#ètuttacolpaditwitter? di Giorgio Armillei

I social media sono la causa della polarizzazione della vita pubblica. Creano fossati ideologici, risentimenti, rabbia, invidia sociale. Fabbricano populismo, intrappolando le persone all’interno di reticoli sociali chiusi, dove non c’è confronto se non con chi la pensa allo stesso modo. Producono e consolidano muri che filtrano e bloccano ogni posizione divergente, ogni discorso fuori dal coro. Insomma, se abbiamo la politics of anger lo dobbiamo ai social e ai loro algoritmi. 

Sono giudizi che si avvicinano ormai a far parte del senso comune, del dato per scontato e che in mano ai gruppi dirigenti che si oppongono all’ondata populista diventano la base per una grande operazione di autoassoluzione. Alla base dell’ondata troviamo a loro avviso la somma di due imponenti processi: la grande crisi economica del 2008 e l’esplosione dei social media, per altro cronologicamente coincidenti. Non solo: entrambi sono la conseguenza delle politiche liberiste della globalizzazione da cui solo ora si comincia a prendere le distanze.  

Le cose non sembrano stare così. Lasciamo da parte in questa sede la questione del nesso causale tra fattori economici e ondata populista. Molti hanno già messo in luce come siano quelle culturali e identitarie le determinanti degli atteggiamenti populisti. Concentriamoci sulla questione dei social media. Anche in questo caso sono molti a mettere in discussione le spiegazioni diventate moneta corrente nel dibattito pubblico. Quelle per cui i social media funzionano come aggregatori di somiglianze: nei social le diverse prospettive non competono per alimentare la formazione della sfera pubblica ma vengono congelate in compartimenti stagni nei quali si azzera il pluralismo e cresce l’estremismo. 

Più di un osservatore sostiene invece che i social media costituiscono uno dei punti di accesso al più vasto e complicato sistema di formazione della sfera pubblica, fatto di canali analogici e digitali, di incontri faccia a faccia e di esposizione ai media tradizionali. Prima di costruire dunque un nesso causale tra social media e populismo è meglio scavare più a fondo e rintracciare le determinanti sociali, psicologiche e istituzionali dell’ondata populista.  

Tanto per cominciare, diversi studi (Bruns; Fletcher e Nielsen) mostrano che gli utenti dei social, nonostante gli effetti di clusterizzazione, sono molto più esposti a diverse fonti di informazione di quanto non lo siano gli utenti deboli o i non utenti. E che in fin dei conti sono i sistemi di relazione personale, religioso, politico, professionale a risultare ancor più determinanti nel generare gli effetti di restringimento del dialogo alla cerchia di coloro che la pensano allo stesso modo e di conseguente induzione a fenomeni di estremizzazione delle posizioni e degli orientamenti. E’ il vecchio classico tema della “overlapping memberhip”: le democrazia liberali funzionano bene, social o non social, quando la pluralità e le vivacità delle organizzazioni sociali consente e quasi impone la partecipazione dell’individuo a molteplici sfere e gruppi di interesse, inducendo così “sul campo” moderazione e conciliazione dei diversi punti di vista. E’ il difetto di poliarchia che sta, tra le altre cose, alle spalle dell’ondata populista ben prima degli algoritimi. D’altra parte una sezione del PCI in tempi di stalinismo non è che fosse più esposta alla pluralità delle fonti informativa di quanto non lo sia oggi un network costituito nell’ambito di uno dei social media. 

Tutto bene dunque? No, tutt’altro. Ma non assecondiamo false spiegazioni che alimentano atteggiamenti di conservazione. Il populismo nasce da una gigantesca operazione identitaria che è riuscita a generare e coltivare un poligono di emozioni: paura, rabbia, risentimento, invidia sociale. Un’operazione alla quale i liberali non hanno ancora saputo opporre una contronarrazione altrettanto efficace, finendo al contrario con l’accettare il campo di gioco dei populisti. Prendersela con i social media è tanto analiticamente sbagliato quanto politicamente inefficace. 

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