pubblico (e politico). E’ importante perciò provare a ripensarne la figura genuina e la peculiarità nella Chiesa del Concilio. Mi riferisco a tal fine ad alcune espressioni dello stesso Bachelet, tra le molte che possiamo incontrare nei suoi testi. Nella Assemblea nazionale del 1970 egli affermava: “[L’Azione cattolica] in passato ha fatto molte varie e nobili cose; ma ora ha ritenuto che fosse suo compito proprio puntare sui valori essenziali dell’annuncio evangelico e della vita cristiana concorrendo col proprio apporto agli aspetti più sostanziali e profondi della costruzione e missione della Chiesa”. Se riflettiamo oggi su queste affermazioni è difficile non percepire la consonanza di questo invito a puntare sui valori essenziali dell’annuncio evangelico con la sollecitazione a far risuonare l’annuncio del Vangelo come se fosse la prima volta, andando al di là di ogni forma culturale pur fin qui prevalente, che ascoltiamo nella esortazione apostolica di papa Francesco La gioia del Vangelo. “Il problema maggiore si verifica quando il messaggio che annunciamo sembra […] identificato con […] aspetti secondari che, pur essendo rilevanti, per se soli non manifestano il cuore del messaggio di Gesù Cristo” (n. 34). Scelta religiosa significava e significa nella Chiesa del Concilio precisamente questo: riscoprire la centralità dell’annuncio di Cristo, quell’annuncio da cui tutto il resto prende significato, ivi compreso l’insegnamento morale, il quale “corre il rischio di diventare un castello di carte” se non è percepibile il suo radicamento nell’invito a rispondere personalmente “al Dio che ci ama e ci salva” (La gioia del Vangelo, n. 39). Nella scelta religiosa risuonava, e risuona, l’invito a ritrovare la radice della fede e a vivere l’essere-cristiani con coerenza a partire da questa radice, senza scambiarla con le sue espressioni dottrinali-teologiche, che sono sì ricche di sapienza, ma nelle quale deve sempre essere riconosciuto un aspetto di condizionatezza storico-culturale, che impedisce di eternizzarle. La radice, cioè il nucleo fondamentale - quella che in Gioia del Vangelo è designata come “la bellezza dell’amore salvifico di Dio manifestato in Gesù Cristo morto e risorto” (n. 36) - è ontologicamente prioritaria rispetto alla dottrina. Sarebbe una fallacia ermeneutica, per restaurare la Chiesa, guardare alla dottrina più che alla radice. Altrimenti detto: il rinnovamento non si realizza guardando all’indietro, ma guardando in alto, o in profondità, verso il centro; è da questo centro che possiamo a nostra volta rivolgerci alla tradizione, ai suoi linguaggi, alle sue dottrine, in ascolto della possibilità che questa suggerisce. Quanto alla vexata quaestio del rapporto fra scelta religiosa e presenza della fede nello spazio pubblico Bachelet nell’Assemblea del 1970 si esprimeva così: “[Puntare sui valori essenziali, cioè la scelta religiosa] non vuol significare ovviamente una volontà di sottrarsi al faticoso e spesso impervio confronto con la realtà sociale e culturale nella quale [la Chiesa] opera, ma è semmai indicativo di un metodo col quale in tale realtà essa lavora, che è quello di misurarne i riflessi sulla coscienza dell’uomo”. Qui si parla di un “metodo”: non uno strumento estrinseco e semplicemente formale, ma – valorizzando l’etimo del termine - un cammino che conduce oltre, ovvero un modo d’essere in azione. Veniva escluso un uso ideologico e politico del cristianesimo, quell’uso ideologico e politico dello spirituale che negli anni successivi avrebbe ripreso fiato; veniva però parimenti esclusa dalla scelta religiosa una riduzione della esperienza della fede cristiana e dei valori che le sono immediatamente connessi a fatto privato della persona, rinunciando a uno sforzo, mai concluso, di esprimere il linguaggio della fede e dei suoi valori nel linguaggio della comune ragionevolezza, cioè nella sua universalizzabilità, così da permeare della visione del Vangelo le forme della vita, ossia l’ethos - e questo non attraverso alcun tipo di costrizione, o mediante l’esercizio di qualche un potere politico della Chiesa, ma attraverso la libera testimonianza dei credenti. In questo approccio di lettura della realtà sociale e culturale alla luce del Vangelo in vista della formazione della coscienza e della testimonianza del cristiano vedo il nucleo di quella che si sarebbe chiamata scelta pastorale, espressione che – mi pare – accentua il carattere incarnatorio della scelta religiosa. Scelta religiosa e Popolo