Fine vita, legge impossibile di Stefano Ceccanti

da "Europa" di oggi Fine vita, legge impossibile Un legislatore che voglia accostarsi a un tema come il testamento biologico dovrebbe esercitare la virtù della prudenza seguendo almeno i seguenti cinque criteri. In primo luogo dovrebbe riconoscere che è sbagliato cercare di giuridicizzare per intero i rapporti umani o sulla base di casi laceranti appena accaduti E lo è ancor di più quando si agisce su aree soggette a forte evoluzione delle tecniche. Si rischia tra l’altro di legiferare a partire da eccezioni e per produrre risultati inaspettati su casi non prevedibili per il futuro. In secondo luogo dovrebbe ricordare che il diritto non coincide con la legge del parlamento, che esso interagisce con sentenze, con codici deontologici, con altre realtà che sono diritto più o meno cogente erga omnes e che permettono di adattare flessibilmente la legge al caso singolo, oltre al fatto che intorno alla persona c’è una comunità da corresponsabilizzare, composta dai familiari e dal medico, per cui le dichiarazioni pur impegnative e prima facie vincolanti, non possono però sfociare in rigidi automatismi: non tutto può essere previsto allora per ora. Anche la legge è tenuta a riconoscere e rispettare la capacità di autoregolarsi della comunità. In terzo luogo dovrebbe certo aver presente che il caso Englaro e la giurisprudenza successiva hanno posto il problema dell’accertamento preciso di volontà dei soggetti in stato vegetativo permanente. Giusto porsi quel problema, ma non si vede allora perché, se si parte da lì, mentre il testo del senato era contraddittorio sull’ambito di applicazione (pazienti in stati vegetativi permanenti o anche gli incapaci di intendere e di volere?) quello della camera vuole fare la scelta più estensiva che crea, a seconda dei casi, problemi o di derive di accanimento terapeutico (alimentazione e idratazione) o anche di abbandono terapeutico (altri casi). Il legislatore prudente dovrebbe per definizione fare la scelta più restrittiva (i soli pazienti in stato vegetativo permanente). Se, malgrado tutto, dovesse mantenere quella più ampia, allora dovrebbe rendere le norme più flessibili perché la platea dei coinvolti sarebbe quantitativamente molto più ampia e qualitativamente più articolata. Come quarto punto dovrebbe considerare che in casi come questi la legge del parlamento si trova di fronte a principi che, presi ciascuno per proprio conto, conducono a conseguenze estreme: c’è il diritto alla vita e c’è il diritto all’autodeterminazione e nessuno dei due può essere del tutto sacrificato; sono possibili bilanciamenti diversi (non a partire da una neutralità assoluta, ma dalla dignità della persona) entro una gamma ragionevole di soluzioni, ma non si può ritenere a tal punto non negoziabile e isolato il diritto alla vita da imporre forme di accanimento terapeutico; al tempo stesso non si può fare la stessa operazione col diritto all’autodeterminazione finendo per ritenere incostituzionali anche le norme sull’aiuto al suicidio. Sono evidenti anche le conseguenze politiche dei diversi approcci per noi: se si tratta di tifare per uno solo dei princìpi non negoziabili, fare il Pd non ha a priori alcun senso, ha senso fare una coalizione di partiti uniti sul governo ma che si rifanno a orientamenti divaricanti; solo se si crede nel Pd ha senso tentare un bilanciamento che porti a soluzioni creative; oltre al Pd c’è poi il problema più complessivo (e ben più grave) se un paese possa tenere rispetto ad approcci così polarizzati. Infine, sul punto più delicato, varie tecniche possono arrivare sino a configurare forme di accanimento terapeutico e non può certo essere il legislatore, con un tratto di penna, a dichiarare senza se e senza ma che alimentazione e idratazione a priori non possono mai ricadere in tale pericolo, se non violando deliberatamente l’articolo 32 comma 2 della Costituzione. D’altronde, sia pure con varie cautele, questa era la posizione del Comitato nazionale di bioetica nel parere del 30 settembre 2005 per i pazienti in stato vegetativo permanente: «La sospensione dell’idratazione e della nutrizione a carico di pazienti in stato vegetativo permanente è da considerare eticamente e giuridicamente lecita sulla base di parametri obiettivi e quando realizzi l’ipotesi di un autentico accanimento terapeutico» (parere a cui aderirono, tra gli altri, Paola Binetti, Carlo Casini, Francesco D’Agostino, Luciano Eusebi, Elio Sgreccia). Il legislatore prudente, alla fine, potrebbe peraltro concludere, nella situazione data, se non fosse possibile tenere presenti questi cinque criteri, anche di prendersi una sana pausa di riflessione fino a una maggiore consapevolezza di tutti. Stefano Ceccanti

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