Il "cosa" e il "come", di Giorgio Armillei

In apertura della sua
prefazione a un libro curato 15 anni fa da Ceccanti e Vassallo - e che molti
hanno per lungo tempo giustamente considerato una sorta di manuale operativo
per le riforme istituzionali - Panebianco sottolineava come fosse un errore
comprensibile, e tuttavia sempre di errore si trattava, limitarsi a discutere
il “cosa” delle riforme senza affrontare l’altrettanto determinante “come”
delle riforme, ossia entro quali rapporti di forza e con quali alleanze quel “cosa”
può diventare realtà.
Qualcosa del genere si
ripropone da anni a proposito della riforma del sistema elettorale. Una
sequenza di sconfitte dei sostenitori del modello maggioritario di democrazia, composto
di un mix “decidente” di forma di governo e sistema elettorale che se attuato
avrebbe posto fine alla “nostalgia dell’onnipotenza parlamentare” di cui Guzzetta
nel libro citato, ha condotto il sistema politico in una condizione di
incertezza che neppure gli autori dell’ultimo autorevole bilancio della
stagione delle riforme potevano immaginare, si veda il volume curato da Cassese
nel 2015. Tanto che Clementi concludeva il suo capitolo in
quel libro affermando giustamente la inevitabile fragilità di ogni riforma del
sistema che rifiuti l’introduzione di regole selettive e decidenti, fatte di
modifiche della Costituzione e di una legge elettorale di impianto bipolare e
maggioritario.
Tuttavia oggi benché il
“cosa” delle riforme istituzionali sia ancora un punto critico del rendimento
del nostro sistema politico, a maggior ragione in una fase di destabilizzante
crisi economica, il “come” è ancora inchiodato a uno scenario parlamentarista e
proporzionalizzato, con intermittenti venature assemblearistiche – si pensi al
caso della questione di sfiducia individuale nei confronti di un singolo
ministro, in cui sostanzialmente il Parlamento fa “cherry-picking” con tanti saluti
alla stabilità e responsabilità del Governo verso il parlamento medesimo e
verso l’elettorato – la cui razionalizzazione è ormai in capo al solo
Presidente della Repubblica, non più soltanto reggitore nelle crisi di sistema ma
ormai anche correttivo permanente al disordine parlamentaristico.
Se restiamo al “cosa” non
è difficile concordare sull’elenco di ciò che non va di questo assetto, un
assetto che somiglia all’esatto opposto di quello auspicato in 30 anni di tentativi
di riforma del sistema di governo, non tutti per altro falliti come dimostrano
i casi dei Comuni e - nonostante le recentissime sgangherate polemiche - delle
Regioni, ancora nel libro Ceccanti Vassallo il capitolo di Fusaro. Ma se dal
fragoroso scontro tra il “cosa” in atto e il “cosa” auspicato ci volgiamo ad
analizzare il “come” di una possibile coalizione per la transizione dal primo
al secondo, ci accorgiamo non solo dell’apparente attuale irreversibilità del
processo di frantumazione di questa coalizione – anche per effetto ben inteso
delle sconfitte elettorali che pure qualcosa vorranno dire – ma anche del
cambiamento delle condizioni di sistema e del diverso configurarsi delle
determinanti delle politiche di riforma istituzionale.
L’europeizzazione della
politica ha avuto un’indubbia accelerazione negli ultimi decenni, paradossalmente
ma non tanto poi, se si pensa alla logica di sviluppo del modello istituzionale
europeo, sotto i colpi delle crisi e delle risposte che gli organismi di
governo dell’Unione hanno elaborato e implementato, anche con logiche fortemente
contraddittorie. Le dinamiche di funzionamento della politica dell’Unione europea
sono così diventate parte dell’assetto istituzionale della politica nazionale e
del suo processo decisionale. Il che non è naturalmente privo di conseguenze
per il ragionamento sul “cosa” e sul “come” delle riforme istituzionali del
sistema di governo italiano.
L’europeizzazione ha poi
accentuato in questa fase il riorientamento della gerarchia delle fratture che
condizionano il funzionamento del sistema politico nazionale ed europeo,
mettendo sempre più in luce come la divisione tra destra e sinistra, sulla
quale è stata edificata tutta la stagione delle politiche di riforma
istituzionale in senso maggioritario, sia sempre più largamente sostituita da
una frattura tra europeisti e sovranisti e – anche per effetto del contraccolpo
della globalizzazione – tra liberali e populisti. Con un primo evidente effetto
non solo nella composizione della maggioranza che in sede di Parlamento europeo
ha approvato la nuova Commissione ma anche nell’allineamento sulle singole
policy europee tra i diversi governi degli stati membri in sede di Consiglio.
La frattura tra europeisti e sovranisti è insomma la frattura che regola il
sistema di governo europeo e incide mediante il processo di europeizzazione
anche sull’allineamento più rilevante per spiegare le determinanti delle
politiche nazionali.
Del menù delle politiche
nazionali fanno parte anche le politiche di riforma istituzionale e al loro
interno quelle di riforma elettorale. Ancora una volta uno sguardo allo
scenario delle determinanti delle politiche di riforma è essenziale. Il sistema
elettorale configura il sistema di partito ma allo stesso tempo sono le
preferenze strategiche delle coalizioni dominanti nei partiti che possono
scegliere e scelgono il sistema elettorale. Se oggi la frattura dominante nel
sistema politico, anche e soprattutto per effetto dell’europeizzazione della
politica nazionale, ruota intorno all’asse europesimo vs sovranismo, il “come”
degli europeisti prende il sopravvento sul “cosa” dei sostenitori del modello
maggioritario di democrazia. Sia l’asse destra vs sinistra che l’asse democrazia
consensuale vs democrazia maggioritaria subiscono un notevole effetto di
spiazzamento: se sono le coalizioni dominanti nei partiti a scegliere il
sistema elettorale, quale sistema elettorale oggi favorisce e consolida in
Italia una coalizione europeista che si contrapponga alla coalizione sovranista?
