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Due volumi su Dossetti: ma il dossettismo non è un blocco, né privo di contraddizioni di Stefano Ceccanti Gli studi su Dossetti vengono ad arricchirsi di due nuove contributi: uno di taglio generalistico “Giuseppe Dossetti. Un innovatore nella Democrazia Cristiana nel dopoguerra” di Fernando Bruno (Bollati Boringhieri) ed un puntuale “Non abbiate paura dello Stato! Funzioni e ordinamento dello Stato moderno. La relazione del 1951: testo e contesto, a cura di Enzo Balboni (Vita e Pensiero). Tutti e due i testi, soprattutto il primo, sono molto simpatetici con l’Autore studiato e tendono a descriverne il pensiero come un blocco, mentre alcune contraddizioni interne non appaiono sottovalutabili. Il testo di Bruno, in sostanza, finisce giustamente col classificare Dossetti tra le sinistre non comuniste, in questo potenzialmente portatore di un disegno diverso da quello di De Gasperi, anche se, per inciso, non vi si tratta delle posizioni dossettiane su matrimonio e famiglia, più allineate invece, come dimostrato dai lavori di padre Sale, sulle posizioni della Santa Sede in particolare sulla costituzionalizzazione dell’indissolubilità rispetto a quelle di De Gasperi. Tuttavia il punto chiave è quello tradizionalmente spiegato da Scoppola, che non appare obiettivamente confutato dal libro: nel contesto internazionale di allora, di fronte a una sinistra a dominante comunista, il ruolo che poteva concretamente svolgere quella componente era quello di aiutare De Gasperi a resistere alle pressioni di sbandamento verso destra. Pressioni tutt’altro che marginali e che, come segnalato da uno studioso di matrice dossettiana come Leopoldo Elia, trovavano alimento nella forza del Pci che in molte parti del mondo cattolico finiva per far ritenere necessario un anticomunismo diverso da quello democratico degasperiano. Più in generale l’egemonia comunista sulla sinistra rendeva non superabile l’unità politica dei cattolici al centro e quindi impensabili al momento politiche riformiste più accentuate. Senza negare quindi la fecondità di varie intuizioni e sensibilità del gruppo di “Cronache sociali”, compresa la capacità di dialogo con altre aree politico-culturali, ben segnalate dal libro e su cui non ci si sofferma per limitarsi qui ai soli dissensi, non sembra pertanto funzionare la chiave di lettura dell’Autore che sembra per lo più consistere nell’opposizione tra un presunto tatticismo governativo di De Gasperi e un coerente riformismo dossettiano. Non si può ad esempio derubricare come tatticismo o come mirante a difendere solo l’unità del partito, in modo introverso, l’agnosticismo di De Gasperi dal Governo sul referendum istituzionale, dato che, come ha fatto rilevare sempre Leopoldo Elia, la preoccupazione principale dello statista trentino consisteva nel fugare dubbi sulla correttezza del Governo sulla regolarità della consultazione. Anche l’idea che la visione dossettiana di partito, tesa a valorizzare il partito extraparlamentare distinguendosi dal Governo fosse più moderna e più feconda non appare affatto convincente: quanto alla modernità, in realtà, nelle forme parlamentari si è sviluppato esattamente l’inverso (come segnalato sempre da Leopoldo Elia) e quanto alla degenerazione del partito in partito-Stato essa è dipesa dall’assenza di una praticabile alternanza al potere e non dalla concezione del partito. Il Volume non è del tutto acritico sui dossettiani e, almeno sull’adesione alla Nato, si ammette che in quel caso “il realismo degasperiano è più meditato e più fondato”. Non si tratta però solo di realismo ma in De Gasperi di una vicinanza di fondo alle democrazie occidentali e, in quel caso, in Dossetti di un’opposizione al liberalismo e nello specifico alla democrazia americana che era sbagliata prima sul piano teorico e solo dopo sul piano politico-pragmatico. Le sinistre non comuniste europee si sono