La memoria cristiana nella ricerca teologica.Firenze 1985.Severino Dianich

La memoria cristiana nella ricerca teologica  di Severino Dianich   Dopo aver ascoltato le riflessioni di ieri e il dibattito seguito alla Tavola Rotonda, la tentazione più forte per chi affronta un discorso teologico è quella di collegarsi direttamente agli interrogativi, dal tono anche angosciato, che ieri sono stati pronunciati nel vostro congresso, con la pretesa di portare immediatamente le risposte della teologia alle domande del filosofo, dell'uomo pensoso delle sorti del nostro mondo. Noi teologi parliamo in questi casi di “cortocircuiti”  che si creano ogni tanto tra il pensare teologico e gli interrogativi che agitano il contesto umano, “cortocircuiti”  che ridurrebbero la teologia a forme più o meno larvatamente ideologiche nei suoi tentativi di risposte immediate. Allora, per evitare questa tentazione, mettiamoci in un'altra prospettiva, dal di dentro del discorso della fede, non con l'idea preconcetta che le mediazioni non siano possibili, ma con l'idea che il ponte dovrà costruirsi poi e altrove, soprattutto nell'esistenza più che nei cammini del ragionamento.   Ripercorrendo la memoria   Posta questa premessa, entriamo nel nostro tema: la memoria cristiana nella ricerca teologica. Lo tratto soprattutto dal punto di vista ecclesiologico, come memoria della Chiesa; ed evito una linea che il titolo mi avrebbe potuto suggerire, una linea esclusivamente metodologica, ovvero come funziona metodologicamente lo stimolo della memoria nella ricerca teologica. Mi sembrava che su questa linea avrei corso il rischio di un eccesso di astrazione. Penso dunque la memoria cristiana nella ricerca teologica non come un problema di metodo teologico ma piuttosto dal punto di vista dei contenuti. Si è messa in dubbio ieri l'importanza di questa ricerca di identità… Scavalchiamo il problema che è stato suscitato e semplicemente vediamo come di fatto esista una autoidentificazione della Chiesa che lungo i tempi si muove; e visto che parliamo di memoria, allora utilizziamola immediatamente, cercando di trasferirci nella prima fase di autoidentificazione della Chiesa. La Chiesa delle origini non si autoidentifica attraverso la teorizzazione dei suoi problemi, ma semplicemente nel processo del suo nascere e del suo primo vivere. La Chiesa non parte nella storia sapendo con esattezza chi essa è, ma si scopre, si identifica vivendo in un cammino che ha una meta, assai singolare come meta storica ovviamente, il Regno di Dio, ed ha un punto di partenza anch'esso assai singolare, ma un po' meno, gli eventi fondatori, i fatti accaduti attorno alla persona di Gesù. Da questo punto di partenza, verso questo punto di arrivo si svolge un cammino che si sviluppa con spontaneità, senza che la strada sia già in antecedenza tracciata. Viene in mente il verso di Machado, amato dalla teologia della liberazione: “Pellegrino, la strada non c'è, la strada si fa camminando”. In questo modo di ricerca di una propria identità, o comunque in questo processo di autoidentificazione, all'origine troviamo un evento che è di fondamentale importanza per la Chiesa primitiva ed anche per il Giudaismo contemporaneo: la fine di Gerusalemme. Erit consumatio Jerusalem, inde finis. La distruzione di Gerusalemme è una tappa fondamentale. Questo evento viene letto sia nel Giudaismo sia nel primo Cristianesimo, che poi non sono ben distinti tra loro, secondo lo schema classico di tutto il Vecchio Testamento: la gloria di Jahve abbandonava il tempio a causa dei peccati del popolo. Gerusalemme è distrutta perché Israele ha peccato. Allora si tratta di ricostruire Israele, di ricercare il nuovo Israele, il vero Israele. Ricostruire Israele: questo avviene per il Giudaismo nella diaspora, che era una esperienza già nota, almeno dopo