Il voto con l'Europa in palio - Enrico Morando e Giorgio Tonini da "Il Foglio"
Fino a non molto tempo fa, sembrava corretto ritenere che il processo di costruzione dell’Unione Europea avrebbe proceduto come un gioco a somma zero: tanta sovranità perdono gli Stati nazionali membri, quanta ne acquisiscono gli organismi comunitari. La globalizzazione – resa possibile dalla rivoluzione tecnologica – ha privato questo approccio del suo fondamento: l’effettivo potere di “governo” dei principali problemi del nostro tempo – dal riscaldamento globale alla disoccupazione tecnologica, alle migrazioni che coinvolgono ogni giorno milioni di uomini e donne in cerca di pace, diritti umani, lavoro e benessere – non risiede più nei confini dei singoli Stati nazionali europei. Se “governo globale” deve esserci – e deve esserci, se non ci si vuole rassegnare al crescente disordine e al conflitto di tutti contro tutti -, solo l’Europa come tale ha le dimensioni minime per esserne protagonista, con gli altri Big dell’economia e della politica mondiale. è stato il Presidente Macron il primo leader ad agire politicamente su questo dato di realtà: nel suo straordinario discorso alla Sorbona, ha detto chiaramente che il problema che è aperto non è quello di cedere quote di sovranità dai singoli stati membri agli organismi comunitari. Ma quello di recuperare la sovranità perduta, costruendo effettivamente il nuovo “sovrano” europeo. Il progetto di difesa comune, per mettere a frutto in termini di efficacia dello strumento militare una spesa per la sicurezza esterna che oggi – segmentata alla dimensione di ogni singolo stato -, ci condanna a farla dipendere dagli USA, sempre più riluttanti a farsene carico. Una politica di Bilancio europea, perché i singoli stati possono e debbono avere i conti pubblici in pareggio, se la politica fiscale europea può svolgere, assieme alla politica monetaria, quella funzione anticiclica cui è impossibile ( e sarebbe suicida) rinunciare. Investimenti pubblici in ricerca e infrastrutturazione materiale e immateriale del nostro continente, da finanziare sull’elevato merito di credito dell’area dell’Euro in quanto tale. Uno strumento europeo di contrasto della disoccupazione non strutturale, per fare fronte a shock asimmetrici che possono ben determinarsi nel più grande mercato unico del mondo ed hanno conseguenze sociali insopportabili. Insomma: non c’è problema che interessi la nostra vita quotidiana di cittadini europei – dalla “paura” dell’immigrazione a quella di perdere o non trovare un buon lavoro – che possiamo credibilmente affrontare come cittadini italiani, francesi, tedeschi,…, ciascuno col “suo” Governo. Non è una novità? Lo sappiamo. Ma è una vera e bella novità che si sia aperto finalmente un concreto processo politico che fa di questo dato di realtà la base di una strategia riformatrice. Non più l’Europa matrigna che ci costringe a fare quello che noi governi nazionali, se potessimo, non faremmo. Ma il suo esatto opposto: l’Unione è l’unica via realistica per la soluzione. Basta col camminare alla velocità del più lento. Procediamo a costruirla, con chi ha la forza e la volontà per farlo. Il prossimo 22 gennaio – sull’asse Parigi-Berlino – questo processo partirà, con l’approvazione simultanea nell’Assemblea Nazionale e nel Bundestag di un documento che indicherà le scelte e i tempi dell’impegno di questi due fondamentali Paesi. è un merito certo del Presidente Gentiloni – nel recente incontro col Presidente Macron -, quello di avere impegnato l’Italia ad essere coprotagonista di questo ambizioso – e finalmente chiaro – disegno di rilancio della Unione. Ma sarà il risultato elettorale a decidere. Ed esso dipenderà in larga misura dalla capacità di mettere in chiaro, agli occhi dei cittadini elettori italiani, la reale portata della posta in gioco. Il voto degli italiani – comunque