La bandiera del debito pubblico, di Luciano Iannaccone

L’importante riflessione di Giovanni Cominelli “Come è potuto accadere ?!..” sul Notiziario SantAlessandro del 9 ottobre non può, per la sua ricchezza, essere adeguatamente riassunta ma è facilmente reperibile in rete. In particolare l’autore, domandandosi come è potuta irrompere una compagine governativa come quella che ci affligge, spiega che i suoi numerosi elettori non hanno affatto cambiato strada, ma continuano su quella che governanti e cittadini hanno consensualmente imboccato dalla seconda metà degli anni settanta. Quella della spesa pubblica e del debito pubblico crescente: una “mala educacion” di lunga durata, che ha plasmato la mentalità di milioni di cittadini e di elettori e di eletti per decenni”. Come la bandiera rossa di “Tempi moderni”: chi la raccoglie incanala il consenso, Charlot nel film, Di Maio e Salvini nel nostro rozzo e drammatico presente. Per questo solo un’operazione di verità può “incominciare a ricostruire percorso e rappresentanza”: “il discorso dei Liberi e forti di don Sturzo ai Liberi e forti. Sempre che nel frattempo il Paese non esca dai cardini”. Sono totalmente d’accordo con l’analisi di Cominelli, anche perchè a più riprese, su questo blog, ho insistito sulla degenerazione dell’incontrollata spesa pubblica corrente, di deficit e debito dalla seconda metà degli anni settanta come causa fondamentale, accanto ad altre, della nostra sostanziale stagnazione e fragilità in questo ultimo ventennio. Ma per aiutare il nostro presente credo necessario cogliere sommariamente i punti chiave dell’evoluzione, che si è compiuta in questi quarant’anni: sia delle attese dei cittadini che della politica nazionale. Partirò da quest’ultima. “Ab initio autem non fuit sic”, come testimonia esemplarmente l’introduzione che Giorgio Amendola scrive nel settembre 1976 al suo: “Gli anni della Repubblica” (ed.Rinascita), che raccoglie scritti apparsi nel decennio precedente. In quel momento, dopo il voto del 20 giugno 1976, il peso politico di Amendola è al culmine. Nella segreteria nazionale e nelle federazioni del PCI prevale la sua linea politica, fondata sulla stretta unità con i socialisti come condizione di un fruttuoso incontro con la DC per un governo di unità democratica, visto come “sforzo di lavoro e di economia, sforzo di autodisciplina nazionale”. Amendola rivendica con orgoglio l’apporto determinante del movimento operaio e delle sinistre alla rilevante crescita economica e sociale trentennale dell’Italia, che, pur in forte polemica con molte scelte politiche, sociali e civili, riconosce alla direzione governativa democristiana. Ne elenca i difetti, a partire dalla politica clientelare (rapidamente imitata da altre forze politiche) con la crescita inarrestabile del “numero di pensioni di invalidità, da 501.828 a 5.021.407”, mentre “nel settore della pubblica amministrazione si è fatta particolarmente sentire l’opera corruttrice della DC che, per ragioni clientelari, ha operato la moltiplicazione dei posti, anzi degli stipendi, molte volte pagati anche in assenza di una reale attività lavorativa”. All’origine di questo “gonfiamento dell’occupazione nelle attività terziarie e nella pubblica amministrazione, i cui costi sono aumentati senza che avvenisse un pari aumento della produttività” sta “il mancato incremento degli occupati nell’industria nell’ultimo decennio: “la base produttiva non si è allargata nel modo necessario per sostenere il peso delle importanti trasformazioni sociali”, il capitale fisso delle imprese è ancora inadeguato. Amendola ritiene necessaria una battagliera politica di unità nazionale per combattere l’assistenzialismo clientelare e rilanciare la produzione industriale, la produttività del sistema, le riforme in linea con quello che oggi chiamiamo il “glorioso trentennio” europeo che ha promosso sviluppo economico e crescita civile e sociale. Ma la sua visione, sostenuta dalla maggioranza CGIL di Lama e vicina a quella della borghesia produttiva, per voce di Ugo La Malfa e di Giovanni Marcora, aveva il limite di non cogliere