l'esilio di Babilonia, ma che diventa più forte e decisamente determinante nel giudaismo dopo Cristo; nella diaspora Israele trova un suo nuovo centro di identità non più nel tempio ma nel culto della Torah. C'è un fenomeno in Israele che è parallelo alla dispersione cristiana. E' caratteristico, del resto, che al tempo di Gesù, anche Israele trovi interesse per il proselitismo, cosa mai avvenuta nel passato della sua storia. C'è, dunque, del proselitismo legato alla diaspora e a quello che potremmo chiamare, in termini da voi amati, policentrismo, una specie di policentrismo di Israele che non ha più il tempio, non ha più Gerusalemme come punto di riferimento, ma la Torah, il culto della Torah, dovunque, l'ascolto della Parola di Dio e la Legge. Questo movimento che anima il giudaismo intorno alla caduta di Gerusalemme, anima anche la prima Chiesa Cristiana; in fondo il fenomeno ha lo stesso schema di procedimento: il cristianesimo si disperde e trova, attorno al messaggio di Gesù, che in certi settori non è sentito come qualcosa che sta al posto della Torah, ma che ne è il compimento, la sua forza di aggregazione. Matteo soprattutto testimonia questo tipo di spiritualità e di sensibilità della Chiesa primitiva: “Non sono venuto ad abolire la legge ma a compierla”. In questo senso la Chiesa primitiva si sente Israele, il compimento di Israele. Il taglio da Israele sarà molto lento, drammatico, molto doloroso. Avviene in Paolo in maniera più decisa. Il vero Israele: Paolo sente che non si tratta semplicemente di un cammino verso il compimento, ma di un salto di qualità profondo. Ricordate il passo della Lettera ai Galati sulle due città: la Gerusalemme figlia di Agar, la moglie-schiava di Abramo, che Paolo fantasticamente trasferisce nel Sinai, la Gerusalemme della schiavitù; e Gerusalemme nostra madre, la Gerusalemme dal cielo, la sposa libera di Abramo, libera ormai dalla legge. Gerusalemme non sta più in un luogo (è la Gerusalemme del cielo, del dovunque), perché è libera dalla legge. Il superamento dei confini (“non c'è più giudeo né greco, non c'è più schiavo e libero, non c'è più uomo né donna, ma siamo tutti una cosa sola in Cristo Gesù”) dà la consapevolezza, più forte di qualsiasi altro elemento della novità di ciò che sta accadendo, della novità di ciò che si è in quanto nuovo popolo di Dio: vero Israele, con la vera circoncisione (“noi siamo i veri circoncisi”, Lettera ai Romani), la circoncisione del cuore. Questo tipo di autoidentificazione ha allora sì un modo di procedere per distacco — distacco da Israele — che però è un distacco sempre relativo: Israele è la radice santa e il pagano che accede al cristianesimo non deve sentirsi orgoglioso di fronte ad Israele. In realtà, l'elemento di distacco che segna questa autoidentificazione della Chiesa avviene per poter realizzare un processo di autoidentificazione da comunione, invece che da separazione. Da comunione con il mondo intero. La Gerusalemme non legata più alla terra — l'abbandono della terra è il superamento della Legge — permette l'esperienza cristiana, così come essa è espressa dal famoso testo della lettera a Diogneto: “Noi non abitiamo una regione nostra, non parliamo una lingua nostra, non abbiamo nostre leggi, ma noi siamo dovunque come l'anima del mondo”. Un processo di autoidentificazione da comunione che ha poi una sua espressione che ritengo interessante nelle forti e continue proclamazioni di lealismo politico dei cristiani, anche in funzione apologetica, quando l'accusa è quella di essere nemici del genere umano. In Paolo, nei testi neotestamentari, ed anche dopo, troviamo affermazioni di questo genere: “Noi siamo fedeli cittadini dell'impero”. I martiri diranno: “Noi non preghiamo l'imperatore, ma preghiamo per l'imperatore, siamo parte del corpo dell'impero” — di questa