Dal PD al PCI
Finisce una settimana che cambia molte cose e ne ridimensiona molte altre. E’ forse un bene che questa fine coincida con l’inizio dell’ultima settimana di campagna elettorale. L’esigenza di fare bilanci subisce un’accelerazione. Forse qualcosa può ancora cambiare prima del bilancio definitivo, quello delle urne. Forse qualche dettaglio va sistemato con più attenzione. Cominciamo con una domanda: cosa ha combinato il PD in questo ultimo mese di campagna elettorale? La risposta sembra venir fuori da sola: quasi nulla. Non c’è stato un passaggio di questa campagna che sia riuscito a modificare, integrare, correggere, arricchire ciò che del PD si poteva dire a partire dalla vittoria di Bersani nelle primarie. E dunque tutti i problemi lasciati aperti da quel voto del 2 dicembre restano sul tavolo, con il loro carico di conseguenze a lungo termine, cosa ha da dire la sinistra al futuro dell’Italia, e a breve termine, chi esprime l’alternativa credibile al centrodestra. Anzi, le cose sono andate in qualche modo peggiorando: gli obiettivi di brevissimo periodo hanno preso il sopravvento. Certo, il vantaggio su Berlusconi sembra stabilizzarsi, il recupero del centrodestra frena, Grillo avanza a danno di Monti, malinconicamente scivolato al quarto posto. Ma nulla di tutto questo dipende dalla campagna del PD. Qualche numero che ci fa riflettere. L’85% delle intenzioni di voto a Bersani proviene dal recinto della vecchia sinistra italiana, quello storico, quello che – nonostante il turn over generazionale - somiglia in modo impressionante ai confini del PCI tra gli anni settanta e ottanta. Bersani continua a rappresentare prevalentemente dipendenti della pubblica amministrazione, impiegati del settore privato, pensionati e studenti, quasi la struttura del database della CGIL. Il PD perde quasi il 7% del suo elettorato del 2008 verso Monti lasciandogli campo libero, ovviamente, sul fronte del centro. Perde il contatto con il mondo cattolico, consegnandolo ancora al centrodestra, nonostante i molti cattolici “indipendenti di sinistra” – soggettivamente di grande qualità ma politicamente quasi irrilevanti – finiti nelle liste del PD. E nonostante Monti e Riccardi dicano di competere su quello stesso mercato. Non c’è che dire: mission accomplished. Cosa voleva Bersani? Ricompattare la ditta. Come lo voleva fare: rassicurando la base con la tradizionale “sicura” narrazione socialdemocratica. Al momento c’è riuscito alla perfezione. Certo nel corso della campagna elettorale ha barcollato non poco. Ha detto cose poco chiare sull’imposizione patrimoniale. Ha inseguito gli altri sull’IMU. Sul welfare e sulla sanità ha parlato di sprechi quando la sinistra moderna in Europa sta rivoluzionando il welfare, cambiando la lista dei rischi dai quali proteggere i cittadini e spostando l’equilibro generazionale tra chi assicura e chi è assicurato. Con molta fatica ha difeso il rigore di bilancio e l’ancoraggio al quadro di compatibilità europeo, lavorato ai fianchi dal keynesismo radical del suo gruppo dirigente. Un capolavoro. Peccato che il risultato finale sia ben inferiore a quello di Veltroni nel 2008. Per qualsiasi partito di governo delle democrazie competitive questo sarebbe un segnale di sconfitta indiscutibile. Nella sinistra italiana passa per una quasi vittoria. Il punto finale è però un altro. Se il voto nelle democrazie competitive è soprattutto un voto retrospettivo (giudicare chi ha governato) non c’è dubbio che il giudizio sul centrodestra è senza appello. L’Italia non può farsi ancora governare da questo centrodestra. Ma “ridurre il danno” e “bilanciare i rapporti di forza” tra Bersani e Monti è diventato più difficile in questo ultimo mese. Lo spettro di Prodi e dell’Unione torna ad aggirarsi. Che la partita decisiva sia quella del prossimo Presidente della Repubblica in vista dell’inevitabile ristrutturazione del quadro costituzionale? E che a questo scopo convenga orientare il proprio voto al senato, regione per regione, favorendo “minoranze di blocco” riformiste e volenterose?
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