Continuiamo comunque

La sconfitta è netta. La settimana era terminata con una dose di rivincita, una specie di ritorno sul trono del principio di realtà. Trump nomina un uomo Goldman Sachs al Tesoro e un generale interventista e internazionalista, anche se di destra, alla Difesa. Altro che rust belt e isolazionismo. David Davis e Boris Johnson, rispettivamente ministro per Brexit e ministro degli esteri di Theresa May, costretti a riconoscere che GB dovrà pagare la sua quota al bilancio UE per restare nel quadro delle libertà dell’Unione e dovrà accettare la libertà di circolazione delle persone. Una specie di svolta – anche se probabilmente solo tattica in vista di un negoziato che non comincia ufficialmente perché nessuno sa come andrà a finire, in primo luogo i brexiters – altro che hard Brexit e GB libera di volare sui mercati globali. E ieri il risultato delle elezioni presidenziali in Austria. Niente da fare. Il voto italiano conferma il dominio della politics of anger con buona pace, per il momento, del principio di realtà. Comincio con l’affluenza al voto. Non è un passaggio di rito, tutt’altro. Sentiamo da mesi giornalisti e osservatori stracciarsi le vesti perché questo governo comprime gli spazi di partecipazione dei cittadini. E lo fa in modo tanto intenso da spingere sempre più in basso il tasso di partecipazione al voto. Come se partecipazione al voto e partecipazione politica fossero coincidenti e come se la gran parte delle solide e mature democrazie occidentali non viaggiassero da decenni su tassi di partecipazione che scontano l’effetto della normalità democratica. Direi che il voto del 4 dicembre smentisce questa lettura ideologica, in cui l’ideologia mschera l’intento populista ed estremista della mobilitazione permanente dell’elettorato. L’elettorato sceglie di mobilitarsi quando lo ritiene necessario in modo flessibile e variabile nel tempo. E anche quando resta a casa la democrazia è forte e salda. Ma abbiamo anche letto autorevoli commentatori esprimere pensosi e preoccupati ragionamenti sull’effetto devastante di un referendum costituzionale sulla tenuta dell’opinione pubblica del paese, sulla sua coesione, perfino sull’unità del paese. Come se la dottrina dell’integrazione costituzionale tanto cara a questi autorevoli commentatori non includesse al suo interno la legittimità del conflitto e anche del conflitto serrato e duro. Direi che il voto del 4 dicembre smentisce anche questa lettura ideologica, in cui l’ideologia maschera l’intento aristocratico di riservare ai “migliori” le decisioni più importanti che l’elettorato non può prendere se non a pena di una specie di guerra civile fredda. Anche in questo caso l’elettorato sa cosa fare e non ha bisogno della tutela dei saggi. La sconfitta è netta. Lo sappiamo: nelle democrazie liberali non vince chi ha ragione ma ha ragione chi vince. Allo stesso tempo in queste democrazie la maggioranza non esprime la verità delle cose anche se è maggioranza. E la minoranza non esprime l’errore perché è minoranza. Per questo le democrazie liberali riescono ad autocorreggersi e sono meccanismi in grado di adattarsi agli altri sistemi sociali, dall’economia alla religione e così via. Nulla di irreversibile dunque: la politics of anger ha fatto da driver anche per questo referendum, come l’aveva fatto per Brexit e come l’aveva fatto per Trump. Ora gli attori del gioco, tutti probabilmente sorpresi per la misura del risultato, debbono rifare i conti e restituire il risultato di questo referendum alla sua dimensione politica. Perché di questo si è trattato: un voto politico allineato alle posizioni politiche e non un voto sulla riforma costituzionale. Come era stato peraltro nel 2001 e nel 2006 a proposito dei due precedenti referendum sulle riforme costituzionali. Un voto allineato in questo caso lungo la frattura disegnata dalla politics of anger mentre ancora nel 2001 e nel 2006 era la frattura destra/sinistra a dominare. Non è che la proposta del governo non abbia fatto incursioni redditizie nell’elettorato