da L'Unità di oggi
Riforma costituzionale. Tutti gli errori del No di Stefano Ceccanti L'aspetto positivo del documento che ha deciso di esternare la propria posizione per il No è che si presenta senza toni apocalittici. Seguiamo l'ordine usato nel presentare gli argomenti e valutiamoli. Il primo è quello per cui il testo sarebbe stato approvato da una maggioranza ristretta e variabile. In realtà è stato elaborato e votato nelle prime letture dal Pd e dall'intero centrodestra, mentre il M5S si è autoescluso. L'unica cosa che è variata è stata che dopo l'elezione di Mattarella i parlamentari che hanno ri-fondato Forza Italia hanno votato contro non per ragioni di contenuto ma per quella elezione ritenuta una forzatura, mentre il resto degli eletti di centrodestra ha continuato a votare. Si è sempre trattato di una maggioranza di circa il 60% di Camera e Senato, nettamente al di sopra di quella richiesta dall'articolo 138 e comunque soggetta alla verifica referendaria. Il secondo argomento mette in questione composizione e funzioni del Senato e gli squilibri quantitativi che si aprirebbero a favore del vincitore alla Camera di fronte a un Senato con troppo pochi componenti. In questi anni in Europa non c'è seconda Camera che non sia in questione: sia con riforme fatte (Germania, Francia, Regno Unito) sia con proposte (Spagna), le soluzioni sono tutte opinate. Quella del testo non è comunque improvvisata: corrisponde alla Tesi 4 dell'Ulivo, è richiesta da anni da Legautonomie, era quella più votata nella consultazione del Governo Letta. I firmatari sembrano alludere come soluzione coerente al modello tedesco, ma ciò appare contraddittorio. Assicurando nel 2018 una larghissima maggioranza al centrosinistra che detiene 17 giunte su 21, non sarebbe stata votata da nessuno se non dal Pd. Per di più la Camera tedesca ha più componenti della nostra e il Bundesrat tedesco ne ha meno del nostro nuovo Senato. Il ragionamento sui quorum di cui la maggioranza vincente potrebbe disporre da sola è infondato: a prescindere dal Senato (dove la maggioranza potrebbe essere opposta ma ove, anche se fosse dello stesso colore, risultando da elezioni regionali diverse, sarebbe meno omogenea e comunque limitata a 50-51) il 54% dei seggi della Camera sono inferiori al 60% dei componenti o dei votanti richiesti per gli organi di garanzia e peraltro sono tali solo a scrutinio palese. Neanche sommando i voti lordi 340 + 50 (= 390) ci si avvicina a 3/5 (435). In quei casi il voto è segreto e, pertanto, considerando che almeno 240 su 340 eletti saranno espressione delle preferenze (cioè di correnti in competizione) nel migliore dei casi il 60% lordo a scrutinio palese varrà ragionevolmente un 40-45% a scrutinio segreto. Senza un ulteriore 15-20% proveniente da gruppi di opposizione non sarebbe quindi possibile procedere. Il terzo argomento, la pluralità di procedimenti legislativi, è invece fondato, ma è la conseguenza della scelta fatta per il bicameralismo differenziato. Solo il monocameralismo e il bicameralismo ripetitivo non hanno questi problemi. Tutti gli Stati fortemente decentrati e a bicameralismo differenziato hanno una simile pluralità. Peraltro essa non deve essere esagerata: sono solo i quattro identificati nell'articolo 70 (non vi si possono aggiungere decreti legge, decreti legislativi, ecc. perché allora, se fossero considerati a parte, anche oggi ne avremmo tanti); e sono ben disciplinati, in particolare dal primo comma. Esso identifica in modo tassativo le leggi che restano bicamerali paritarie per tipi anziché per materie ed esclude che nel corso dell'esame parlamentare vi si possano inserire emendamenti di tipologie diverse. Il quarto argomento, quello della centralizzazione delle competenze legislative sembra vedere in questa scelta una decisione improvvisa del Parlamento, quando invece essa non fa che ratificare gli esiti della prevalente giurisprudenza costituzionale a cui hanno contribuito attivamente molti dei firmatari: quando si sono accettati come principi fondamentali anche norme di dettaglio non si era, di fatto, già rimpolpata la competenza esclusiva? E la sussidiarietà legislativa costruita dalla Corte non è analoga alla clausola di supremazia? La riforma non fa che regolare questo processo e compensarlo con la nuova composizione del Senato evitando che, al contrario di oggi, il tutto si sposti sui negoziati in Conferenza Stato-Regioni o davanti alla Corte. Il quinto argomento, quello di non eccedere nell'affrontare il tema dal versante del costo del funzionamento delle istituzioni, di per sé potrebbe anche avere qualche ragione (i risparmi maggiori sono quelli indiretti, con la riduzione dei conflitti Stato-Regioni, istituzioni più semplici, decisioni più efficienti) finisce per trasformarsi in una difesa dello status quo che arriva a rimpiangere le vecchie province e persino il Cnel, come se la rappresentanza di interessi potesse esprimersi solo istituzionalmente secondo modelli di società ormai scomparse. Il sesto argomento, quello dei referendum plurimi, non solo produrrebbe una stranissima procedura in cui i parlamentari nelle ultime letture votano in modo compatto ciò che poi verrebbe invece separato nella votazione popolare del medesimo procedimento, ma sembra ignorare che sia dal punto di vista tecnico sia dal punto di vista politico il testo presenta logiche coordinate non separabili e compensazioni politiche. Il Senato ha una composizione autonomistica che bilancia la perdita di competenze legislative in un'altra parte del testo; la sua composizione indiretta è connessa a sua volta con le sue funzioni e con la conseguente perdita del rapporto fiduciario che sta in un'altra parte e così via. Non a caso quando si prevedono referendum costituzionali, anche di revisioni totali dei testi e non solo parziali, per quanto ampie, come nel nostro caso, il diritto comparato propone quasi sempre referendum complessivi. Non una delle obiezioni sembra quindi reggere.
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