sempre mosse in questa chiave non solo europea ma anche di integrazione atlantica. Non è un caso che molte equilibrate ricostruzioni di matrice più liberale, si pensi alle pagine di Giuseppe Bedeschi sul pensiero politico italiano del novecento, assegnino a questa parte del pensiero e dell'azione dossettiana un ruolo rivelatore di un disegno più ampio di una tendenza dogmatica e illiberale che - pur in un'intenzione di forte cambiamento - si dimostrerà particolarmente arretrata rispetto ai processi di differenziazione e di modernizzazione della società italiana. Ulteriore riprova di queste ambivalenze si hanno nella puntuale ricostruzione curata da Balboni sul famoso testo di Dossetti del 1951 e sul relativo contesto, ossia il convegno dei Giuristi Cattolici del 1951. Balboni propone una ricostruzione convincente su almeno tre punti: l’invito ad avere fiducia nello Stato di tutti aveva una potente valenza anti-integrista, la contestazione del vecchio Stato liberale monoclasse centrato solo sulla proprietà, non interventista, era al passo coi tempi e in profonda sintonia con la Prima parte della Costituzione (nei Giuristi cattolici le posizioni più tradizionaliste e più vetero-liberali erano ancora forti e andavano combattute), la denuncia degli eccessi troppo garantisti della seconda Parte della Costituzione (a cominciare da quella, attualissima, del bicameralismo ripetitivo, da lui definito negativamente integrale) era coraggiosa e coerente con la battaglia sui principi. Solo strumenti efficaci, cioè della “parte organizzativa”, potevano garantire la forza dei princìpi, della “parte dichiarativa”. Non si può tuttavia negare un serio limite, che la pars construens di Dossetti risentisse di eccessi anticapitalistici tali da andare al di là di una forma di Stato democratico-sociale. Qua e là lo ammette anche Balboni (nelle note sulle persone giuridiche private senza le quali qualsiasi economia di mercato sarebbe impensabile e a difesa della Corte Suprema americana che era vista come naturalmente alleata del potere economico), però poi cerca di salvare l’affermazione più discussa, quella secondo cui “lo Stato deve fare la società, traendo il corpo sociale dall’informe”. Balboni tenta una difesa, richiamando il fatto che i maggiori critici sarebbero stati in realtà i difensori di visioni liberali-oligarchiche, vetero o neo-conservatori. Tuttavia non tutti i critici possono essere confutati così, basti ricordare Pietro Scoppola, secondo il quale quella visione monarchica della politica, affidava ad essa il ruolo troppo forte di interprete “di un bene comune in sé definito e non frutto delle realtà presenti nella società”. Lo Stato democratico-sociale doveva in altri termini essere visto come una parziale e importante discontinuità rispetto allo Stato liberale, ma non come una sua totale rottura. Qui non si tratta infatti solo di procedere ad una salutare storicizzazione della posizione dossettiana. Né appare possibile la via del tatticismo politico. Il punto quindi è teorico in tutta la sua radicalità. Il pensiero dossettiano resta imbrigliato in uno schema che si pensa come estraneo alla democrazia liberale, pur nelle forme espresse dall'organizzazione dello stato pluriclasse, per inseguire un modello di "democrazia reale e sostanziale" come dirà negli anni novanta stigmatizzando la ripresa neo liberale di quegli anni. Ce lo ricorda in uno dei passaggi finali l'ultimo libro di Pombeni. Una democrazia reale e sostanziale nella quale l'ordine ha un primato sul conflitto e la politica sulle altre sfere sociali. Insomma, malgré eux, i due volumi finiscono col darci molti ulteriori argomenti per confermarci nell’idea che la complessità del dossettismo non sia tale da farcelo ricostruire come un blocco, da accettare o rifiutare in toto. Hanno quindi un grande merito, anche se per vari aspetti preterintenzionale

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