vada – non avrà la forza di arrestare il treno europeo che ripartirà il prossimo 22: anzi, costituito il Governo Groko in Germania, esso acquisterà velocità. Il voto italiano può invece decidere se iscrivere l’Italia tra i protagonisti del nuovo inizio, o se relegarla nelle retrovie, alla disperata ricerca di una “sovranità” e di una “indipendenza” nazionali che non ci sono più da tempo. Europeisti versus indipendentisti: questo è lo scontro in atto. Lo dicono – molto meglio e molto prima delle interviste dei leader nei talk show – le scelte compiute in Parlamento dai principali protagonisti della competizione elettorale. Cominciamo dal M5S. Nella Risoluzione sulla NADEF presentata dal Gruppo 5 Stelle al Senato, si legge testualmente: “impegna il Governo a sospendere l’applicazione del raggiungimento del pareggio di Bilancio e quindi il rispetto dell’indebitamento entro il 3% del PIL…”. Da dove nasce una così forte esigenza di fare nuovo debito? La risposta è nella stessa Risoluzione: l’onere aggiuntivo connesso alla introduzione del cd reddito di cittadinanza – l’architrave della politica economica pentastellata - supera i 17 mld l’anno. A parte il fatto che l’obiettivo del pareggio strutturale è fissato nella Costituzione della Repubblica italiana (art. 81), l’aperta violazione dei Trattati (3% deficit/PIL) metterebbe i partner europei nell’obbligo di trarne le conseguenze… Soccorre a questo punto la dichiarazione del “Capo Politico” Di Maio: se l’Europa “non ci avrà ascoltato su nulla”, allora si farà il referendum sull’Euro, “che per me è l’extrema ratio” ed “è chiaro che io sarei per l’uscita”. Più chiaro di così…. Veniamo ora al centro-destra. Dal Programma di Salvini per la candidatura alla Segreteria federale della Lega: “Per tutti questi motivi, occorre dare maggiore slancio alla battaglia per riconquistare spazi di sovranità nazionale e monetaria”: Salvini non è Berlusconi? Certo. Ma non sembra che la differenza sia abissale: “Quando Lei parla di due monete – gli chiede Paolo Becchi su Libero – si riferisce ad una situazione in tutto e per tutto simile a quella che avevamo negli anni ’80 e ’90, con la Lira e l’Ecu? Si o no?”. Risposta: “In pratica sì, con una parziale riconquista della sovranità monetaria da parte dello Stato…”. Non deve essere voce dal sen fuggita, se nella bozza di programma del centro-destra si può leggere: “Prevalenza della nostra Costituzione sul diritto comunitario, sul modello tedesco (recupero di sovranità)”. D’altra parte, sia Salvini, sia Berlusconi devono essere consapevoli che solo questa regressione “indipendentista” può sorreggere la proposta programmatica fondamentale del centro-destra, formulata in termini assai chiari nella Risoluzione Lega-FI-FdI in occasione della NADEF: “Impegna il Governo a modificare in maniera drastica e strutturale la cosiddetta Legge Fornero delle pensioni, al fine di abbassare l’età per l’accesso al pensionamento, reinserendo il sistema delle quote e le pensioni di anzianità”. A pag. 90 del DEF 2017 per il 2018, si dà conto del risparmio realizzato dalla Legge Fornero rispetto alla legislazione previgente, nel periodo che ci separa dal 2050: 320 miliardi. Impossibile abrogarla, senza uscire dall’Euro. E infatti… Sia per il M5S, sia per la coalizione Fi-Lega-FdI, dunque, la scelta di collocarsi sul fronte “indipendentista” nasce per alcuni da posizioni di tipo ideologico, e per tutti dalla esigenza di finanziare con ulteriore debito le proposte più significative e popolari(?) del loro programma elettorale. Veniamo ora al PD. I Governi di questa legislatura hanno camminato, con crescente sicurezza, sul “sentiero stretto” individuato da Padoan all’inizio della sua esperienza di governo: tutto il sostegno alla crescita compatibile con la stabilità dei conti pubblici; tutto il consolidamento fiscale compatibile con l’esigenza di non deprimere