di Dio La scelta religiosa ha uno spessore teologico, ovvero dice qualcosa di essenziale sullo statuto della vita cristiana e della comunità dei credenti, su cui vorrei fermarmi. In primo luogo richiamo l’attenzione sul termine scelta. Non si tratta di un atto arbitrario, e nemmeno di una decisione irrazionale: la fede cristiana è sempre anche, sotto un determinato profilo, una comprensione. Il termine scelta religiosa sollecita però a vedere la fede nel suo modo esistenziale fondamentale, cioè come un atto della libertà dell’uomo che risponde alla libera, e ontologicamente precedente, iniziativa di Dio. Non è un caso che abbiano, ciascuno a loro modo, accentuato questo carattere della scelta tre pensatori che sono essenziali nella riflessione sul cristianesimo all’altezza della modernità come Pascal, Kierkegaard, Dostoevskij. Inoltre il fatto di qualificare la scelta fondamentale come religiosa invita a pensare che la presa di posizione qui richiesta ha a che fare con la questione del senso del mondo e della vita. Nietzsche aveva scritto che il nichilismo è l’assenza di risposta alla domanda “perché”. Ora, vedo la scelta religiosa come un punto di vista che spinge ad assumere questa sfida del nichilismo - una sfida che ha a che fare con il senso globale della vita, e che deve essere attraversata, non ignorata sulla base di dogmatiche certezze. Si tratta di vivere e testimoniare, in particolare di fronte alla presenza sgomentante del male e della sofferenza, l’idea fondante che il senso della creazione non è il niente, ma il bene, ovvero è quella che La gioia del Vangelo chiama la “bellezza” – perciò l’intima sensatezza - dell’amore di Dio manifestato in Gesù. La scelta religiosa è movimento dello spirito che regredisce alla radice, all’essenza - “andare all’essenziale” è una formulazione che ritorna frequentemente in Bachelet - , ovvero è un ritrovamento creativo e attualizzante del Vangelo, quel ritrovamento che Kierkegaard designava come diventare “contemporanei di Cristo”. Include la coscienza che la Chiesa nasce “dall’alto”, è una creatura della Parola, e che la fede scaturisce come libera risposta dall’incontro concreto e decisivo con la Parola di Dio viva, quella Parola che viene tramandata dalla Chiesa in religioso ascolto di essa, ed è il principio e la regola viva della Chiesa stessa. Nel cammino dell’Azione cattolica nella Chiesa del Concilio la scelta religiosa è stata ed è strettamente associata alla visione ecclesiologica di un “popolo di Dio”, formato dall’essere-in-comune, dalla communitas, cioè da un tessuto vivo di relazioni fra i christifideles. In questo popolo di Dio, sul fondamento del sacerdozio comune dei fedeli, doveva venire riconosciuta e valorizzata la vocazione e la missione propria e peculiare dei laici, cioè dei cristiani comuni, così come era stata delineata in particolare nella Lumen Gentium, e su cui ha attirato potentemente l’attenzione Giuseppe Lazzati. La Chiesa, il Popolo di Dio, esiste perché la Parola di Dio nello Spirito vivente lo convoca, raccoglie, alimenta, illumina, orienta e custodisce sulla strada che conduce al compimento escatologico. Dimenticare questo primato della Parola (Dei Verbum) nella Chiesa e sulla Chiesa conduce a un ecclesiocentrismo riduttivo e fuorviante. Ne sono espressione quel clericalismo e anche quella mondanità spirituale, che rendono la parola della Chiesa lontana dalla vita, incapace di comunicare senso in un’epoca come la nostra, caratterizzata dal pluralismo delle visioni del mondo e delle culture, dominata dall’oggettivismo scientifico-tecnico che riduce lo spirito umano ai suoi prodotti, attraversata da un nichilismo morbido, che ritiene che ogni giudizio o scelta siano indifferenti e in definitiva equivalenti, e che non esista relazione alla verità, o verità come relazione, ma solo opinioni e relazioni basate su opinioni. Rispetto a questa condizione contemporanea la scelta religiosa ha promosso e promuove nella Chiesa del Concilio una spiritualità che guarda all’”essenza”, che si lascia ispirare dal nucleo fondante della fede cristiana, nella coscienza che questo nucleo – proprio perché parla dell’essenza del vivere, del suo senso - sia in grado di attirare, se non il consenso, almeno l’ascolto e l’attenzione degli uomini e delle donne della nostra età, credenti, diversamente credenti, o non-credenti, se si portano alla luce con una ermeneutica creativa e la concreta testimonianza i significati universali (e inesauribili) contenuti in esso. La