Dopo la beatificazione. Giovanni Paolo II più successi fuori che dentro la Chiesa

da "Il Riformista" di oggi di Stefano Ceccanti Difficile scrivere a ridosso di una beatificazione. Ci provo, a partire dallo scarto tra successi esterni e problemi interni, tenendo presenti riflessioni dell'allora cardinale Ratzinger nella edizione 2000 di "Introduzione al cristianesimo". Il Papa polacco ha anzitutto sepolto i regimi comunisti. Ha quindi confermato quel nuovo approccio alla libertà religiosa con la desacralizzazione dello Stato che si era affermato al Concilio, favorendo così sia il dialogo religioso sia l'espansione della democrazia nel mondo. Un tassello decisivo in quella volontà per la quale, secondo Ratzinger "Il cristianesimo tentò di uscire dal ghetto in cui si trovava recluso dal XIX secolo ". A molti dibattiti su continuità e discontinuità tra Vaticano II e periodo precedente manca la centralità della libertà religiosa, della "Dignitatis Humanae" che adotta un diverso concetto di Stato. Un testo pragmatico di matrice anglosassone: per questo, oltre che non piacere ai tradizionalisti, non piaceva ad alcuni progressisti come Dossetti. Se si prende un'accezione forte di Stato, sostanziale monopolista del bene comune, non si esce dall'alternativa tra Stato cattolico e Stato anticattolico e la Chiesa non può che chiedere di essere religione di Stato. La riconciliazione con la libertà religiosa c'è perché Murray (e dietro di lui l'episcopato Usa) propone una visione più debole di Stato, a partire da un contesto in cui non si parla neanche di Stato ma di 'government'. Esso, come ricordava De Gasperi, non può avere una religione perché sono le persone e non gli uffici ad avere una religione. Con gli americani fecero lì coalizione gli europei che con i partiti dc avevano reimpostato gli Stati con cessioni di sovranità verso il basso e verso l'alto e gli Est europei (tra cui il futuro GPII) che non volevano tornare a casa dopo aver scritto in un testo che quella libertà potesse essere limitabile attraverso il concetto di bene comune, lì interpretato da Stati comunisti. E' questa coalizione con tre pezzi, forte perché composita, che innovò su un punto decisivo (quello su cui intervenne lo scisma di Lefebvre). I tradizionalisti erano meno esigenti: a loro andava bene lo Stato moderno purché fosse battezzato, non rendendosi conto che quella idea di Stato reca con sé l'idea di "forza salvifica" che invece il credente assegna alla fede. Tuttavia il bilancio è più incerto all'interno, soprattutto in Occidente, dove la pratica e più in generale la trasmissione della fede non sono legate alla dipendenza dal bisogno e dove molte modalità tradizionali appaiono incomprensibili. Sono anni di forte compressione della pratica, soprattutto giovanile, di cedimenti strutturali, di una complessiva difficoltà di parlare alla persona media, niente affatto compensata dalle maggiori visibilità di minoranze movimentiste. Chi si aspettava- scrive Ratzinger - che il cristianesimo si sarebbe trasformato in un movimento di massa ha capito di essersi sbagliato". Una difficoltà incrementata da rigidità disciplinari e da alcune nomine non felici. Quei nodi su cui personalità come il Cardinal Martini hanno più volte insistito verso modalità nuove, che, talora, hanno trovato aperture nello stesso GPII, senza un seguito apprezzabile. Basti pensare all'enciclica "Ut unum sint" del 1995 sul ripensamento del primato di Pietro in chiave ecumenica. Da qui si può ripartire, dalla consapevolezza di non poter fare tutto da soli e tutti allo stesso modo.

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