di centro e di centrodestra, come dimostrano i primi dati sui flussi elettorali dell’Istituto Cattaneo di Bologna. In alcune importanti città del centro nord anche il 40% dell’elettorato di centrodestra ha votato per il si. Ma il perimetro del voto che si allinea lungo l’asse destra sinistra è ormai ridotto a una parte dell’elettorato in ragione del sovrapporsi di un’altra frattura, quella disegnata dalla politics of anger. E per tornare alla dimensione politica ora non c’è altra via che lo scioglimento anticipato delle Camere e il ricorso alle elezioni. Non è una via facile naturalmente. Occorre negoziare una tregua rassicurante con le Commissione e le istituzioni europee, dare un segnale di forza e di tenuta ai mercati internazionali, attendere la pronuncia della Corte costituzionale sulla nuova legge elettorale. Ma nulla è peggio di un ennesimo governo del presidente, con una maggioranza nebulosa, durante il quale tutti possono giocare di rimessa a danno degli interessi dei cittadini italiani. Insomma niente ritorno al napolitanismo. Avremo due leggi elettorali diverse ma non incompatibili, una majority assuring per la Camera che avrà un inevitabile effetto di traino anche per la formazione delle liste e delle candidature al Senato. E una proporzionale con soglie di sbarramento per il Senato. Oppure, scontando una sentenza negativa della Corte da tutti ritenuta molto probabile, una legge per la Camera senza ballottaggio ma con premio di maggioranza per chi arriva al 40% dei voti. Non possiamo d’altra parte attenderci convergenze ragionevoli su un’ennesima riforma della legge elettorale che a questo punto aprirebbe la strada a una legge proporzionale più o meno pura, quella che tutti i leader del No – a destra e sinistra - preferiscono perché l’unica che consente di mantenere le mani libere e sequestrare il potere di scelta agli elettori. Altro che sbocco autoritario della riforma costituzionale appena bocciata. Non sarà questo Parlamento a cambiare la legge elettorale, l’unica che può cambiarla sembra essere la Corte costituzionale con la sua prossima sentenza. E questo la dice lunga sulla perversa giudiziarizzazione della politica italiana. Detto questo l’arcipelago del riformismo democratico ha certamente bisogno di un’autocritica. Al momento due errori di lunga durata mi sembra meritino attenzione. Il primo è remoto, il secondo è prossimo. La caduta del muro di Berlino ha costruito la meravigliosa sensazione di un necessario approdo quasi globale alle istituzioni della democrazia liberale e dell’economia di mercato come mix di liberta e giustizia. Tutti gli anni novanta hanno vissuto di questa sensazione. Questa sensazione ha portato fuori strada. L’utopismo delle generazioni dei baby boomers ha avuto la meglio su un sano realismo cristiano. Il secondo è prossimo. L’irruzione dei social nella comunicazione politica e nella formazione dell’opinione pubblica ha costruito una seconda meravigliosa sensazione, quella della crescita dell’inclusione attraverso l’infittimento delle relazioni e la loro estensione questa volta sì globale. L’infittimento ha camminato insieme ad una modificazione strutturale del rapporto tra ciò che definiamo realtà e ciò che definiamo sua rappresentazione. Invece abbiamo pensato di poter applicare al rapporto tra democrazia e costruzione dell’opinione pubblica al tempo del web quello che Walter Lippmann diceva al tempo dei media tradizionali: “La teoria di una stampa libera è che la verità emergerà dalla libera discussione, non che sarà presentata perfettamente e istantaneamente in qualsiasi versione.” Questa sensazione ha portato fuori strada. Democrazia, opinione pubblica e web debbono ancora modellare le loro relazioni in modo da avere il meglio dei tre mondi. Due riflessioni sulla lunga durata che non ci servono per capire quale legge elettorale avere per le prossime elezioni o cosa chiedere a Mattarella ma che ci indicano di quali riforme il riformismo ha probabilmente bisogno.

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