da Europa di oggi
da Europa di oggi Il caso Fiat e il vuoto costituzionale Nel precedente articolo su Europa (8 gennaio) ho cercato di dimostrare come l’articolo 46 della Costituzione sia stato uno dei più “presbiti” del testo e, per questo, ancora inattuato. Un altro caso di inattuazione, quello dell’articolo 39, è invece dovuto a una ragione opposta: è un caso molto raro di testo non ben riuscito. Le esigenze dominanti che guidarono i lavori, del tutto condivisibili, furono quelle di affermare la libertà e il pluralismo sindacale (un tema molto d’attualità dopo la vicenda Fiat) nonché quella di evitare un’eccessiva ingerenza statale (elementi che sono rispecchiati dal primo comma) e la democraticità interna (richiamata dal terzo). Invece, nonostante le premesse teoriche abbastanza chiare del relatore (il comunista Di Vittorio) e del correlatore (il democristiano Rapelli), né la terza sottocommissione né l’aula riuscirono a risolvere i problemi della connessione tra questi sindacati liberi e l’efficacia collettiva dei contratti di lavoro. In terza sottocomissione, il 17 ottobre 1946, Di Vittorio aveva chiaramente affermato che «non tutti i sindacati hanno il diritto di stipulare il contratto di lavoro, ma solo quello maggioritario con rappresentanza sindacale dei sindacati di minoranza» e Rapelli aveva correttamente aggiunto che «il concetto del sindacato maggioritario non è permanente ed un sindacato, che in un dato momento è maggioritario, può divenire successivamente minoritario». Tuttavia, pur essendo vero che i dettagli sarebbero stati affidati alla legge e che il testo doveva chiarificare solo alcuni princìpi, si finì per imporre un obbligo di registrazione come condizione per giungere a una rappresentanza unitaria in proporzione agli iscritti, legittimata a stipulare contratti obbligatori senza deroghe. Una soluzione che parte dalla libertà del primo comma e che arriva a modalità piuttosto organicistiche e costrittive nel quarto. Il dibattito in aula, il 10 maggio 1947, evidenziò seriamente i problemi, anche se non li risolse: si ha quasi l’impressione di un’approvazione nella consapevolezza comune che il testo non fosse ancora maturo. Il costituzionalista Mortati intervenne per chiarire che l’autonomia sindacale poteva essere compressa dall’organo abilitato a verificare i requisiti per la registrazione e tentò di indicare il Cnel come sede corretta, anche se non fu seguito da altri. Il repubblicano Mazzei, scomparso meno di un anno fa, si chiese puntualmente: «Come si può dare a questa rappresentanza unitaria di sindacati che siano separati gli uni dagli altri, che siano giuridicamente ognuno dotato di propria personalità giuridica, l’unità che essa non ha?» per cui «il concetto di rappresentanza unitaria è assolutamente inconsistente». Il dibattito fu ripreso dalla commissione Bozzi, operativa tra il novembre 1983 e il gennaio 1985, in particolare con un intervento del socialista Giugni del 18 ottobre 1984 che colse i due punti chiave: la formula adottata nell’ultimo comma imponeva, «sulla base di modelli ideologici» senza «un modello di riferimento concreto», un’unità forzosa («una formula che, mentre permetteva il pluralismo, finiva per essere applicabile soltanto in condizioni di unità»); occorreva porsi il problema «più urgente e più drammatico... quello relativo all’efficacia dei contratti aziendali, con i quali si cerca di governare le operazioni più complesse e più difficile di ristrutturazione delle aziende, di mobilità dei lavoratori ». Parole che sembrano scritte oggi. Ne risultò una proposta di riformulazione che teneva invariato il primo comma, manteneva in un secondo comma il vincolo della democraticità, ma sganciandola dalla registrazione e decostituzionalizzava il resto della disciplina, aprendo a una legge sulla rappresentanza e genericamente ad altri effetti giuridici diversi dai contratti collettivi: «La legge, ai fini del conferimento di efficacia obbligatoria generale ai contratti collettivi di lavoro e ai fini di produzione di altri effetti giuridici, determina i criteri per l’accertamento della rappresentanza dei sindacati». Dal canto suo anche la relazione di minoranza del gruppo del Pci, pur nel clima di scontro relativo al decreto di San Valentino conclusosi col referendum di pochi mesi dopo, ammetteva che «l’esperienza ha dimostrato l’inutilizzabilità degli strumenti contenuti nel testo attuale», dichiarava di condividere i primi due commi e di avere presenti le questioni della «contrattazione decentrata e aziendale», ma riteneva il rinvio alla legge concretamente operato viziato da «eccessiva e ambigua genericità». Si tratta, credo, di ripartire dal testo Giugni per i primi due commi, correggendo il terzo, con la previsione che la legge intervenga per individuare criteri di rappresentatività nei casi in cui si deroghi al diritto comune dei contratti, con contratti collettivi ai vari livelli, coerentemente col disegno di legge ordinario, il numero 1872 dell’11 novembre 2009, primo firmatario il senatore Pietro Ichino. Dopo il referendum di Mirafiori vale la pena di ripartire anche da qui, per un aggiornamento coerente con gli intenti di allora, ma che tenga conto dei limiti e delle novità. Quanto all’assenza negli organismi rappresentativi dei sindacati che non firmino contratti, problema ora riemerso, essa deriva da un referendum del 1995 voluto da Rifondazione comunista e dai Cobas, ed è risolubile con lo strumento della legge ordinaria, meglio se fondata su un accordo delle parti sociali, ma non c’entra con la Costituzione. Stefano Ceccanti
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