grande ecumene di cui il cristianesimo si sente immediatamente cittadino e contro la quale non pensa minimamente di agire. In questo senso mi sembra interessante ricordare l'accusa che Celso, il polemista pagano, fa contro il primo cristianesimo, scorgendo un pericolo, in maniera molto acuta, nel proselitismo monoteistico. Celso sente che l'ecumene imperiale romana, grazie all'ospitalità accordata a tutti gli dei, può realizzare l'unità e la pace universale: tutti i popoli hanno diritto di cittadinanza nell'impero, tutti gli dei hanno diritto ad un posto nel pantheon. La pretesa cristiana dell'unico Dio, accompagnata al vigore dei proselitismo, è il pericolo mortale per l’ecumene imperiale: “Voi pretendete l'assolutismo, voi create un elemento di rottura della pace”. Di fronte a questa accusa, la preoccupazione del cristianesimo primitivo di non ghettizzarsi è un elemento forte. Arrivando ad Eusebio e alla pace constantiniana si rovescerà il discorso, e il monoteismo diventerà la legittimazione dell'unica monarchia politica — un unico monarca in cielo e quindi un unico monarca in terra — e diventerà il supporto della nuova ecumene imperiale, questa volta cristiana. Ma sino al quarto secolo il discorso si pone in questo tipo di dialettica che ho cercato di illustrare. Al di là di questo processo di autoidentificazione progressiva, che si fa camminando, che si fa vivendo, ci domandiamo: si ha ad un certo punto, accanto ad un processo di autoidentificazione, un processo di definizione della Chiesa, di cosa essa è? In realtà, per quanto mi consta, non esiste nessuna definizione dogmatica, sul tipo delle definizioni cristologiche, per esempio, lungo la storia che definisca che cosa è la Chiesa. Però processi di tipo definitorio, forme argomentative di inquadramento teoretico del problema esistono in termini parziali; l'elaborazione dogmatica, che ha il suo centro nella figura di Cristo nel mistero trinitario, indubbiamente è un fenomeno che interessa anche quanto stiamo noi ora esaminando. Elaborare dogmi significa fissare argini: entro questi argini si muove la fede e si muove quindi anche il processo vitale della Chiesa. L'eretico viene punito con l'esilio, in attesa che si preparino i roghi, un poco più tardi. Esilio, perché in fondo si ha una coincidenza tra l'ecumene imperiale e l'ecumene cristiana, e la definizione del dogma significa anche la definizione di questi confini. Questa prima elaborazione dogmatica ha, mi pare, due linee interessanti anche per il nostro tema: c'è una presa di posizione contro la gnosi a favore del corpo e della storia, e c'è una elaborazione dogmatica contro il monarchismo ariano che, negando il carattere di divinità a Gesù Cristo, divideva il mondo tra il divino e l'umano in maniera più netta della ortodossia; l'elaborazione del dogma della trinità di Dio permette alla Chiesa di affrontare il problema reale, intuito con acume da Celso, del monoteismo puro. L'avvio verso una concezione trinitaria dà le possibilità alla Chiesa di una sua collocazione tra il divino e l'umano che sia molto più articolata; mobile, capace di penetrare dentro il tessuto storico più di come sarebbe stato se la Chiesa si fosse basata su un monoteismo puro, atrinitario. Non si ha comunque, in questa ricerca di elaborazione dogmatica, nessuna definizione dell'istituzione: una definizione verrà solo più tardi, nello spazio tipico della società cristiana, perché solo in questo ambito si crea un conflitto di tipo istituzionale. Il conflitto dei primi secoli non è un conflitto istituzionale; è un conflitto sanguinoso — i martiri ne sono la tragica dimostrazione — ma è un conflitto di carattere spirituale, tra criteri e scelte di vita, non un conflitto istituzionale tra Chiesa e impero. Ci vorrà don Sturzo da noi in Italia, per stigmatizzare quelli che non