scelta religiosa desidera una Chiesa che torni a essere generatrice di senso a partire dall’annuncio del Vangelo, più che una cattedra di prescrizioni morali, quelle prescrizioni morali che arrivano in definitiva sempre troppo tardi, e spesso suonano remote dalla vita, astratte e formali, poco radicate nella esperienza concreta della vivere. In realtà, l’insegnamento morale cristiano “non è una mera filosofia pratica, né un catalogo di peccati e di errori” (La gioia del Vangelo, n. 39). Ciò che decide nell’etica cristiana è “la fede che si rende operosa per mezzo della carità” (Gal 5, 6). La scelta religiosa e il nostro tempo Benedetto XVI ha scritto che la priorità che per la Chiesa deve stare al di sopra di tutte è “di rendere Dio presente in questo mondo e di aprire agli uomini l’accesso a Dio”. Ora, in ordine alla esperienza di Dio il tratto essenziale dell’autocoscienza contemporanea è il suo carattere dialettico. Per un verso la nostra epoca ha smentito la credenza positivista che lo sviluppo scientifico avrebbe portato alla estinzione della religiosità. Assistiamo anzi al proliferare di esperienze religiose e spirituali. La nostra epoca non è univocamente irreligiosa, ma conosce certamente un indebolimento delle religioni tradizionali e, in particolare in Europa, a un distacco crescente dalle Chiese cristiane. L’annuncio del Vangelo ha oggi come potenziali destinatari persone per le quali la religione cristiana è divenuta una cosa estranea. Questo non significa che non sia presente in loro una richiesta spirituale, o un desiderio di Dio “almeno come sconosciuto”, anche se molti sono i modi in cui si pensa o si nomina questo “sconosciuto”. Per noi significativo però è che questa richiesta spirituale non si declina per lo più nei linguaggi di una fede ecclesiale, e non pare trovare un interlocutore sostanziale nelle Chiese cristiane - talora è in contrasto polemico con esse, anche se altre volte rivela un interesse a conoscere il loro punto di vista. Per un altro verso è diffusa, e spesso assunta come un dato ovvio, la persuasione dell’assenza, della estraneità, della irrilevanza di Dio. Esiste una negazione di Dio che chiamerei di carattere ‘metafisico’ e che trova alimento nelle rappresentazioni naturalistiche del mondo e in una interpretazione filosofica (totalizzante) della teoria evolutiva. L’idea di Dio è per questa concezione una creazione del pensiero umano nel corso dell’evoluzione della specie. Accanto a questo tipo di negazione si presenta però oggi ciò che potrebbe chiamarsi un “ateismo ermeneutico”. Qui la controversia tra ateismo e teismo non avviene sul terreno della possibilità metafisica di affermare o di negare l’esistenza di Dio, ma su quello del significato che questa esistenza ha per la vita degli uomini. Si giudica che l’esistenza o la non-esistenza di Dio sarebbe in definitiva qualcosa di “indifferente”, che non cambia la vita, non risponde alle questioni decisive dell’esistenza, non offre una soluzione accettabile alla presenza sconvolgente del male nel mondo. Secondo una versione radicale di questo tipo di “ateismo ermeneutico” la ribellione verso una creazione così largamente segnata al male, dalla malvagità e dalla sofferenza, offrirebbe un buon motivo per rifiutare un creatore ingiusto e crudele. Secondo una versione morbida di questa negazione ermeneutica di Dio, che assume i tratti di un nichilismo confortevole, non esiste una buona risposta alla domanda “perché”, l’ipotesi-Dio è soltanto una tra le tante ipotesi possibili e in definitiva equivalenti, tra le quali si può indifferentemente scegliere, avendo come sola bussola l’incremento del proprio impulso vitale. L’idea che la priorità della Chiesa è di rendere Dio presente in questo mondo e di aprire agli uomini l’accesso a Dio, si deve misurare con questa situazione pluralistica e dialettica dell’autocoscienza contemporanea in ordine alla religiosità. Penso che la scelta religiosa – grazie al suo carattere radicale e personalistico – offra un punto di vista produttivo, dal profilo pastorale, perché la Chiesa possa entrare in dialogo e pronunciare parole sostanziali in questa situazione spirituale. Penso inoltre che questo dialogo non possa restare senza ripercussioni sulla stessa professione del cristianesimo. Questa non potrà assumere le fattezze di un conformismo religioso rigidamente dogmatico, ignaro dei problemi, sordo agli allarmi, chiuso nella propria autosufficienza; ma nemmeno potrà ridursi alle forme di un cristianesimo