Inscrivere lo stato nella sussidiarietà. Non viceversa.

Si parla molto di sussidiarietà, spesso spacciandola per qualcosa di ormai acquisito. Diritto comunitario e riforma costituzionale del 2001 avrebbero già fatto il miracolo: ridurre l’invadenza dello stato e articolare sapientemente i pubblici poteri. Lo sviluppo di una dinamica sussidiaria nella società italiana, prima ancora che nell’organizzazione dei pubblici poteri, è invece lento, difficile e contraddittorio. La partita tra sussidiarietà e primato della politica è aperta. Ben ha fatto dunque Franco Monaco (http://www.tamtamdemocratico.it/)  a tentare un chiarimento se non altro a beneficio di un uso consapevole del termine sussidiarietà nel discorso pubblico. E tuttavia anche Monaco non sfugge alla sindrome statocentrica con la quale una parte del PD legge il principio di sussidiarietà. Una lettura rivolta al passato mentre, sotto i nostri occhi lo stato perde quota, il diritto diventa globale, la regolamentazione è pubblica e privata allo stesso tempo. Le lenti, nel caso di Monaco, sono certo quelle del dossettismo per il quale allo stato spetta comunque una funzione di ricapitolazione della dinamica sociale. Da questo punto il pezzo di Monaco è importante perché mostra una chiara e autorevole volontà di continuismo con la famosa relazione di Dossetti del 1951 (che merita di essere letta integralmente http://comitatidossetti.wordpress.com/scritti-di-don-giuseppe-dossetti/funzioni-e-ordinamento-dello-stato-moderno/) che non è priva di accenti statalisti  comuni a porzioni consistenti della tradizionale sinistra socialdemocratica. Certo la sussidiarietà nasce in un orizzonte pluralistico, esprime la precedenza dei diritti della persona rispetto alla stato, ma poi si finisce inesorabilmente con l’affidare allo stato il soddisfacimento di quei diritti. E’ l’interventismo “sano e virtuoso” dello stato, come dice Monaco, che costituisce la norma di chiusura. Un'impostazione inutilizzabile oggi, come precisò anche Pietro Scoppola proprio intorno a quel testo di Dossetti già vari anni fa: "viene riproposto in quella relazione, quel tradizionale concetto di un 'bene comune' in sé definito e non frutto della dialettica delle realtà presenti nella società". Una visione dinamica e aggiornata del principio di sussidiarietà, sulla scia di queste riflessioni di Scoppola, porta invece a diffidare dell’interventismo dello stato. Innanzi tutto perché in una visione sussidiaria è la politica a ritrovare la sua funzione nella società e non lo stato a vedere riaffermato il suo ruolo. Come dice un recente bel libro di Gregorio Arena e Giuseppe Cotturri con la sussidiarietà la politica torna al suo posto. A maggior ragione, si può dire, lo stato torna al suo posto. La sussidiarietà sancisce la distinzione tra ciò che è pubblico e ciò che spetta alla politica e, in seconda battuta attraverso la sua dimensione verticale, alla politica in forma di stato. Il primo non coincide con la seconda e meno che mai con lo stato. Né allo stato è chiesto di ridurre ad unità il molteplice. Alla sussidiarietà interessa in primo luogo la produzione di beni pubblici non la riaffermazione del ruolo dello stato. Un ruolo che in questa produzione non vanta nessun primato sulle altre sfere sociali. Il bene comune, cioè la tutela dei diritti fondamentali della persona, spetta infatti a tutte le sfere sociali, nel linguaggio della costituzione è la Repubblica (e non lo stato) a riconoscere e garantire i diritti. E’ quello che in altri termini si definisce poliarchia, una visione della società nella quale la politica è forte, cioè capace di decidere, ma limitata, cioè priva di ogni sovranità sulle altre sfere sociali. Nella quale la regolazione pubblica non necessariamente, e anzi in misura sempre minore, è una regolazione statale. Nella quale i soggetti privati, anche quelli che operano in una logica di mercato, possono svolgere funzioni di rilievo pubblico e curare interessi di carattere generale. Nella quale più che di bene comune si dovrebbe cominciare a parlare di beni comuni, cioè a pensare in termini di differenziazione incomprimibile piuttosto che in termini di ricapitolazione unitaria. Ma, ci si potrebbe chiedere, esiste una sussidiarietà di destra e una di sinistra? Monaco risponde di sì, ma anche questa è una risposta che guarda al passato. Ci sono senza dubbio uno statalismo di destra e uno statalismo di sinistra, accomunati dalla diffidenza verso le dinamiche di tipo poliarchico. E, allo stesso tempo a sinistra come a destra, vi è un modo chiuso e statalista di interpretare la sussidiarietà. Il corporativismo si adattava ad una lettura statalista della sussidiarietà ma non era certo compatibile con il pluralismo e la poliarchia. Il contesto di interpretazione della sussidiarietà pesa infatti in modo determinante per definirne gli esatti contorni. La linea di frattura non passa però tra destra e sinistra ma tra una lettura aperta e poliarchica della sussidiarietà e una lettura chiusa e dirigistica. Vi è dunque un grande bisogno di articolare la frattura tra destra e sinistra dentro un quadro nuovo, come aveva tentato il PD immaginato nel 2007 o come hanno fatto i cattolici nella Settimana sociale di Reggio Calabria nel 2010. Con le categorie di Monaco non si riesce a rispondere alle domande di oggi. La Big Society di Cameron è di destra o di sinistra? Il si al referendum sui servizi pubblici locali è di destra o di sinistra? Sostituire al monopolio dello stato, della regione o di un altro potere amministrativo un collusivo oligopolio privato è di destra o di sinistra? La sinistra che vuole governare ha invece urgente bisogno di saper rispondere a queste domande.

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