sono capaci di intendere conflitti se non in termini politici. La Chiesa in particolare ha vissuto il suo grande conflitto con il mondo, quello più determinante di tutta la sua storia, non in termini istituzionali. Questa ricerca di una definizione della Chiesa ritorna viva, con stupore di molti, nel Concilio Vaticano II, nell'intervento del Cardinale Suenens. Ma la risposta che il Vaticano II cerca di elaborare si pone sul terreno del simbolo, delle immagini, recuperando la tradizione biblica e patristica di questo modo di parlare della Chiesa. L'ecclesiologia moderna e contemporanea è andata alla ricerca della categoria utile per definire la Chiesa: Chiesa società, Chiesa comunità, Chiesa sacramento, Chiesa popolo di Dio, Chiesa corpo di Cristo, e cosi via. Guardando questo cammino dell'ecclesiologia moderna e contemporanea non si può fare a meno di osservare che sembra quasi, a conclusione di questi cammini, di essere arrivati al punto di saper piuttosto come parlare della Chiesa, che di sapere cosa la Chiesa è.   Mistero e storia   Raccolte queste osservazioni un po' rapsodiche lungo la storia, vediamo di affrontare più direttamente il nostro tema. Che autoidentificazione per la Chiesa è possibile? Mi pare che è possibile scorgere un punto di incrocio nel quale si incontrano diversi processi, vuoi di carattere empirico, vuoi di carattere misterico. Un punto di incrocio che allora diventa anche un punto di concentrazione di elementi. Punto di incrocio di diversi processi di libertà, anzitutto, libertà convergenti: la libertà dello Spirito, che soffia dove vuole e produce, ad un certo punto, qui ed ora, che si incrocia con la libertà di un soggetto che nella sua libera scelta di fede “col cuore crede e con la bocca professa” (Lettera ai Romani). Incontro di queste due libertà con una terza: un altro soggetto che ascolta, percepisce e liberamente crede. Abbiamo davanti a noi allora un tipo di evento in cui la libertà liberante dello Spirito e la libertà liberata dell'uomo si incontrano con l'altra libertà liberata dell'uomo e producono un elemento nuovo. In questo incrocio di tre linee operative si realizza ancora il passaggio di un'altra linea: quella della tradizione. Perché in realtà, se il soggetto che dice “fede”, dice la fede, non rappresenta un atomo isolato, una fioritura nel deserto, ma rappresenta un segmento della tradizione: cfr. Paolo nella I lettera ai Corinti: “Vi ho trasmesso ciò che ho ricevuto”. In questo punto di incontro vediamo allora passare un altro filone, quello della traditio, che si localizza, si manifesta, prende forma nell'incontro di due o tre persone nell'evento della comunicazione della fede. Ma in questo incrocio di linee dinamiche la consapevolezza di fede che è operante coglie un altro incontro ancora, di altri processi di carattere totalmente misterico e per nulla empirico: il Padre che manda il Figlio che incrocia la storia umana; il Figlio che è mandato dal Padre manda lo Spirito che anima il mondo. E' dentro il procedere misterico, che la fede coglie, che l'esperienza della comunicazione della fede si sente possibile e si sente realizzata. Non in un modo autosufficiente, ma come frutto, elemento di concretizzazione di processi che la sovrastano. Questo punto di incrocio è l'atto di comunicazione della fede, che è una emergenza storica, oggi, a livello di processi storici, nella linea della traditio, del mysterion, di ciò che è stato rivelato nascosto da secoli, e cioè che Dio nella storia opera l'evento nuovo della pace e della salvezza. La Chiesa si autoidentifica primariamente in questo suo atto missionario fondamentale, in questo punto in cui la parola “Gesù Signore” viene pronunciata nella libertà di scelta di una persona che la dice, viene sentita ed ascoltata nella libertà di decisione di chi l'accoglie; l'incontro