In altri termini, le sconfitte dei sostenitori del modello maggioritario di
democrazia, il modello che resta oggi il “cosa” preferibile, insieme
all’europeizzazione della politica nazionale hanno messo a soqquadro il “come”
delle riforme istituzionale e il “come” della riforma elettorale.
Le “gambe e le alleanze
del progetto riformatore” per tornare alla prefazione di Panebianco sono oggi
inesorabilmente cambiate. Riformare oggi il sistema elettorale significa porlo
a servizio della pregiudiziale europeista e dunque, nel panorama dei rapporti
di forza elettorali e parlamentari, sottometterlo alle strategie di massimizzazione
della loro quota di potere perseguite dai partiti europeisti. La fotografia
europea della coalizione dei partiti europeisti è la Commissione von der Leyen
con la sua maggioranza parlamentare, al netto delle irrilevanti presenze
populiste. La proiezione europeizzante di quella coalizione nel sistema
politico nazionale impone che i partiti europeisti possano “utilmente”
affrancarsi dalle vecchie coalizioni di destra e di sinistra nelle quali sono
intrappolati, massimizzare le proprie strategie elettorali, occupare spazi
elettorali al momento non presidiati anche con il concorse di nuovi
imprenditori politici, e dare vita a una stabile coalizione europeista, dotata
di una leadership personalizzata e dotata di indiscutibile reputazione a livello
europeo.
Per fare questo,
guardando al “come” e non solo al “cosa”, occorre un ordinato e impeccabile
sistema elettorale proporzionale, dotato di efficaci ingredienti di
personalizzazione (collegi uninominali?) e di contenimento della frammentazione,
strutturato per impedire devastanti competizioni infrapartito, unito a una solida
e sistematica riforma anti-assembleare dei regolamenti parlamentari - al
momento solo avviata – vista la stretta relazione tra regolamenti parlamentari
e forma di governo come nota costantemente Curreri anche nei suoi ultimi
lavori. Non un sistema elettorale astrattamente neutro concepito sotto “velo di
ignoranza”, non il “cosa” che giustamente i riformisti hanno per decenni
inseguito, ma un sistema elettorale a servizio di una coalizione europeista. Un
sistema costruito a partire dalla scala di preferenze delle coalizioni
dominanti dei partiti europeisti che smonti così le alleanze spurie costruite
su fratture politiche ormai recessive, lasciando sovranisti e populisti di
nuovo naturalmente insieme.
La coalizione europeista avrà
a che fare con un parlamentarismo non razionalizzato ma potrà, nel quadro della
nuova gerarchia delle fratture politiche, stabilire i modi e i tempi per raggiungere
– partendo dal suo “come” - la seconda fase dell’europeizzazione della politica
nazionale, quella nella quale anche il “cosa” delle riforme istituzionali troverà
il suo spazio e le politiche europeizzate avranno modo di produrre un
parlamentarismo razionalizzato, una legge elettorale majority assuring, la riduzione del correttivo presidenziale e
dunque finalmente generare, come conclude Clementi nel suo capitolo, “gli
effetti sperati”.
La pregiudiziale
europeista funziona non solo come evidenza strutturale di una nuova gerarchia
delle fratture politiche ma anche come criterio di individuazione di uno spazio
politico che ridisegna la meccanica del sistema di partito italiano, ora di
nuovo caratterizzata dalla presenza di partiti antisistema, cioè di partiti che
mettono in discussione la legittimazione del sistema politico europeizzato cui
si oppongono. Indipendentemente da quanto il grado di frizione antisistema sia
espresso dal partito come organizzazione e dal partito come elettorato.
E’ sufficiente
l’efficacia della pregiudiziale europeista a dare coesione, stabilità, capacità
decisionale, efficacia e responsabilità ad una coalizione di governo che nasce
da un mandato elettorale debole, sottoposta dunque alle tensioni negoziali
interne e al potenziale di ricatto e di coalizione dei singoli partiti? La
domanda è legittima ma la risposta non può essere scodellata comparando in
astratto il funzionamento di sistemi diversi. Torneremmo nella trappola del
“cosa” senza il “come”. E resterebbe a disposizione solo l’alternativa tra il mantenimento
emergenziale dell’attuale assetto ad ipertrofico correttivo presidenziale e l’esplosione
di una dinamica bipolare nella quale però uno dei poli gioca fuori dei confini
di legittimazione del sistema.
D’altra parte, non
sarebbe la prima volta nella storia della Repubblica che una battuta di arresto
del percorso di razionalizzazione decidente del parlamentarismo viene, quanto
meno in una prima fase, aggirata ricorrendo alla dinamica del sistema
proporzionale per smarcare attori pro sistema da innaturali alleanze con attori
anti sistema. E’ quello che negli anni cinquanta fece la DC per agganciare la
componente riformista della sinistra al processo di consolidamento del regime
democratico, dopo la bocciatura di fatto del sistema elettorale majority assuring. Il “come” ebbe la
meglio sul “cosa” e poco dopo quel consolidamento si realizzò.
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