Dove sta andando il PD di Letta, di Giorgio Armillei

Chi si aspettava un cambiamento non solo tattico del PD di Letta rispetto a quello di Zingaretti comincia forse a sentirsi deluso. Difficile intendere cosa Letta abbia archiviato dell’esperienza del PD che lo ha preceduto. D’altra parte la sua è stata un’ennesima elezione per cooptazione e non per competizione: dal che immaginare radicali cambi di rotta era piuttosto azzardato. Lo stesso sostegno a Draghi che pure qualche volta si mostra assai tiepido, nasce da una presa d’atto: l’esito convergente dell’esaurimento oggettivo della maggioranza Conte bis, degli orientamenti delle leadership dell’Unione in connessione con il correttivo presidenziale di Mattarella e del dinamismo parlamentaristico di Renzi. E non da una scelta politica: ho una linea politica, vinco una competizione interna al PD per la leadership e su questa linea costruisco alleanze e proposte per gli elettori. Dal pieno continuismo si salvano probabilmente le indicazioni in materia di riforme istituzionali, nel senso della democrazia governante e di un sistema elettorale che restituisca al cittadino elettore il ruolo di arbitro, come avrebbe detto Roberto Ruffilli.

Quello che certamente Letta non ha archiviato della stagione zingarettiana è la tendenza a sostituire una proposta politica comprensiva, in grado di attrarre una quota maggioritaria dell’elettorato, con il tentativo di posizionare il PD più a sinistra, non si capisce bene in verità di cosa. Ultima in ordine di tempo in questa rincorsa a sinistra è stata la proposta di tassare i grandi patrimoni per aiutare i giovani in difficoltà.

Al di là dell’errore tattico, un goal a porta vuota per il centrodestra poter rilanciare la polemica contro un PD tax and spend e allo stesso tempo un inutile inseguimento del pikettysmo, questa tappa della strategia delle battaglie identitarie di sinistra (ddl zan, ius soli, tassa sui grandi patrimoni) indipendentemente dall’ovvia presenza di elementi di ragionevolezza, mostra come il PD stia imboccando una strada che non promette nulla di buono. A danno in primo luogo della vasta platea elettorale interessata a modernizzare il paese, a farlo di nuovo crescere e a renderlo più competitivo in tandem con le politiche dell’Unione europea, mettendo la parola fine alla stagione fallimentare della chiusura nazional populista.

Che nella proposta della tassa sui grandi patrimoni sia prevalente l’elemento ideologico identitario – e non primariamente l’efficienza e l’equità della proposta - appare anche dal confronto con semplici spunti di carattere teorico. Per stare ai classici, Musgrave dopo aver ritenuto equa ed efficiente un’imposta di successione (sulla base del fatto che si tratta di un utilizzo equivalente al consumo) e dopo aver ritenuto equa ed efficiente un’imposta supplementare sui redditi da capitale, scriveva: “una società può ritenere opportuno prelevare un’imposta progressiva sul possesso delle grandi ricchezze, in modo da correggere le conseguenze negative di un’eccessiva concentrazione della ricchezza. Questo genere di imposta può essere più o meno desiderabile ma questo non è un tema che rientri nella definizione dell’equità orizzontale o nell’analisi dell’efficienza”. Appunto, un tema scivolosamente ideologico nel quale può infilarsi di tutto.

Alle stesse conclusioni – l’ideologia identitaria prevale sulla razionalità mezzo scopo - si giunge se guardiamo non al quadro teorico ma all’efficacia della misura rispetto agli obiettivi. Anche qui non è difficile identificare i veri colli di bottiglia che impediscono ai giovani – specialmente ma nono solo a quelli che partono da situazioni marginali – di sfruttare i loro talenti: relazioni tra sistema dell’istruzione e mondo delle imprese, regolamentazione del mercato del lavoro, funzionamento del sistema di welfare (il suo age orientation) non sono certo congegnati per loro. Una politica meramente redistributiva, non accompagnate da riforme regolatorie e di sistema, non può che mostrarsi inefficace.

Perché dunque il PD di Letta mette in fila battaglie ideologiche ad esclusiva componente identitaria, lasciando apparentemente indietro un’analisi dell’efficacia delle misure proposte e della loro capacità di parlare oltre i confini identitari? Tocchiamo qui un punto cruciale che merita un’analisi nutrita di sapere storiografico e di scioltezza intellettuale. Un’impresa di non poco conto che non sono certo in grado di sostenere ma rispetto alla quale vorrei indicare alcuni spunti.