è vissuto come sacramento, come realizzazione di un evento storico nell' evento storico di un processo salvifico-misterico. Questo evento della comunicazione della fede si pone in duplice forma. Esso è una proclamazione di principio: “Gesù Signore”; ed è allo stesso tempo una narrazione, perché si tratta di Gesù. Vediamo di esaminare questi due elementi, perché mi sembrano importanti per cogliere il processo di continua autoidentificazione della Chiesa lungo la storia. Gesù Signore è principio altissimo di per sé, affermazione, proclamazione di principio, anzi originariamente è una dossologia fine a se stessa; infatti, se io pronuncio “Gesù Signore” laddove nessuno crede, la parola non è di per sé comunicante. La estrema affermazione del principio “Gesù Signore” è l'atto del martirio, dove in realtà la parola non ha nessuna via aperta di comunicazione e diventa dossologia pura, oblazione a Dio, gratuità totale. Ma lo scopo del principio altissimo non è ovviamente quello della dossologia, ma quello della comunicazione della fede. D’altro canto, in quanto principio di questo carattere universale ed assoluto, la proclamazione di “Gesù Signore” si pone certo come un “prendere o lasciare” — o Gesù od un altro sarà il Signore. E' per questo che la proclamazione della proposizione fondamentale, originaria, della fede che ha come suo scopo la comunione universale dei figli di Dio si imbatte immediatamente nella contraddizione. Infatti la proclamazione, fatta per realizzare la comunione, viene accolta o rifiutata, producendo così di fatto una discriminazione. Questa contraddizione è però vitale, è interna al processo stesso. La plantatio ecciesiae, la fondazione della comunità non può essere il termine della “missio”, della missione, perché una volta che si “pianta” - la Chiesa, una volta che nasce la comunità il processo non ha fatto altro che arrivare ad un crocevia da cui partono infinite altre strade. Il termine della missione è il Regno, non la plantatio ecclesiae. La impossibilità di cancellare la contraddizione è data fondamentalmente da questo fatto: che Signore è Gesù, non la Chiesa. Qui passiamo allora all'altro elemento: Gesù Signore come proclamazione di principio, ma anche Gesù Signore come narrazione. II principio altissimo infatti ha contenuto storico: Gesù. Notate come la primitiva formula di fede della Prima Lettera ai Corinzi (cap. XII) non dice “Cristo Signore”, ma dice “Gesù Signore” , e non dice — ancor più importante —, come avrebbe potuto: “Dio Signore”, ma “Gesù Signore”. Allora questa proposizione ha per soggetto un soggetto storico: Gesù di Nazareth. E' il crocefisso che è risorto, è Gesù di Nazareth che è il Signore celeste. Non si può quindi dire Gesù Signore senza narrare di Gesù, chi era, cosa ha detto e cosa ha fatto. Non pura proclamazione della signoria di Dio, ma della signoria di un personaggio della storia, di un protagonista dei nostri processi storici. Ed è per questo allora che l'elemento della narrazione svela la sua forza deideologizzante rispetto al principio altissimo. Se si proclamasse Dio Signore, avremmo la proclamazione della Signoria dell'invisibile, dell'inafferrabile, dell'indicibile, pronto a diventare la scatola vuota nella quale qualsiasi contenuto potrà essere messo. La proclamazione della signoria di Dio postula immediatamente con sé la nascita di un sistema “sacro” di mediazione che occupa il posto di Dio nella storia: allora l'invisibile Dio è visibile nella visibile chiesa, la signoria di Dio diventa signoria della chiesa. In fondo tutti i tentativi teocratici del Medioevo — e quelli cripto-teocratici di molti altri tempi — fanno questo cammino. Da Dio ai messaggeri di Dio, agli ambasciatori di Dio i quali esercitano sul mondo il potere di Dio. Ma è Gesù il Signore, non semplicemente Dio. Gesù di