le nuove dinamiche mondiali in divenire. Era infatti una prospettiva, valida come etica del lavoro e promozione della corretta iniziativa economica e sociale, che stava per essere investita dall’incipiente svolta epocale dell’economia mondiale ( globalizzazione, digitalizzazione, nuovo terziario, economia finanziaria). Essa imponeva di riformulare tale prospettiva in una visione aperta alle sfide del futuro che irrompevano nel presente, pena la sua astrattezza. E ciò proprio per promuovere lavoro e produttività. Ma tale coscienza mancò allora sia al centro che a sinistra, nella direzione politica e nella riflessione economica, spesso attardate su temi caduchi e non raramente su una “programmazione” libresca. La fine delle politiche di unità nazionale fece il resto. Successivamente anche gli stimoli di Nino Andreatta (divorzio Tesoro-Bankitalia), della CISL di Pierre Carniti (referendum sulla scala mobile) nella prima metà degli anni ottanta e di non molti altri sollecitavano scelte innovative e di prospettiva da parte delle élites politiche ed economiche. Invece ha prevalso, contro sia Amendola che la nuova dinamica economica mondiale montante, la scelta più facile, funzionale al tramonto dell’unità nazionale e alla massiccia intensificazione della lotta clientelare per il consenso, dentro e fuori dal governo pentapartito. Quella della proliferazione della spesa pubblica improduttiva, dell’assistenzialismo, del deficit, del debito. Che nel 1994 saliva ben oltre il 120%, più del doppio rispetto al 54% del 1974. E a chi avesse evidenziato le nuove sfide economiche mondiali, che non trovavano alcuna consapevole risposta, se non negativa nel crescente debito, i capi dei partiti in lotta avrebbero risposto ognuno accusando l’altro di obbligarlo a difendere il proprio consenso elettorale e la giustizia sociale: “primum vivere”. Troppi elettori, singoli e gruppi incuranti del futuro comune, hanno premuto in questa direzione e sono stati incoraggiati a chiudersi nel “particulare” e nel culto solitario dei loro diritti in perenne espansione, usando il voto come bancomat. “Se ho un desiderio, esso diventa un bisogno. E se ho un bisogno, esso diventa un diritto”, scrive Giovanni Cominelli. Una parabola già iniziata, ma che prima conviveva con il peso di un forte voto di opinione, preoccupato sia dei propri interessi che del futuro comune, come aveva mostrato ad esempio quello del 20 giugno 1976. Un cammino convergente di élites e di elettori, immemori del monito di Aldo Moro: “questo Paese non si salverà, la stagione dei diritti e delle libertà si rivelerà effimera, se in Italia non nascerà un nuovo senso del dovere” (1973). In questa evoluzione involutiva è però elementare onestà intellettuale riconoscere che Craxi e Andreotti al governo, Berlinguer all’opposizione, con responsabilità diverse e spesso contrapposte, non sono stati solo impari a sfide epocali. Avevano ognuno una propria prospettiva politica, anche se insufficiente ad un presente reso complesso da crescenti appetiti. Hanno fatto troppo spesso la scelta più facile, ma si sarebbero vergognati nel dire che volevano “rendere felice il popolo”, come il piccolo Di Maio. Sapevano farsi ascoltare misurando le parole, ma non le snocciolavano come giaculatorie per la gioia dei social, come Salvini. Insomma, avevano più rispetto sia della gente che di se stessi. E’ noto del resto come spesso la tragedia finisca in farsa. Dopo questa breve analisi su alcune svolte all’origine dell’inarrestabile dilatazione dell’assistenzialismo a debito in Italia, è necessario tornare al presente. Siamo su un crinale molto pericoloso. Lo sportello automatico rischia di inghiottire il bancomat senza restituirlo e senza erogare denaro. Ma il culto dei diritti può entrare in crisi se l’assistenzialismo mostra il suo volto distruttivo? La crisi è un giudizio della realtà su di noi, che pretende di essere accettato e fatto proprio. Se alla forza della realtà si uniranno parole di verità, qualcosa di nuovo può accadere. Lo spero con l’amico Cominelli.

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