L’ostinazione identitaria del PD, la “regressiva reazione identitaria” di cui parla Claudio Petruccioli nel suo Rendiconto, non esprime un vizio recente della sinistra in Italia. Al contrario se ne possono identificare le tracce in tutta la storia del novecento, come mostra Paolo Pombeni nel suo recente Sinistre. Un secolo di divisioni. E l’ostinazione deriva dall’aver in tutti i modi cercato di evitare di fare una irreversibile scelta di fondo tra – da una parte - la prospettiva di governare, con l’obiettivo di ampliare le opportunità e ridurre le diseguaglianze, le economie di mercato delle democrazie capitalistiche che sono una realtà in continua trasformazione e mai identiche a sé stesse. E dall’altra quella di immaginare indefinite uscite, superamenti, riforme di struttura che in un modo o nell’altro affermassero una equidistanza tra le democrazie capitalistiche e i sistemi totalitari. Neppure la tradizione riformista socialista è stata immune da questo difetto, con la sola eccezione di Craxi; così come l’ormai decennale esperienza del PD si è dimostrata incapace di uscire dalle sabbie mobili dell’ambiguità, con la sola eccezione di Renzi.

Per scegliere la prima strada occorre un modello di partito adeguato al contesto della comunicazione politica e dei canali di partecipazione, in grado di raccogliere un consenso ampio, saldamente ancorato all’obiettivo di modernizzare “da sinistra” il paese ma capace di raccogliere adesioni in tutte le direzioni. Un partito che si pone al centro del sistema ma non nel senso della rendita di posizione centrista, cosa di cui il paese ha sperimentato più volte la dannosità. Non un partito del middle center ma un partito del common ground che riflette le aspirazioni e gli interessi della maggioranza dell’elettorato. Per scegliere la seconda strada basta un partito indentitario, perennemente a caccia dei “suoi voti” inopinatamente “rubati” da qualcun altro, in affannosa ricerca di alleanze più o meno storiche e di campi più o meno larghi per fare fronte contro un avversario spesso dipinto come nemico. Un partito incapace di tollerare “avversari a sinistra”.

L’alternativa è ben chiara: da un lato l’obiettivo è governare, dall’altro è rappresentare interessi di minoranze, da un lato il big tent, dall’altro il campo largo sì ma della sinistra. Evidentemente gli anticorpi contro il virus del minoritarismo ereditati dal PCI hanno finito con il perdere la loro carica antivirale. Il primo obiettivo infatti include gli interessi delle minoranze e i loro diritti, il secondo esclude le aspettative di una larga maggioranza, o perché ne delega la cura a qualcun altro o perché pretende di purificarle sottoponendole al filtro del radicalismo di turno. Da questo punto di vista la sfida tra i Sanders e le Ocasio Cortez e Joe Biden è stata ed è esemplare.

Ancora una volta, nonostante gli infortuni e le cadute di popolarità, è Tony Blair a dire parole chiare ed incisive sul punto. Da un lato abbiamo la politica kamikaze di una sinistra che non prende atto delle sconfitte e prosegue sulla strada del progressimo radicale, della “culture war”, del “woke”. Dall’altro la sinistra che vuole modernizzare il proprio messaggio economico liberale, che parla il linguaggio della ragionevolezza e del buon senso della gran parte dell’elettorato, che cerca di mettere insieme gli ingredienti essenziali per vincere le sfide del post pandemia (speranza, libertà, nuove tecnologie) mettendo all’angolo le chiusure e le fobie del nazional populismo. Tutto questo ci farà perdere voti tra le minoranze mobilitate e rumorose – dice Blair in un pezzo su The New Statesman di qualche settimana fa - ma ci legherà al solido e spesso silenzioso centro dell’elettorato.

Il punto è cruciale. Non dimentichiamo che l’alternativa al partito della modernizzazione liberale a vocazione maggioritaria che combatte i radicalismi e non cerca con loro rovinose alleanze, al partito del new generation UE, non è oggi il centrodestra. È al contrario – ce le ricorda ancora The Economist del 22 maggio - l’alleanza nazional populista che proprio in ragione dell’afasia della sinistra di governo “ha buon gioco a presentarsi come forma culturale in grado di lenire le angosce del presente” dice Paolo Pombeni nel suo libro. E può farlo in ragione del fatto che “cadono in questi territori i tradizionali confini tra la destra e la sinistra, perché si possono miscelare con la massima disinvoltura mantra presi dalla tradizione dell’una o dell’altra”.

 

 

 

 

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Commenti (1)

  • marcello luberti Rispondi

    Concordo con l’analisi. Bisogna capire le ragioni di queste “rincorse identitarie” del partito. 1) Una revisione organica rispetto al socialismo non è mai stata fatta. 2) L’ircocervo togliattiano non è stato risolto, nemmeno dopo l’89 con la svolta di Occhetto e la fondazione del PD. \r\nNella condizione italiana si aggiunge una mancanza di riflessioni sul ruolo dello Stato e delle sue funzioni regolatrici e distributive. La barca è piena, con un debito pubblico al 160% del pil. E si è ormai strutturata una interpretazione parassitaria e assistenziale dello Stato, che asseconda rigidità di varia natura, che non hanno motivazione di ordine economico e sociale, e paralizzano il Paese. Anche il PNRR servirà a poco se non determinerà un vero e proprio shock di offerta. \r\n

    Maggio 31, 2021 11:25