Nazareth impegna semplicemente alla sequela; di Gesù di Nazareth si può dire cosa ha detto, cosa ha fatto: non ha detto tutto, non ha fatto tutto; è un soggetto della storia come tanti, ha detto alcune cose, ha fatto alcune cose: queste impegnano alla sequela. La signoria proclamata in cielo ha i contenuti delle cose che Gesù di Nazareth ha fatto e detto in terra, non uno di più. Questo impegno alla sequela significa una chiamata della Chiesa all'obbedienza a Gesù Cristo suo Signore come elemento in un certo senso sporadico nell'insieme del processo storico, in quanto si appella a certi dati e non a tutti, a certi e non a più di quelli che nella narrazione su Gesù di Nazareth si danno.   L'oggi dell'annuncio   Un'altra osservazione sulla narrazione mi sembra utile per il nostro intento ed è quella che ci richiama il carattere complesso della narrazione, perché in realtà non si tratta solo della narrazione su Gesù di Nazareth. Tutti conosciamo il dittico di Luca, che scrive il Vangelo e gli Atti degli apostoli: la narrazione è in questo dittico, sempre. Non è possibile narrare solo di Gesù, bisogna anche narrare dei testimoni di Gesù. Ciò che è accaduto all’origine in Luca, in realtà è esperienza quotidiana dell'evento della comunicazione della fede, perché si tratta di comunicazione di fede, non di comunicazione di un oggetto conosciuto attraverso l'esperienza o dimostrato attraverso la scienza o attraverso il ragionamento; non si tratta di un oggetto comunicato al modo di una notizia che si comunica e che non ha coinvolto per nulla il soggetto comunicante. La comunicazione della fede non è comunicazione giornalistica o storiografica: è comunicazione di fede. Uno comunica ciò che crede, non ciò che sa, semplicemente. Si può infatti dare comunicazione dello stesso oggetto in quanto conosciuto, e non è comunicazione di fede. Il salto di qualità è nel soggetto comunicante, in quanto se egli è soggetto credente, allora ciò che comunica è comunicazione di fede. Ma questo allora che significa? Che il soggetto narrante non può fare la propria comunicazione di fede senza narrare la propria fede, non può narrare di Gesù senza dire che egli crede in Gesù, che ha creduto in Gesù, quindi non può farlo senza narrare sé stesso. Allora la comunicazione della fede implica la soggettività dell'annunciante, il quale trascina con sé, nell'atto del comunicare la fede, tutta la sua esperienza storica che lo fa oggi, qui, questo soggetto che oggi, qui, dice la fede. Egli è oggi, qui, a dire la fede in forza di tutto quello che è nella sua esperienza storica, e questo coinvolgimento porta con sé, nell'esperienza dell'individuo che dice la fede la sua storia, la storia della sua città, del suo popolo, della sua vicenda, e trascina con sé la storia della comunità intera e della Chiesa intera. Ora, questo elemento di complicazione della narrazione su Gesù di Nazareth porta con sé delle evidenti e complesse conseguenze. E' qui, al livello della narrazione, che abbiamo un indispensabile, inevitabile intreccio tra memoria cristiana e storia a tutti i livelli possibili. Già la memoria di Gesù lo contiene, memoria di Gesù di Nazareth, non di un fatto divino trascendente. Gesù non è la nube luminosa che stava sul tempio, che appariva e spariva, che veniva dal cielo. Gesù nato dal seno della Vergine, nato sotto la Legge, è un soggetto storico registrabile nell'anagrafe della storia sino al momento della sua morte: il risorto sfugge all'anagrafe storica, il crocefisso no. Allora il ricordo di Gesù, la memoria, la narrazione su Gesù implica inevitabilmente il complesso della narrazione storica. Abbiamo ricordato il primo impegno dogmatizzante della Chiesa contro la gnosi. Non a caso contro la gnosi: si trattava di garantire questa possibilità fondamentale derivante dal fatto che Gesù