La rabbia e la riforma

Stiamo al merito del quesito referendario, ripetono instancabili i sostenitori del SI, evitiamo di trasformare il referendum in qualcosa che non ha nulla a che fare con la riforma della costituzione. Bene che gli elettori si concentrino su cosa effettivamente dice la riforma e su cosa cambierà nell’assetto del sistema politico italiano. Non è però sbagliato collocare il referendum, i toni del confronto, il mood degli schieramenti che si sono andati via via formando dentro un quadro più ampio. Testo e contesto sono ingredienti indispensabili per capire quanto sta accadendo e quanto potrebbe accadere dal 5 dicembre. Sgombriamo subito il campo dagli eccessi. Come Brexit e Trump hanno già dimostrano il sistema ha sufficienti meccanismi di freno per riuscire a riassorbire anche i colpi che appaiono come estremi. Non che Brexit e Trump non abbiano problemi, come si farà Brexit sul serio? Riuscirà Trump a riconciliare la campagna elettorale con le policy di governo? Tuttavia domenica 4 dicembre non siamo di fronte a un dilemma dal quale dipende la sopravvivenza del sistema: riformare la costituzione significa avere governi più efficienti, meno conflitti tra stato e regioni, elettori con più strumenti di indirizzo e controllo. Mantenere le cose come stanno significa continuare a convivere con i problemi di governabilità e stabilità del nostro sistema ed esporci ai giudizi negativi di chi ci guarda da fuori. Normalizzare il confronto non significa però annullarne gli elementi di conflitto più profondi, quelli che innervano le posizioni di buona parte dei leader della conservazione della situazione attuale, quelli che accomunano questo referendum a Brexit e a Trump. Ci sono correnti di pensiero, tensioni trasversali, rimandi inaspettati, alleanze oggettive che consentono di mettere insieme, con uno sguardo molto più ampio delle polemiche sul testo del quesito, questi tre appuntamenti del 2016, Brexit, Trump e il 4 dicembre. Proviamo a vedere qualcosa di tutto questo. Nella discussione internazionale circolano ormai da mesi due formule con le quali si intende sinteticamente dar conto di quanto accade: politics of anger e post truth politics. Insoddisfazione, percezione di impoverimento e delusione per la rapida scomparsa dei benefici della globalizzazione hanno condotto molti elettori a maturare un sentimento che somiglia ad un mix di rabbia e di vendetta. Un sentimento che diventa la causa più prossima di un atteggiamento di severa presa di distanza dalle decisioni delle classi dirigenti, non solo della politica, e perfino dei comportamenti elettorali. Sembrano così saltare sia le coordinate sociali del voto, quelle che connettono l’orientamento politico con il gruppo o la classe sociale di appartenenza, sia quelle ideologiche che connettono il voto agli orientamenti politici. Politics of anger significa che a dominare è un solo schema fatto di due forze, quelli che si sentono lasciati fuori contro quelli che i primi ritengono garantiti, senza calcoli di alcun tipo sulle conseguenze, sugli effetti, sugli scenari. E’ primario esprimere la propria rabbia, ingabbiare i garantiti e i loro sponsor nella politica, nell'economia e nella finanza: finalizzare la rabbia diventa del tutto irrilevante. Senza calcoli significa molto spesso usando scorciatoie che seguono mappe del tutto inattendibili della realtà. Mappe diffuse da campagne di comunicazione massicciamente costruite su argomenti, giudizi, narrazioni che sembrano vere ma curvano le cose in modo da nascondere i nodi cruciali, dove i sentimenti spazzano via ogni possibile anche se ovviamente controverso riferimento ai fatti. Ecco la post truth politics generata da consulenti politici, opinion maker e gruppi politici. Il nascondimento di questi nodi non viene sanzionato nel discorso pubblico ma diventa la prova più efficace della volontà di chi lo pratica di vendicare, in barba alle promesse della globalizzazione, gli arrabbiati – i più - contro gli equilibri di potere che assicurano benefici ai garantiti – i meno. Ecco i fili che legano tutto sommato in modi non troppo invisibili i tre eventi politici del 2016. Non è difficile individuare le tracce della rabbia e dell’egemonia dei sentimenti sui fatti anche nella discussione sulla riforma costituzionale. Rabbia e sentimenti in una certa misura fanno ovviamente parte dell’azione sociale e quindi di quella sua specie che è l’azione politica. Le democrazie dispongono di meccanismi autocorrettivi, esattamente quelli che hanno in qualche moto attutito e metabolizzato anche Brexit e Trump, per tenere sotto controllo questa misura. Ecco perchè anything goes non può essere la risposta appropriata, meno che mai nel nostro paese. Questi meccanismi autocorrettivi hanno bisogno di istituzioni capaci di rispondere, di rielaborare, di reagire in modo efficace e tempestivo. E’ una questione di grado: oltre una certa soglia il giocattolo può rompersi. La riforma costituzionale si trova così al centro di un paradosso. E’ aggredita da queste tensioni e allo stesso tempo contiene la possibilità di un rafforzamento dei meccanismi che riportano queste tensioni sotto la soglia di guardia. Mantenere infatti istituzioni politiche con un basso rendimento significa alimentare esattamente quella rabbia e quei sentimenti che oggi fabbricano la campagna elettorale di una larga parte dei conservatori costituzionali. USA e GB dispongono di istituzioni politiche ad alto rendimento e per questo riescono a metabolizzare anche gli shock. Domenica 4 dicembre non perdiamo l’occasione per rafforzare le nostre istituzioni politiche. #bastaunsi

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