la timida ripresa in atto. Anche quando – a nostro avviso sbagliando – il PD ha avanzato l’ipotesi di portare nel prossimo futuro l’indebitamento al 2,9% ogni anno, al fine di finanziare investimenti e ulteriori riforme strutturali, questa posizione non si è in alcun modo tradotta in atti e scelte di governo che potessero revocare in dubbio la sicurezza del cammino del Paese tra la Scilla del debito e la Cariddi del ritorno in stagnazione/recessione. Il Governo Renzi, prima e meglio di ogni altro in Europa, anche supplendo alla lunga fase di assenza di iniziativa della Francia di Hollande, ha coerentemente sostenuto l’esigenza di una svolta nella linea di politica economica seguita dall’Unione Europea per troppo tempo: ciò che era l’obiettivo principale – il consolidamento fiscale – doveva diventare il vincolo. E la crescita, da vincolo che era – non ucciderla nel perseguire il consolidamento fiscale - doveva diventare l’obiettivo fondamentale. Il rovesciamento del rapporto tra crescita e consolidamento fiscale perseguito dal governo italiano non si è certo compiutamente determinato: ma il processo si è robustamente avviato, con le comunicazioni della Commissione del gennaio 2015. E può oggi subire una forte accelerazione. Lo testimoniano sia le proposte ufficialmente avanzate da Parlamento Europeo, Consiglio e Commissione sulla trasformazione del Meccanismo Europeo di Stabilità (ESM) in Fondo Monetario Europeo (FME) (a proposito: mercoledì prossimo, la Commissione Bilancio del Senato dovrà esprimere il proprio parere: il PD voterà a favore, con la maggioranza che sostiene Gentiloni. Sarà interessante vedere come voteranno i gruppi del centro-destra e quello del M5S), sia il documento-appello degli economisti francesi e tedeschi, volto alla costruzione di una nuova governance dell’area Euro, capace di “riconciliare la condivisione del rischio con la disciplina di mercato”. Se le proposte dei Governi Renzi e Gentiloni hanno potuto trovare attenzione e (almeno parziale) condivisione, è perché esse si sono costantemente ispirate all’obiettivo di costruire un diverso e più avanzato equilibrio tra condivisione e riduzione del rischio. Un approccio al tema della riforma dell’area Euro che deve oggi essere confermato e rafforzato, sfuggendo alla tentazione di considerare il gran numero delle proposte in campo come un menù à la carte: sì alla garanzia comune sui depositi bancari, sì al superamento dei “numeretti” rigidi sul ritmo di avvicinamento al pareggio strutturale, perché ci convengono; no ad una nuova regola sulla spesa pubblica e sui titoli pubblici junior per finanziare eventuali sfondamenti, perché “ci imbrigliano”. Non c’è messa in comune del rischio, se non c’è sforzo verificabile di ciascuno per la sua riduzione, Paese per Paese e nel complesso dell’Unione monetaria. La tesi di chi sostiene il fallimento di questa linea contraddice i dati della realtà: la politica di bilancio italiana (e non solo) ha potuto assumere una intonazione moderatamente espansiva e sostenere l’incipiente ripresa proprio utilizzando gli spazi di flessibilità che abbiamo aperto, non “battendo i pugni sul tavolo” per difendere le “nostre” particolari ragioni, ma convincendo sulle ragioni, buone per tutti, che consigliavamo correzioni di rotta. è su questi risultati della nostra azione di Governo – e sull’impegno ad operare per una accelerazione nel processo di riduzione del volume globale del debito, ora che la crescita tende a diventare più significativa – che il PD può legittimamente fondare la sua iniziativa per “bipolarizzare” il confronto elettorale: da una parte gli europeisti, capaci di collocare l’Italia nel concreto processo di costruzione della nuova sovranità europea; dall’altra gli “indipendentisti”, che cercano soluzioni in un passato che non può tornare. 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