avesse un corpo reale, fosse un uomo vero, di garantire l'intreccio storico fondamentale della Chiesa; non solo, ma Gesù di cui si narra non è neanche semplicemente la Parola di Dio da ripetere, non è la parola di Dio dettata dal profeta, come il Corano, da ripetersi in arabo perché Dio ha parlato arabo: è parola di un soggetto storico che è in dialogo con tanti soggetti storici dentro la storia. Così, dalla memoria di Gesù, dalla narrazione su Gesù, si realizza, per l'evento che stiamo analizzando della comunicazione della fede, una possibilità di comunicare a largo raggio, una comunicazione pre ed extra iniziatica. Gesù Signore al limite potrà essere pura dossologia se nessuno attorno a me crederà alla proclamazione di Gesù Signore. Ma la narrazione su ciò che Gesù disse e fece, anche per chi non dirà con me che Gesù è il Signore, avrà senso. Gesù Signore non ha senso fuori della grammatica della fede, ciò che Gesù disse e fece ha invece senso. In questo aver senso della narrazione contenuta dentro il principio “Gesù Signore” si realizza la possibilità di comunicazione pre ed extra iniziatica. Notate la tentazione di ogni religione e del cristianesimo in particolare di parlare lingue incomprensibili —l'amore per il latino, la liturgia orientale che usa ancora lingue greche arcaiche... La lingua incomprensibile è dossologia pura, che sembra affermare il suo carattere dossologico tanto è incomprensibile. Eppure è a lode di Dio, non ha altre funzioni. La liturgia cristiana ha sempre dentro di sé narrazioni, anzi lo stesso rito è memoriale, è narrante: “La sera prima di morire Gesù cenò con i suoi...” E' narrante la parola liturgica: essendo rito non ha senso per il non iniziato, ma la narrazione contenuta ha senso per ogni uomo che ascolta. Chi partecipa alla Eucarestia e non crede è completamente estraneo alla significanza misterica, ma non è assolutamente estraneo alla narrazione di un Gesù che uccisero e che prima di morire fece la cena con i suoi. La memoria della Chiesa che poi si intreccia con la memoria di Gesù, la narrazione sulla Chiesa che si intreccia con la narrazione su Gesù, viene da un processo storico (tutto ciò che la Chiesa ha come storia alle sue spalle) e si apre verso un processo storico. L'atto del comunicare la fede è segmento della tradizione, viene dalla trasmissione precedente e tende alla comunicazione e alla condivisione della fede. In questo la Chiesa ha per protagonisti gli stessi protagonisti della storia umana; un dato assolutamente elementare, eppure in alcuni casi dimenticato. La Gaudium et Spes al n. 40 efficacemente lo ricorda: “La Chiesa cammina insieme con l'umanità tutta, e sperimenta assieme al mondo la medesima sorte terrena”. Naturalmente tutto questo comporta delle conseguenze di fondamentale importanza, e cioè che l'evento in cui la Chiesa si autoidentifica è un evento che si pone con carattere di assolutezza e allo stesso tempo e per le stesse ragioni, con la stessa forza dl fondazione, si pone come atto contingente dentro la storia. Assoluto è il Signore, non io che credo in Gesù Signore; assoluto è il Signore e non la Chiesa; Gesù è il Signore, non io sono il Signore. Però non posso parlarvi di Gesù senza parlarvi di me. Allora la Chiesa trova se stessa nel radicamento nel mistero, nella volontà salvante di Dio con carattere di universalità e di assolutezza e allo stesso tempo si pone immediatamente con consapevolezza di fragilità, di contingenza, di provvisorietà.   