Bruno Manghi su Avvenire di oggi
Manghi: «Oltre i limiti del conflitto. In fabbrica e non solo» DI GIORGIO FERRARI T utti vincitori, a quanto sembra, al referendum di Mirafiori: soddisfatto Marchionne, raggianti i sostenitori del sì che ha prevalso seppur di poco, ringalluzzita la Cgil e più ancora la Fiom che nel testa a testa della notte più lunga del sindacato si autocertifica come ringhiosa minoranza di blocco. Ma è davvero così? Ne parliamo con Bruno Manghi, sociologo di fama, già direttore del Centro studi nazionale della Cisl, autore di pubblicazioni di eloquente intonazione, come Fare del bene, il piacere del bene e la generosità organizzata , e Lavori inutili. «Cominciamo a dire che lo strumento referendario in fondo è uno strumento rozzo». Cioè? «La democrazia si fa con le rappresentanze, non con i plebisciti. Sarebbe stato più giusto semmai chiedere un referendum abrogativo dell’accordo ». Quadri e impiegati hanno salvato il referendum: è stato il seggio n.5, quello dei 449 colletti bianchi, a fare la differenza... «Le ricordo che Fiom vuol dire 'Federazione impiegati e operai metallurgici'. La gloriosa Fiom che ho conosciuto negli anni passati era molto attenta agli impiegati, non solo agli operai ». Nondimeno i colletti bianchi sono stati decisivi. «Non era un buon motivo per escluderli dal voto». Viene quasi in mente, in piccolo, la marcia dei Quarantamila... «Ma quale marcia, non facciamo del revival. E poi non sono stati solo gli impiegati a decidere la sorte di Mirafiori: quando anche nei reparti di montaggio il 45-50% vota sì...». Vuol dire anche che il 50-55% ha detto no. Allora ha vinto la paura? «La paura in situazioni come questa c’è sempre, è intrinseca. E certamente ha prevalso sulla furbizia. Comunque i militanti d’opinione sono e rimangono una minoranza, sia per il sì che per il no. Tutti gli altri ragionano in maniera istintiva sulla base degli scenari che si vedono davanti, sulla personale convenienza, magari su consiglio degli amici, dei familiari. C’è chi dice: voto 'no' perché sono stufo e stanco e ho 52 anni, oppure voto 'sì' perché il mio vicino è assenteista». Lei per chi tifava? «Io tifavo per il sì. Il sindaco Chiamparino aveva detto che sarebbe stato un testa a testa. Aveva ragione. Dalla parte del 'sì' c’era paura e preoccupazione, ma dalla parte del 'no' c’è una quota rilevante di persone convinte che la Fiat comunque non chiuderà mai e che sette-otto anni di cassa integrazione speciale potrebbero essere un ottimo scivolo verso la pensione. In pratica, la stessa convinzione che avevano quelli dell’Alitalia che facevano la lotta di classe mettendosi in malattia». Una specie di 'too big to fail', troppo grande per fallire. «Esatto. Pensavano che la Fiat avrebbe messo una pezza». Si parla di cambiamento epocale nelle relazioni industriali... «Il cambiamento epocale è nel mondo. Sono le relazioni industriali che si devono adattare al mondo, non viceversa ». Qualcosa però sembra muoversi. Anche nella nuova Fiat. «Io spero ardentemente che si possa realizzare un salto verso la partecipazione, perché non si può chiedere responsabilità senza far partecipare i lavoratori. I limiti del conflitto li abbiamo visti tutti. Ora bisogna rivendicare la formula partecipativa». Modello Ig-Metall? «Beh, quel modello il sindacato tedesco se l’è trovato bell’e fatto, l’hanno imposto gli americani nel dopoguerra a Konrad Adenauer perché dovendo ricostruire l’industria tedesca si temeva che i grandi cartelli potessero approfittarsene e occorreva bilanciarne il potere. Poi c’è l’azionariato collettivo, come in America. Da noi Ichino e Castro hanno teorizzato la possibilità della partecipazione, ma non l’obbligo». Nell’accordo Fiat c’è qualche apertura partecipativa di tipo tecnico. «Sì, su come si gestisce un isola, per esempio. E c’è chi ritiene opportuno che il team leader venga eletto direttamente dai lavoratori: se vuoi fare la qualità non devi avere dei robot o degli schiavi. Diversa invece è la partecipazione strategica, che presupporrebbe nel cda rappresentanti eletti da tutti i dipendenti, non solo sindacalisti, che giudicano il cda e dicono la loro sulle grandi scelte. Questa secondo me è la strada virtuosa. Ed è un’occasione unica». Come giudica Marchionne: un marziano, un rivoluzionario? «Macché, è un manager con una grandissima esperienza sui temi finanziari, che ha mostrato di avere anche capacità strategiche. Non a caso fu Umberto Agnelli a scoprirlo. Certamente non è un uomo di fabbrica che si intende di relazioni sindacali. Anzi, ne è vagamente infastidito. E poi ci sono due Marchionne: quello che ha operato bene e silenziosamente per anni e quello che ormai ogni giorno parla e straparla». Cesare Romiti avrebbe fatto meglio? «Non credo. Con Romiti ne abbiamo visti di tutti i colori, ma soprattutto la dispersione di una parte notevole del capitale industriale in altre direzioni. Marchionne invece deve salvare la baracca. E questa è tutta un’altra situazione ». Insomma, non mitizziamo questo accordo e nemmeno i referendum Pomigliano- Mirafiori. Giusto? «Posso dire una cosa?» Siamo qui per questo. «Io sono rimasto veramente disgustato da un certo giornalismo, che su Mirafiori come faziosità e disinformazione ha rivaleggiato con i peggiori fogli della destra». In che modo? «Hanno dipinto un mondo di operaischiavi, scegliendo accuratamente solo certe particolari testimonianze». A vantaggio di chi? «Per una certa intellettualità di sinistra non c’è nulla di più eccitante di una bella sconfitta operaia. Bandiere che sventolano, lacrime, rimpianti...». La famosa 'sinistra divina', quella degli 'intellos', come la chiamava il suo collega Jean Baudrillard... «Agli intellettuali piace perdere e soprattutto far perdere: a loro non interessa niente della sorte degli operai, la loro sconfitta gli serve per far trionfare una certa critica del capitalismo». A Mirafiori fortunatamente se ne son visti molto pochi. «A certi intellettuali di sinistra la sconfitta operaia piace. Per poter criticare il capitalismo»
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