secolarizzato, ignaro del nichilismo e della crisi, ridotto a un prontuario di prescrizioni morali. La professione del cristianesimo dovrà avere invece un carattere “conflittuale e problematico” – come richiamava Luigi Pareyson - , e ciò in due sensi: nel senso che dovrà mettere in questione la chiusura dogmatica di ogni naturalismo che si pretenda scientifico; e nel senso che la concezione cristiana dovrà assumere la negazione di Dio nelle forme in cui oggi si manifesta come un problema con cui essa deve misurarsi in se stessa. La fede cristiana oggi deve assumere il dubbio, o forse meglio: il domandare, come un proprio momento interno. Il brano di Marco (9, 24): Credo, Domine, adiuva incredulitatem meam, non è l’espressione di una fede vacillante ma di una fede autenticamente vivente. All’inizio della Gaudium et spes troviamo una indicazione preziosa sulla disposizione fondamentale che deve caratterizzare la Chiesa del Concilio nel suo rapporto con il mondo contemporaneo: “Nulla vi è di genuinamente umano che non trovi eco nel cuore dei cristiani”. E’ un motivo che risuona anche nella Ecclesiam suam: “Tutto ciò che è umano ci riguarda. Noi abbiamo in comune con tutta l’umanità la natura, cioè la vita, con tutti i suoi doni e tutti i suoi problemi. Siamo pronti a condividere questa prima universalità”. Prima universalità! Il punto di avvio della missione della Chiesa – la quale consiste nel “continuare l’opera stessa di Cristo ” (GS, 3) – è l’ascolto del Vangelo, cioè di Cristo stesso, e il suo annuncio , riconoscendosi assieme a ogni essere umano nell’universale della vita. Questo auto-riconoscimento nella vita, l’idea fondante che “tutto ciò che è umano ci riguarda”, rappresenta un passo indispensabile perché la Chiesa, in particolare la sua dottrina - che comunque non va identificata con il Vangelo stesso, come Giovanni XXIII richiamava nel discorso di apertura del Concilio - entri in sintonia con la vita nel suo manifestarsi concreto e plurale. Ciò non equivale affatto ad giudicare che tutto ciò che accade, per il solo fatto che accade, sia giusto e buono, “naturale”, come oggi si dice. Significa invece entrare in sim-patia con l’umano, viverne la “passione” che lo forma, comunicare con essa a partire da una condivisione fondante. Contrariamente a quanto talora si ascolta, la Gaudium et spes non ha affatto un approccio al “mondo” di tipo ingenuamente ottimistico. Essa sollecita a gettare sulla condizione umana e sulla storia temporale uno sguardo dialettico, che presti attenzione alla antinomicità della libertà umana, alla sua capacità di bene e di male, di costruire e di distruggere; e pone le basi di una ermeneutica della complessità e della profondità, che coglie nella situazione storica l’interazione di molteplici fattori di sviluppo o di regressione, di crescita o di dissoluzione. Inoltre la Gaudium et spes non si ferma affatto alla analisi sociale, ma fa emergere la dimensione ontologica che sottende antinomicità e complessità: “Gli squilibri di cui soffre il mondo contemporaneo si collegano a uno squilibrio più profondo, radicato nel cuore dell’uomo” (GS, 10). Si capisce allora che quell’auto-riconoscimento nella prima universalità della vita non annulla affatto il discernimento e il pensiero critico; costituisce invece il presupposto per far valere la capacità dell’annuncio del Vangelo di interpretare la condizione umana e di rispondere “ai perenni interrogativi degli uomini sul senso della vita presente e futura e sul loro reciproco rapporto” (GS, 4): di cor-rispondere cioè a quella richiesta spirituale che, pur nella estraneità alla religione ecclesiale, si può cogliere oggi in molti individui, e alle domande sul senso e l’orientamento della vita che vengono oggi poste ai cristiani dal mondo dei non-credenti o dei diversamente credenti, e a cui non sempre sappiamo offrire risposte pertinenti. Mi sembra che il fatto di puntare sull’essenziale dell’annuncio del Vangelo e della vita cristiana da parte di una Chiesa capace di coinvolgersi con l’umano e di accompagnare l’umanità in tutti i suoi processi, “per quanto duri e prolungati possano essere” (cfr. La gioia del Vangelo, n. 24) – sia ciò che è richiesto e urgente nel tempo presente. Ma questo approccio è precisamente la scelta religiosa, la quale perciò non è affatto una parola chiusa nel passato, ma un principio vivo nella Chiesa del Concilio, del quale l’Azione cattolica è e resta segno e strumento fecondo.
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