Una teologia ecumenica   Un ultimo punto, rapidamente, vorrebbe portarci a fare una riflessione finale sul cammino teologico che ci si apre davanti. La teologia contemporanea è essenzialmente determinata da una consapevolezza nuova: quella della mutazione radicale del tipo di storia di società in cui il discorso cristiano oggi si svolge; la consapevolezza della fine della Societas Christiana e della fine delle aspirazioni a restaurarla porta con sé naturalmente un possibile ritorno della Chiesa e della coscienza ecclesiale al confronto con il mondo come elemento a sé connaturale, non come elemento patologico del suo discorso. Il mondo non è una Chiesa mancata, non è la realtà provvisoria in attesa che la missione sia compiuta, ma è l'atto missionario fondamentale che crea la Chiesa e il mondo in questo loro rapporto. Una consapevolezza di questo tipo innesca processi di ricerca ecclesiologica aperti. L'esperienza teologica tipica della restaurazione fu la neoscolastica come grande tentativo di definizione totale dell'esperienza cristiana, e dentro l'esperienza cristiana, di tutta la realtà, in quella che Chenu chiamava la métaphysique sacré. Il tentativo neoscolastico, soprattutto in certi ambienti, come Maritain percepiva, si congiungeva in fondo come il tentativo di ritorno ad un tipo di mondo in cui l'interpretazione metafisica totalizzante potesse corrispondere ad un tipo di organizzazione della società in cui Chiesa e società, Chiesa e mondo, fossero totalmente omogenei in una definizione totale dei ruoli e degli scopi. L'ultima spiaggia di questo tentativo è in fondo l'aggancio, la costruzione o la definizione di quel perno su cui ruoterebbe il rapporto tra Chiesa e società che è la lex naturae di cui la Chiesa sarebbe l'unica legittima interprete. C'è una tesi che correva nella neoscolastica degli anni '30, secondo cui la Chiesa avrebbe giurisdizione solo sui battezzati, ma magistero su tutti, perché è l'unico interprete divinamente legittimato della lex naturale che riguarda tutti. E' assai curiosa e interessante questa tesi: laddove oramai le possibilità di restaurazione di un potere diretto od indiretto della Chiesa sulla società stavano venendo meno, allora si sviluppa questo recupero dell'intreccio tra Chiesa e società. Credo che dal punto di vista teologico, oggi nessuno pensi ad un recupero della neoscolastica, segnata da un superamento definitivo dell'impresa. Ma se questa impresa è ormai definitivamente superata ed abbandonata, allora non resta che un'altra via: l'apertura ad una teologia essenzialmente ecumenica — ove intendo ecumenismo in senso largo, non solo ecumenismo interconfessionale. Una teologia essenzialmente ecumenica che studi l'esperienza cristiana come qualcosa che non accade mai esclusivamente  ad intra della Chiesa, una teologia che consideri l'esperienza cristiana mai come dossologia senza narrazione, mai come rito senza comunicazione, mai come iniziazione senza rapporto con il mondo, mai come plantatio ecclesiae senza continuazione della missione. Una teologia ecumenica che superi anche la formula del cristianesimo anonimo, per quel tanto che la formula potesse far sospettare che il non cristiano non fosse preso sul serio, ma gli si dicesse: “Va là che in fondo sei cristiano anche tu!”. E' il prendere sul serio il non cristiano l'apertura verso una teologia ecumenica, cioè acquistare consapevolezza che non si può fare il discorso sulla fede cristiana senza ragionare insieme sull'esperienza di ogni uomo, visto che il principio fondamentale della mia fede “Gesù Signore” non può essere detto senza fare narrazioni, nella lettura instancabile di ogni intreccio accaduto nel passato o possibile nel futuro tra storia di Gesù e storia degli uomini.   Severino Dianich (Testo non rivisto dall'autore) _____________________________________________________________________________________________   Dagli Atti del 47° Congresso Nazionale della Fuci: Memoria e mutamento: la ricerca di identità nella società complessa (Firenze, 1985).  Pubblicati in Ricerca, Nuova Serie di. Azione Fucina, Luglio 1985 – Anno I – N1, pp. 63-67  

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